capitolo 10

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Quella sera non riuscii ad addormentarmi. Continuavo a girarmi e rigirarmi nel letto, ripensando a quelle parole scritte sul biglietto. Speravo davvero che riuscisse ad evadere e, magari, portarmi con sé, ma non pensavo fosse possibile. Insomma, era sempre sorvegliato, 24 ore su 24, non aveva contatti con il mondo esterno, non aveva armi a disposizione. Era troppo anche per un genio come lui. Finchè non mi venne un'idea. L'avrei fatto uscire io da lì. L'avrei aiutato ad evadere. L'indomani avrei rimediato un altro incontro e gli avrei chiesto come fare per aiutarlo a fuggire.

Nonostante la stanchezza per aver passato la notte insonne cercai di dare una buona impressione quando andai dal direttore. Lui accettò la mia richiesta dicendo che avrei potuto tenere un'altra seduta il mese dopo. A quel punto sbottai: ero stufa di dover sempre aspettare così tanto tempo, e soprattutto non potevo permettermelo. 'Insomma, perchè tutti questi tempi morti? Sa in un mese quante sedute potrei tenere? E non riesco a capire perchè ogni santa volta devo chiedere il permesso. Gli altri psicologi non lavorano così!' Il direttore si tolse gli occhiali e mi fissò severo 'dottoressa Quinzel, si tratta semplicemente di sicurezza. Gli altri psicologi non hanno a che fare con un criminale terribile come Joker,' e qui sottolineò il nome con una nota di disprezzo 'per cui non devono necessariamente chiedere quando poter incontrare i loro pazienti'. A queste parole risi. 'Sicurezza? Davvero? Non riesco a capire come i diversi giorni possano modificare il livello di sicurezza' continuai a sparargli scuse per qualche altro minuto, finchè disse 'e va bene! D'ora in poi potrà tenere le sedute quando vuole! E ora fuori dal mio ufficio!!' Uscendo ridacchiai. Non ero mai stata così persuasiva prima d'ora, ma non mi scomposi. Andai dritta alla camera di Joker, ma mi attendeva una brutta sorpresa. Quasi tutto il personale del manicomio, sia dottori che guardie, mi aspettava lì davanti, con le braccia incrociate davanti al petto. Da qualche settimana non li sopportavo più, ma cercai di fingermi amabile 'ragazzi! Che ci fate tutti qui??' esclamai con un sorriso falso stampato in faccia. Una delle guardie rispose che tutti loro avrebbero assistito alla seduta per ordini del direttore. Per un attimo il mio sorriso si spense, poi però dissi 'ma certo! Non c'è problema!', anche se dentro di me maledicevo il direttore in tutte le lingue. Non avrei potuto parlargli direttamente, ma per fortuna avevo preparato il piano B, giusto in caso di emergenza. Entrai e mi sedetti come al solito di fronte a Joker, poggiando i gomiti sul tavolo. Lui improvvisamente mi guardò, però non era il solito sguardo che mi riservava, questo sguardo sembrava non contenere emozioni. Poi iniziò a ridere, la sua risata folle e malsana mi riempì le orecchie, finchè non si bloccò per dire, guardando alternativamente me e lo specchio dietro al quale si trovavano i miei colleghi 'siete davvero convinti di potermi guarire, vero?
Ci credete sul serio? Poveri illusi, mi aspettavo foste più intelligenti...'. Ero confusa dalle sue parole, finché non capii. I miei sospetti vennero confermati quando mi fece l'occhiolino: fu quasi impercettibile, ma lo notai. Sapeva che ci stavano guardando e che non potevamo parlare direttamente. Io rimasi seria per non destare sospetti, anche se risposi all'occhiolino. Poi iniziai a fargli domande in un tono formale. Dopo circa dieci minuti gli mostrai delle foto che mostravano alcune delle sue vittime, e gli chiesi 'cosa provi quando rivedi queste foto? Cosa pensi nel vedere degli innocenti uccisi brutalmente solo per divertimento??' E qui scatta il piano B. Tra le foto c'era anche un foglietto di carta, con su scritto 'Dimmi cosa devo fare'. Ero sicura che avremmo trovato un modo di comunicare. Lui iniziò a parlare, parlò della sua voglia di uccidere, del suo sadismo, ma non gli prestai molta attenzione, mi concentrai di più sui suoi gesti per cogliere il minimo segnale. Dopo un quarto d'ora avevo perso le speranze, finchè non lo vidi alzare gli occhi al cielo. Sembrava un movimento involontario, poteva anche sfuggire allo sguardo, ma sapevo che era quello il segnale che aspettavo. Decisi però di non alzare subito lo sguardo, pensando che avrei insospettito qualcuno dei miei colleghi, per cui aspettai la fine della seduta, quando una guardia entrò per dirmi che il tempo era scaduto. Sbuffai e a quel punto alzai gli occhi al cielo: sul soffitto c'era scritto qualcosa. Non riuscii a capire a primo impatto cosa ci fosse scritto, poichè erano stati usati altri caratteri, ma con una seconda occhiata capii: erano caratteri dell'alfabeto dedrico. Chiesi alla guardia di avere altri cinque minuti, e quando quella acconsentì ed uscì, io continuai a porre domande a Joker, fingendo di prendere appunti quando in realtà mi stavo appuntanto quella scritta.

Quando ebbi finito continuai a fingere di ascoltarlo, anche se nella testa mi frullavano un milione di domande: come faceva a sapere che gli avrei chiesto come aiutarlo? Come faceva a sapere che avrei riconosciuto l'alfabeto? Ma soprattutto, come ...

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Quando ebbi finito continuai a fingere di ascoltarlo, anche se nella testa mi frullavano un milione di domande: come faceva a sapere che gli avrei chiesto come aiutarlo? Come faceva a sapere che avrei riconosciuto l'alfabeto? Ma soprattutto, come aveva fatto a scrivere sul soffitto? Non solo perchè si trova ad almeno cinque metri da terra, ma anche perchè lui è sempre, costantemente legato da una camicia di forza... "nello stesso modo in cui ha lasciato la rosa e il biglietto sulla mia scrivania" pensai. Mi accorsi che Joker, dopo aver elencato le numerose proprietà del suo smilex -non avevo la più pallida idea di come fosse arrivato a parlare di quello- non stava più parlando, per cui alzai lo sguardo dal taccuino. Sorrideva come al suo solito. Decisi di porgli una domanda criptica. Gli chiesi semplicemente 'come hai fatto?' Sicuramente gli altri l'avrebbero interpretata come una domanda riguardo alla produzione dello smilex, ma lui avrebbe capito che mi riferivo al suo messaggio. 'Il fatto, cara Harley, è che le persone normali sono così prevedibili...'
A quel punto entrò di nuovo la guardia e mi intimo di uscire. Mentre camminavo pensai e ripensai alle sue parole. Mi considerava prevedibile. Mi considerava una 'normale'. Gli avrei dimostrato che non ero così. Che potevo essere anche imprevedibile e pericolosa.

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