Il mio è un mondo in bianco e nero

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Esci di casa, svolta a destra, sempre dritto fino alla rotonda, prendi la seconda uscita, ancora dritto, svolta a sinistra, continua per 500 metri e sulla destra è la tua destinazione.

Il percorso ormai lo sapevo a memoria.

Avevo fatto almeno 150 giri di ricognizione durante l'estate, mi ero pure infiltrato nel cortile due volte e avevo guardato dentro le aule dai finestroni.

Ero preparato fisicamente.

Ma mentalmente sapevo che sarebbe andato tutto male.

Non era pessimismo, ma realismo.

Perché era il mio primo cambio di scuola e non ero per niente pronto.

I miei purtroppo erano delusi, glielo leggevi in faccia, ma vedevi anche nei loro occhi una piccola scintilla, che brillava sempre: la speranza, quella che ormai io avevo perso e che, diciamocelo, non avevo mai avuto.

Tobia è sempre stato il mio contrario.

Era il ritratto della positività, non si arrendeva mai e aveva un'energia spaventosa.

Gentile, spigliato, ci sapeva fare con le ragazze però senza essere cazzone.

Era un fratello fantastico, giocavamo sempre a basket quando avevamo tempo e mi dava sempre ottimi consigli.

Ma c'era una cosa che amava al di sopra di tutto: la sua moto.

Era una Harley-Davidson Street 750, nera, lucida e con un motore molto potente.

Era il gioiello di mio fratello, ereditata da uno zio lontano appassionato anche lui di motori, era diventata parte integrante della famiglia.

Nessuno immaginava Tobia senza quella moto.

Ma qualcuno gliela portò via, senza lasciargli il tempo di godersela appieno, in una tragica mattina di ottobre.

E insieme alla moto, la morte si portò via anche Tobia.

Un incidente, una distrazione del camionista e di mio fratello e la mia vita subì un cambiamento che mi ostino ancora a non accettare.

Vorrei fermare in loop la sua vita prima di quel giorno e viverla per sempre.

Ma non è possibile.

Da quel momento niente ha più avuto forma, colore, dimensione.

Qualsiasi cosa facessi era inutile, non mi piaceva più giocare a basket e a scuola cominciai a fare schifo.

Cominciai ad allontanare i pochi amici che avevo, senza risultati perché volevano sempre starmi accanto.

Fantastici direte voi.

Ma un giorno non ci ho più visto.

Mi è presa una forza incontrollabile, che non sono riuscito a contenere e il resto è tutto nero.

Quando ho ripreso il controllo mi sono trovato davanti ad un'amara realtà: a due avevo rotto il setto nasale e a Giosuè, il mio migliore amico, avevo storto il polso e colpito l'occhio, cerchiandolo tutto di nero.

Mi guardarono in quel momento, avevano delle facce sconvolte, ma erano soprattutto i loro occhi, pieni di disprezzo nei miei confronti che mi scrutavano imperterriti.

Provai vergogna, tantissima vergogna mista a un sacco di altri pensieri negativi.

Ma ero soprattutto intenzionato a scoprire il perché di quella forza che mi aveva preso.

Quando arrivai a casa, i miei sapevano già tutto.

Non mi parlarono per due mesi.

E così anche Giosuè, Elia e Giacomo presero le distanze, lasciandomi solo durante gli ultimi mesi di scuola.

A scuola la notizia si diffuse rapidamente e venni etichettato come un mostro da cui tutti dovevano stare lontani.

Avevo ottenuto ciò che volevo sì, ma non esattamente come mi ero aspettato.

Non era stato intenzionale questo mio scatto di rabbia e volevo vederci chiaro.

I miei prenotarono, sotto consiglio del preside, un colloquio con lo psicologo della scuola.

Era un uomo molto vecchio, sulla sessantina, con una barba grigia tenuta incolta e due occhi neri come un cielo senza stelle.

Appena entrato nella saletta a lui riservata vicino all'ufficio del preside, lo guardai per dei secondi che sembrarono eterni.

In quei pochi secondi lui mi scansionò e capì subito che c'era qualcosa che non andava.

Il colloquio durò un'ora e mezza e passò così velocemente che non me ne resi conto.

Alla fine mi diede un foglietto con un numero di telefono di un suo "amico" che mi consigliò di chiamare il giorno stesso.

E così feci.

Scoprii che avevo bisogno di rimanere tranquillo per un lungo periodo perché, a quanto pare, soffrivo di problemi di gestione della rabbia e avrei trovato riparo in una struttura costruita apposta per il mio tipo di problema.

Lì sarei pure andato a scuola, avrei mangiato e parlato regolarmente con uno specialista nel campo dei problemi comportamentali.

Un sollievo per i miei, che finalmente ricominciarono a parlarmi dopo la mia promozione (ottenuta secondo me con un gran calcio in culo).

Durante tutta l'estate non feci altro che fare giri intorno alla mia futura nuova "casa", trovando ogni giorno qualcosa di diverso da vedere.

Ero agitato più che emozionato di entrare in quella nuova scuola, e quando il giorno fatidico arrivò mi rassegnai.

I miei mi accompagnarono e quando prima di entrare mi girai e li guardai scorsi nei loro sguardi una punta sottile di amarezza.

"Speriamo bene" mi dissi ed entrai.




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