"An enchanted momentAnd it sees me throughIt's enough for this restless warrior
Just to be with you"
-Can you feel the love tonight, by Elton John
«Mi pare ovvio che in qualche modo c'entri Shakespeare» sentenziò Sherlock.
«Conosci Shakespeare?» chiese Watson, ormai troppo distratto dal dolore per poter nascondere la punta di stupore nella sua voce.
«Chi non conosce Wallace Shakespeare?» il genio inarcò il sopracciglio. «la poca fiducia che riponi nelle mie conoscenze quasi mi offende.»
«Sherlock, non sapevi che la terra girasse intorno al sole. E comunque è William Shakespeare.» precisò John.
«Per l'amor del cielo John, il nome non è fondamentale. È conoscere il proprio nemico, quello che conta.»
John sbatté le palpebre perplesso. «E in che modo Shakespeare sarebbe tuo nemico?»
«Non Shakespeare... Mycroft!» il genio fece una breve pausa durante la quale i lineamenti del suo viso di porcellana si contorsero in una smorfia infastidita dovuta ad una serie di ricordi che in quel moneto stavano attraversando il suo brillante cervello. «Lui e la sua ridicola ossessione per la letteratura mi hanno perseguitato per tutta l'adolescenza. Ma dovevo studiare e capire di cosa andava blaterando prima di poter dimostrare di essere migliore di lui anche in quello che era a lui più congeniale.»
John trattenne a stento un sorriso incredulo, faticava a capacitarsi del fatto che da una mente tanto prodigiosa potessero scaturire ragionamenti tanto infantili. Ma lui era Sherlock: se sceglievi lui, sceglievi tutto il pacchetto. John lo aveva scelto la prima volta che aveva messo piede al 221B e ogni minuto che passava era sempre più convito che non si sarebbe mai pentito di quella scelta.
«Per Dio! Odio gli indovinelli, li ho sempre odiati. Mi irritano!» nel momento esatto in cui il video era terminato, Sherlock aveva adagiato il tablet in grembo al suo amico e da quell'istante non aveva smesso un secondo di camminare nervosamente avanti e indietro con lo sguardo incollato al terreno, come se sperasse di trovare la soluzione all'enigma su quel pavimento sudicio.
Si leggeva il panico in qualsiasi movimento facesse, chiunque lo conoscesse avrebbe fatto fatica a riconoscerlo. John decise che non avrebbe sopportato quella situazione neanche un minuto di più. Non poteva vedere il genio del suo migliore amico svanire, sommerso da un sentimento tanto umano.
Gli afferrò la parte inferiore del cappotto con la poca forza che riuscì a racimolare. Il movimento brusco innescò un rantolo di dolore che, questa volta, non riuscì trattenere. Strinse il lembo di feltro tirandolo debolmente verso di sé.
«Sherlock, ti prego, siediti qui accanto a me e calmati.» lo implorò, sentendosi esausto.
Il consulente investigativo afferrò il polso del suo coinquilino, indeciso se spingerlo via bruscamente o se ascoltare le sue preghiere. Stava per liberarsi della presa di Watson, quando incontrò le sue iridi grigie, flebilmente illuminate dalla luce della torcia che rifletteva sul pavimento, e vi lesse dentro quanto egli avesse bisogno di lui, quanto la sua lucidità fosse ormai l'unica sicurezza a cui aggrapparsi. Sherlock lasciò cadere la torcia e l'immagine di quegli occhi contornati da profondi solchi violacei scomparve nel buio. Si prese il viso tra le mani e si massaggiò le tempie fino a recuperare il pieno controllo della sua mente e tornò lentamente a sedersi di fianco a John, e questa volta cercò volontariamente il contatto con la sua spalla.
John lasciò ciondolare la testa fino a quando non incontrò il tessuto quasi ruvido del Belstaff del suo coinquilino, per poi accoccolarsi sulla sua spalla. Sherlock serrò la mascella, facendo gonfiare leggermente le guancie spigolose. Era ormai un riflesso incondizionato che il genio aveva sviluppato come reazione ad qualsiasi contatto fisico, seguito, il più delle volte, dall'impulso di scappare il più lontano possibile da chi lo aveva toccato. Ma invece di scattare in piedi fingendo indifferenza, come avrebbe fatto con chiunque altro, Sherlock Holmes chiuse gli occhi. Dietro le palpebre la sua mente proiettò le immagini di un ricordo non troppo lontano.
Faticava a capire come John lo avesse convinto a guardare "I'm A Celebrity Get Me Out Of Here"(1) , eppure era lì, seduto sul divano a gambe incrociate e con gli occhi fissi sul piccolo schermo al plasma. Accanto a lui, il suo migliore amico tentava di spiegare chi fossero i protagonisti del reality.
«Vedi quella è Rebecca Andlington, ha vinto il bronzo nel nuoto alle Olimpiadi» diceva indicando una bionda con le spalle larghe.
«Oh e quello è Bennet Miller, recitava in una serie crime. "Delitti in Paradiso" credo si chiamasse. La signora Hudson ne va matta.» aveva poi detto puntando l'indice contro un altro sconosciuto intento a cercare di rompere una noce di cocco con un grosso sasso.«Che titolo stupido» aveva commentato allora il genio. «il paradiso non esiste.»
Il medico si era limitato ad alzare gli occhi al cielo. Il turno in ambulatorio era stato sfiancante quel giorno, infatti non passò molto tempo prima che le palpebre iniziassero a pesare come incudini. Alle 22'30 John fu costretto ad arrendersi al potere seduttivo di Morfeo, crollando, letteralmente, addormentato con la fronte contro la vestaglia di raso blu del suo coinquilino. Anche quella volta i muscoli di Sherlock si irrigidirono automaticamente, trasformando il suo corpo in un unico blocco di marmo. L'unica cosa che fu in grado di fare, fu ruotare le proprie iridi glaciali verso il viso rilassato di John, come se sperasse di poterlo scansare con un'occhiata.
Per la prima volta notò come le sopracciglia di John fossero curiosamente folte per essere così chiare. Percorse con lo sguardo l'irregolare curva della sua guancia, fino a giungere alle labbra sottili, leggermente schiuse. La piccola fessura tra il labbro superiore e quello inferiore scompariva e riappariva seguendo il ritmo lento e regolare dei suoi respiri. Ne contò quindici prima di rendersi conto si come il suo petto fosse invaso da un morbido tepore che dal centro si irradiava per tutto il corpo. Fu come se il suo cuore, o qualsiasi altra cosa dimorasse nella sua cassa toracica, si stesse sciogliendo come roccia nelle viscere della terra. Per la prima volta provò l'irrefrenabile impulso di voler accarezzare il viso di qualcuno. La sua mano destra era attraversata da piccole scosse che la facevano contrarre quasi impercettibilmente. La sollevò con cautela, facendo attenzione a non compiere movimenti troppo bruschi, che avrebbero potuto svegliare John, e la portò verso il volto dell'amico. Sentì una forza magnetica percorrergli le dita, come fossero delle affusolate calamite bianche. I suoi polpastrelli fremevano curiosi, quasi affamati, di sfiorare delicatamente quella pelle che, colpita dal riflesso bluastro della TV, sembrava ora così liscia e opaca, come un vaso in terracotta.
Le dita del genio si trovavano ormai ad un respiro di distanza dalla gota sporgente di Watson quando questi si mosse infossando ancora di più il viso tra la spalla del suo migliore amico e lo schienale del divano. Sembra quasi che voglia infilarsi sotto il mio braccio, aveva pensato Holmes.
Sherlock si sentì improvvisamente sopraffatto da tutte quelle nuove sensazioni, che ancora faticava a comprendere. Ritrasse le dita, raggomitolandole nel pugno pallido e si scansò bruscamente lasciando così ricadere John a peso morto sul divano.
«Il fuoco.»
La voce del dottor Watson era flebile, ma fu su sufficiente per catapultare Sherlock di nuovo nella realtà.
«Cosa hai detto?» chiese schiarendosi la voce, mentre quel ricordo ancora rendeva Sherlock inquieto.
«Il fuoco è il primo fratello.»
Note:
(1) Reality Show inglese simile a "L'isola dei famosi"
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Locked In || Johnlock
FanfictionL'abbiamo provata tutti, quella sensazione di impotenza. Sì, quella che ti attanaglia l'anima quando ti senti in dovere di aiutare qualcuno, ma non credi di possedere i mezzi per farlo. Tutti l'abbiamo provata, tutti tranne lui: Sherlock Holmes. Lu...