6. Un pessimo medico

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Sherlock premette la punta delle dita contro le tempie imperlate di sudore.

«Okay John, dobbiamo rimanere lucidi. Farsi prendere dal panico sarebbe deleterio.» disse poi congiungendo le mani sotto al mento.

«Io non sono in panico» protestò debolmente il dottore.
Sherlock sapeva che il suo amico non avrebbe mai ammesso il suo vero stato d'animo, per non farlo preoccupare. John lo faceva tutte le volte, credendo che Sherlock non si accorgesse del fatto che sbattesse due volte le palpebre quando mentiva.
Holmes inclinò la testa facendo capire all'amico come, per l'ennesima volta, le sue doti di attore si stessero dimostrando scadenti.

«Ok, forse un pochino.» ammise infine John.

Sherlock giurò di aver sentito un rantolo sommesso proveniente dai suoi polmoni, sperò che si trattasse dell'ennesimo lamento di dolore e non il primo dei sintomi della mancanza di ossigeno.

Il genio sentì lo stomaco fare una capovolta. Ignorò la sensazione di nausea e si inginocchiò di fianco all'amico e prese il viso tra le lunghe dita pallide. La sfumatura azzurrina della luce della torcia rendeva i contorni di quella scena ancora più indistinti, quasi spettrali. Quella volta non si ritrasse da quel contatto, non provò alcun istinto di fuga. Al contrario, ogni istante che passava sentiva sempre di più i suoi palmi modellarsi sulle guancie di John, adattandosi prima alle sporgenze degli zigomi e poi anche alla più sottile delle rughe, quasi volessero diventare parte integrante di quell'espressione spaventata. In un lasso di tempo che entrambi non avrebbero saputo quantificare, la distanza tra i loro volti si era quasi annullata. Se i ricci corvini di Sherlock non fossero stati incollati alla fronte per via del sudore, probabilmente avrebbero sfiorato la fronte di John.

«Ti porterò fuori da qui, John. Hai capito?» sentenziò Sherlock riempiendo l'esigua distanza rimasta con il suo respiro tiepido. Sentì l'amico annuire debolmente. I suoi occhi grigi, normalmente così espressivi da non avere alcun segreto per Sherlock, erano ora vacui, ridotti a due sfere di vetro opaco.

«Gesù, John! Scotti!» Sherlock strabuzzò gli occhi, essendosi reso conto solo in quel momento del contrasto tra la temperatura delle proprie mani e quella del viso di Watson.

Un lampo di razionalità scosse il cervello di Sherlock. Egli ritrasse velocemente le mani, ancora una volta sopraffatto da come quella vicinanza fosse in grado di fargli dimenticare per un attimo dove si trovasse davvero. Con la punta delle dita scostò i ricci scuri da un lato della fronte, facendoli aderire ancora di più alla pelle umida.

«Sarà il caldo.» John alzò leggermente la mano insegno di noncuranza.

«Dopo questa risposta dovrei presumere che tu sia davvero un pessimo medico, ma, dato che ho avuto l'onore di vederti in azione in più occasioni, questa ipotesi mi sembra a dir poco ridicola. Deduco quindi che tu non voglia ammettere di avere la febbre. » Sherlock cercò disperatamente di dissimulare l'angoscia che lo logorava dall'interno dietro la cadenza misurata delle sue deduzioni.

«Sherlock, mi hai promesso che usciremo da qui...» inspirò di nuovo e di nuovo a quel lieve rantolo arrivò alle orecchie del suo migliore amico. «Ma per uscire da qui dobbiamo risolvere quel maledetto indovinello e, come hai detto tu, dobbiamo rimanere lucidi. Quindi ora le mie condizioni non sono una priorità, dobbiamo riflettere.» concluse infine, abbandonando il capo contro la parete metallica.

Certo che sono una priorità, avrebbe voluto rispondere, ma capì come, in quel momento, protestare sarebbe stato solo uno spreco di energie.

«Riflettiamo» disse allora il genio mentre sentiva le guance ribollire. Schiarì la voce, rendendosi conto che, probabilmente, se fossero stati alla luce del sole, si sarebbero visti i suoi celeberrimi zigomi tingersi di un rosso imbarazzo.

«Allora, tutti i personaggi che ha citato fanno parti di opere che in qualche modo hanno a che fare Italia.» constatò John, che sembrava aver racimolato un po' di energia. «Prospero era Duca di Milano, Othello era il 'moro di Venezia' e, beh, Giulio Cesare è chiaramente ambientata a Roma.»

«Roma!» il volto di Sherlock sembrò illuminarsi. «Roma è stata distrutta da un incendio ed è attraversata da un fiume»

«Perché il Tevere dovrebbe essere rilevante?»

«Il nemico del primo fratello, John. L'acqua è nemico del fuoco.»

Il silenzio calò per qualche secondo. «Pensi che ci abbiano portato a Roma?» chiese il dottore incredulo.

L'entusiasmo di Sherlock per la sua precedente deduzione scemò in un battito di ciglio, troppo facile, troppo ovvio.

«No, John, ovvio che no. Siamo fuori strada.» rispose a voce così bassa che persino John faticò a capire.

«Perché 'ovvio'?»

«Perché prima, quando ho esaminato la cella, ho notato due prese per la corrente ed entrambe avevano la forma di quelle che usiamo qui nel Regno Unito. In Italia le prese sono formate da tre fori circolari a uguale distanza» spiego il consulente investigativo con precisione, disegnando nell'aria le forme che stava descrivendo.

«Come diavolo fai a... lascia perdere. Conosci 200 tipi di cenere di tabacco, perché non dovresti sapere anche come sono fatte le prese della corrente di mezzo mondo?» chiese Watson con una sfumatura di sarcasmo che sapeva di casa.

«243, mio caro Watson» rispose Sherlock inarcando l'angolo delle labbra.

Entrambi si lasciarono andare all'unisono in una risata che più che mai stonava con la situazione che stavano vivendo. Sherlock rivide per qualche istante il John di sempre, quello che si arrabbiava con lui per la sua mancanza di sensibilità, ma che due minuti dopo il litigio si alzava per preparare una tazza di te per entrambi.

Il genio sentì gli angoli interni dei suoi occhi pizzicare. Inspirò profondamente ricacciando quelle lacrime da dove erano venute, ancora prima che potessero vedere la luce.

Locked In || Johnlock Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora