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- Chi sei!? - chiesi impaurita allo sconosciuto. Per quanto cercassi di resistere e di impuntarmi, lui era sicuramente molto più forte di me. Le mie spinte non sembravano non scalfirlo minimamente. Dove era Aaron quando serviva?
- Che c'è, non sono nemmeno degna di una tua risposta? Sei snervate! Perché mi stai rapendo? Lavori per Damphir? O sei addirittura tu, Damphir? - Non ricevetti nessuna risposta. - Rispondimi! -
- Damphir non ti farà del male, almeno non finché resterai con me. -
- Oh, parli allora! - risposi ironicamente. - Senti, mi vuoi togliere questo orribile sacco dalla testa? Non mi piace non poter vedere. -
- Lo so. -
Come faceva a saperlo?
- Come... - lasciai la frase in sospeso pensando che mi avrebbe risposto. - Liberami. Non mi piace essere legata. -
- So anche questo. -
- Che cosa sei, una specie di stalker? - domandai alzando il tono di voce cercando di liberarmi dalla sua salda ma gentile presa. - Lasciami ti prego! -
Iniziai a piangere per l'impotenza che sentivo crescere in me.
- Oh piccola mia... Mi dispiace doverti fare questo ma sono obbligato a farlo. Se ti lasciassi libera tu scapperesti da me. Io devo proteggerti, io voglio proteggerti. -
Nonostante i miei dubbi, non volevo farmi vedere più debole di quanto già stavo mostrando.
- Proteggermi da cosa? Io avevo già tutta la protezione di cui avevo bisogno prima che tu mi strappassi da quella che era diventata la mia casa! - Piansi di rabbia e il fatto che mi stessi inzuppando il viso di lacrime senza poterle portate via con la mano mi faceva infuriare ancora di più.
- Proteggerti dai vampiri, dai Distruttori e da tutti coloro che ti vogliono. Nonostante i tuoi amici abbiano fatto un buon lavoro fino ad ora, non significa che siano all'avanguardia quanto me. È stato un gesto davvero sconsiderato portarti da quel succhiasangue rinnegato. - Notai nel suo tono dell'astio e dello scetticismo. La sua presa su di me era meno ferrea di quanto lo fosse poco prima. Stavo riuscendo nel mio intento, lo stavo distraendo.
- Cosa vogliono da me? - Nonostante il mio intento fosse liberarmi, ero davvero curiosa di conoscere le risposte a quelle vitali informazioni che ero riuscita a fargli spiccicare di bocca.
- Non lo so. - Il mondo mi crollò addosso. - Ma credo che ti vogliano per ragioni diverse. Anche i piani alti ti stanno reclamando. -
Una scintilla di speranza si riaccese in me.
- I piani alti? -
- Si, gli arcangeli. Tutti ti stanno cercando, chi per un motivo, chi per l'altro. -
- E allora perché i licantropi non mi hanno rinchiuso? Perché Damphir mi ha lasciata libera? -
- In effetti non so nemmeno io il motivo per il quale Damphir ti abbia lasciata andare, me lo domando anche io. Riguardo ai licantropi, beh, forse ancora non sapevano cosa sei. -
- Perché, che cosa sono? -
Non mi rispose. Sentivo che stava tornando a richiudersi nel suo silenzio, dovevo fare qualcosa.
- Almeno dimmi il tuo nome... -
- Mi chiamo Kaname. -
Senza che me ne rendessi conto il mio corpo si bloccò sul posto cogliendolo di sorpresa. Nonostante colsi di sorpresa anche me stessa, capii che era la mia ultima possibilità. Tirai uno strattone forte proprio mentre lui era sovrappensiero. Mi liberai le mani come mi aveva insegnato Aaron e velocemente mi tolsi il cappuccio. I nostri sguardi si incontrarono ed io mi sentii improvvisamente debole e priva di forze. Mentre stavo per accasciarmi a terra e i miei occhi si stavano per chiudere, captai solamente due parole. Due parole che mi causarono veloci e confusi flashback prima del buio totale.
- Giglio mio... -

Kaname's pov

Un attimo prima che si schiantasse a terra la presi tra le mie braccia. Con un braccio sotto le sue ginocchia e una mano dietro la schiena, ripresi a camminare. Il mio piccolo, dolce e delicato giglio. Quanto mi era mancata... Per anni l'avevo cercata ovunque in tutto il mondo, non mi ero mai dato un attimo di pace. Quando poi ero riuscito a localizzarla nella casa dei suoi zii cacciatori, scomparve. A quanto pare ci era riuscita da sola, a liberarsi. Non ho più saputo dove fosse finita per tutti quei mesi. Mi ero preoccupato così tanto che fosse successo qualcosa al mio piccolo giglio...
Mi dispiaceva averla strappata via dalle persone di cui aveva iniziato a fidarsi ma era tempo che la riportassi a casa. La nostra casa. Ero estremamente geloso di lei, da sempre. Anche quando era una semplice bambina, io mi sentivo in dovere di proteggerla e di non farla avvicinare a nessuno del sesso opposto. E così fu, ma non da subito. Tutti i bambini della nostra età avevano paura di me e delle mie brusche reazioni quando ero arrabbiato e/o geloso. L'unica con cui mi sentivo diverso e mi comportavo amorevolmente era con lei, Lilu. Un nome veramente carino, il suo, simile a Lilith, la moglie di Lucifero. Amavo guardarla sorridere, ma quando lo faceva a qualche bambino che non fossi io, distruggevo sempre qualcosa. Fu per questo che io, Lilu e le nostre famiglie ci trasferimmo in una villa lontano dagli altri della nostra specie. Lei era mia e la volevo soltanto per me. Ero egoista, me ne rendevo conto, ma lei scaturiva in me tantissime emozioni diverse. Fin da sempre ero burbero con tutti i bambini e bambine della mia età o più piccoli mentre con gli adulti ero un perfetto ometto di caso. Non disubbidivo mai ai grandi e facevo tutto ciò che c'era da aspettarsi da me in quanto prossimo a diventare il capofamiglia. Poi, due anni dopo la mia nascita, nacque Lilu, un minuscolo affarino di carne, occhi e bava. Inizialmente mi disgustava, sempre lì a fissarti con quegli occhioni giganti da cerbiatta e con quel sorriso dolce. Essendo il primo bambino che aveva visto, mi seguiva ovunque come un'ombra. Ovunque andavo io, c'era sempre anche lei una decina di passi indietro. Quando ancora non sapeva parlare, le rubavo il ciuccio di bocca come dispetto o le facevo le boccacce durante i pasti. Come mi aspettavo, iniziava a frignare e in quei momenti non la sopportavo per davvero, anche perché la maggior parte delle volte i grandi scoprivano che la causa ero io e allora mi toccava scusarmi con lei. Io, Kaname, che mi dovevo scusare con una poppante come lei. Anche quando iniziò prematuramente a camminare e non più a gattonare, iniziai a ritrovarmela ovunque. Nonostante non la sopportassi, iniziavo a provare un certo rispetto per quell'esserino che nonostante tutte le mie bravate, continuava a seguirmi nell'ombra fedele come un cane. Presto si fece donna, per quanto una bambina di due anni potesse esserlo. Il suo portamento fiero e lo sguardo intrigante facevano già presagiva l'adulta che sarebbe diventata. La sua andatura incerta aveva già un che di elegante, ma nonostante io provassi rispetto per lei, continuavo imperterrito a farle dispetti e con mio grande stupore smise di piangere. Aveva smesso così, da un giorno all'altro. Mi stupii anche che non facesse la spia quando vedeva che ero io a romperle le bambole. Sapeva parlare, eppure non diceva mai nulla a nessuno. I grandi a volte la sgridavano pensando che le bambole le avesse rotte lei e tanto per stupirmi ancora di più, continuava a non dire nulla. Con il suo muto silenzio si prendeva sempre la colpa di tutto quando in realtà il colpevole ero io. Così smisi di darle noia e di farle i dispetti poiché non c'è più gusto. Era questo ciò che mi ripetevo, ma sapevo benissimo che in realtà avevo smesso perché iniziavo a provare davvero rispetto per quella bambina che cresceva inesorabilmente bene. Più gli anni passavano e più diventava bella, prosperosa nel fisico e acuta nell'intelligenza. Anni dopo l'ultima volta che le feci un dispetto, quando ormai il nostro rapporto era consolidato e io non facevo avvicinare nessuno a lei, le chiesi il motivo per cui non aveva mai fatto la spia in tutti quegli anni. Mi rispose con un dolce sorriso sulle labbra "Perché sapevo che non lo facevi per cattiveria, ma per noia". Mi spiazzò completamente. Era l'unica che era riuscita a comprendermi, a comprendere il mio grande stato di insoddisfazione verso ciò che mi circondava. Lì iniziai ad amarla. Non era un amore come quello che si crea tra amanti, era un amore malato e possessivo. Non la lasciai più allontanare da me e a lei andava bene così. Quando poi i suoi genitori morirono, Lilu non venne minimamente scalfita, apparentemente. Sapevo che stava molto male ma non lo diede mai a vedere. Alcuni dei grandi credevano che fosse una bambina insensibile a cui non interessava nulla se non di me, altri invece credevano che con il suo temperamento sarebbe diventata un'ottima principessa. Io non sapevo che pensare. Quella notte, quando il silenzio regnava sovrano e il buio sovrastava ogni cosa, Lilu si presentò in camera mia cercando conforto. Si sdraiò sul letto accanto a me e io la strinsi forte cercando di contenere i suoi grandi sussulti. Singhiozzò e pianse appoggiata contro il mio petto per ore. Quando poi si calmò alzò il viso verso di me e mi chiese "Si vede che ho pianto?". Di rimando le sorrisi e decisi di portarla fuori in giardino con me mano nella mano. Appena varcammo la soglia d'ingresso un'arietta fresca ci invase corpo e mente. La portai sul retro della nostra villa dove c'era un'enorme serra di vetro. Mi avvicinai a un cespuglio vicino alla "casa delle piante", come la chiamava lei, e vidi un giglio. Le chiesi di chiudere gli occhi e di non sbirciare che presto sarei tornato. Come sempre, fece esattamente ciò che le avevo dolcemente ordinato senza fiatare. Andai a raccogliere il giglio e glielo misi sotto al naso. Le tolsi le mani che teneva davanti agli occhi e dissi: "Ecco. Purezza e fierezza d'animo sono ciò che ti accomunano a questo bellissimo fiore". Da quella notte, la soprannominai sempre Giglio. Per anni i grandi cercarono di scoprire il perchè di quel soprannome ma sia io che lei mantenemmo segretamente nascosta la sua origine, gelosi che qualcuno al di fuori di noi potesse comprenderla.

Giunto al mio suv nero lucido, rallentai di molto la mia andatura. L'adagiai sui sedili posteriori e mi misi al volante. Subito partii avviandomi, finalmente, verso casa.
Ero preoccupato come non mai. Aveva iniziato a tremare e borbottava qualcosa che io non capivo.
- ... Paura ... No! ... Via! ... Aaron, aiutam... -
Serrai la mascella. Che avesse davvero così tanta paura di me? Davvero non ricordava nulla di me, di noi? Eppure quando i nostri sguardi si erano incontrati, mi era parso che mi avesse riconosciuto. Il fatto che anche da svenuta pensasse a lui, Aaron, mi faceva imbestialire. Non ero più geloso ai livelli di quando ero un bambino, ma lo ero comunque. E se lui le avesse spezzato il cuore? Lilu è come un fiore: bellissima, delicata ma anche molto fragile.
Una volta arrivato parcheggiai l'auto in modo sbrigativo e la ripresi tra le mie braccia. La testa le ricadeva all'indietro e la sua temperatura corporea era aumentata a dismisura. Non feci in tempo ad aprire la porta di casa che il mio fidatissimo maggiordomo l'aprì per me. Fece spazio per farmi passare solo dopo un attimo di indugio nel vedere Lilu. A quanto pare anche lui non si era dimenticato di lei. George [=si legge Giorg, all'inglese per intenderci] era il maggiordomo della mia famiglia da molto tempo ormai, di conseguenza aveva visto crescere sia me che Lilu. Era un uomo di mezza età, per questo chiunque avrebbe capito che non era un demone dalla nascita, ma un Trasformato.
Passai oltre e mi avviai verso quella che un tempo era stata la camera di Lilu. L'adagiai sul letto evitando di coprirla con le coperte e chiamai le cameriere per lavarla e vestirla, esclusivamente dopo che si sarebbe svegliata da sola. Non mi sarei mai permesso di spogliarla senza il suo permesso. Nonostante il suo corpo formoso fosse per me una tentazione, evitavo il più possibile di pensarci. Mi tentava perché era una donna bellissima, e presto sarebbe diventata una demone strabiliante. Prima di uscire dalla stanza, mi sedetti sulla poltroncina vicino alla finestra e la osservai. Era cambiata molto dall'ultima volta che l'avevo vista. Dodici anni erano tanti ed erano tante anche le cose che mi ero perso della sua vita. Il profumo del suo sangue riempiva la stanza ed era talmente forte che non mi ero nemmeno reso conto di essermi avvicinato pericolosamente a lei. Non era da me perdere il controllo ma il suo odore era come un afrodisiaco. Arrabbiato però per la mia grande sconsideratezza nell'aver perso la lucidità proprio in sua presenza, uscii dalla stanza lasciandola nelle mani delle due cameriere nuove che avevo assunto da pochi anni. Mio padre, essendo il generale dell'esercito e il consigliere di Lucifero, si era dovuto trasferire più vicino agli inferi e mia madre, ovviamente, lo aveva seguito. A quel tempo io avevo appena quattordici anni, un anno prima dell'età media della maturità per un demone giovane come me. L'educazione che avevo avuto e il grande rispetto che provavo verso gli adulti della mia famiglia mi erano stati molto di aiuto per il raggiungimento della mia maturità un anno prima rispetto alla media. Avendo avuto la possibilità di scegliere, avevo preferito di gran lunga continuare a vivere sulla superficie terrestre, lontano dal caldo afoso e da tutti i miei sottoposti essendo di casata reale. Per cinque anni l'avevo cercata e per cinque anni George era stato al mio fianco aiutandomi nelle ricerche per quanto gli fosse possibile.
Mi diressi verso la stanza della musica e mi accomodai sul morbido ma ormai logoro panchetto foderato in pelle nera lucida che si trovava di fronte al pianoforte a coda anch'esso nero. Feci scorrere le mie dita affusolate lungo i tasti senza però premerli ripensando a quante volte li avevo visti abbassarsi e ritornare nella loro posizione iniziale creando sinfonie bellissime. Mi era sempre piaciuto improvvisare melodie in base al mio umore senza avere vincoli da seguire come lo spartito e un maestro che mi riprendeva ogni qualvolta che nelle sinfonie mi lasciavo andare e ci mettevo qualcosa di mio. Avevo imparato a stare composto con la schiena rigida e le braccia morbide e flessuose, le dita dovevano scorrere lungo la tastiera senza fare movimenti bruschi che però dovevano essere al tempo stesso anche meccanici, lo sguardo dritto sullo spartito o davanti a me in un punto indefinito e l'espressione neutra sul volto di ghiaccio. Ero così esclusivamente in presenza di qualcuno, chiunque, senza eccezioni. Ma non appena mi ritrovavo da solo davo il via libera ai miei pensieri e alle mie più recondite emozioni creando così, per la maggior parte delle volte, melodie malinconiche e struggenti.
Essendo lucido di mente guardare il pianoforte mi creava dentro emozioni tristi e melanconiche, così, arrabbiato con me stesso per essermi fatto influenzare così tanto solo alla vista di quello strumento, raggiunsi la biblioteca con grandi falcate. Come era mia abitudine, mi accomodai sulla poltrona esattamente sotto a una delle grandi finestre che di giorno inondavano la stanza di luce e continuai a leggere il libro che avevo lasciato a metà.

Occhi rosso sangueDove le storie prendono vita. Scoprilo ora