Seinlef
Nacqui in una calda primavera del 1762 quando da poco la neve si era sciolta e gli occhi potevano nuovamente vedere gli ossuti rami degli alberi che si rispecchiavano nell'acqua di un piccolo corso d'acqua che durante l'inverno, scorrendo veloce, non aveva lasciato che si formasse neanche una sottile lastra di ghiaccio, che invece le acque del lago al di là del boschetto avevano accolto tanto facilmente.
Il legno rosa di quella casetta in campagna consumato dal tempo è stato la mia prima culla, che insieme a mia madre, di cui non ricordo i lineamenti del volto, mi ha accudito e protetto dal vento e dalla pioggia d'inverno e dal caldo sole estivo.
Non posso dire che tutto ciò mi manchi. I suoi abbracci, i suoi baci sulla fronte, le sue carezze. Le favole improvvisate che mi raccontava per farmi dormire o le lunghe passeggiate sulla riva del fiumiciattolo che contorna la casetta. Non ricordo nulla di tutto questo. Forse non è mai accaduto.
Mia madre morì quando avevo sette anni, e mio padre ne rimase sconvolto. Era arrabbiato con se stesso e al tempo stesso distrutto per aver perso la donna che lo aveva accompagnato nel viaggio della vita per trentasette anni.
Mia madre non lavorava solo in quella povera casetta di campagna trovandone sempre qualcosa da valorizzare, e facendoci sentire come se vivessimo in un grande palazzo di qualche conte del posto, ma aiutava anche mio padre a lavorare i campi, dando un grosso contributo quando mio padre era via per quelle lunghe giornate in cui scendeva in città con mio zio per inserirsi nella folla con la sua bancarella. Una volta, ricordo, mi portò con lui.
Ricordo dalle sue spalle la vista dei cappelli di tutti coloro che andavano al mercato per comprare di che mangiare, o più semplicemente per incontrare gli amici, o per passare quelle poche ore di tempo libero della frenetica vita cittadina.
Non che la vita in campagna fosse una passeggiata. Ne ho sentita tanta di gente, in un solo pomeriggio, dire di voler andare a vivere in campagna, almeno per un po', per staccare dal lavoro. Ma poi mio padre mi disse che quei grandi mercanti e banchieri non avrebbero lavorato, ma si sarebbero goduti la vita come fossero bambini che scoprono l'aria fresca.
Dopo che mamma era morta oramai da tre mesi, ripensai una notte a queste parole.
Come fossero bambini che scoprono l'aria fresca.
Mio padre non lavorava più, restava tutto il giorno su quella vecchia sedia di mio nonno. Da quando si alzava dal lettone che senza mamma sembrava un deserto, fino a quando si riaddormentava sempre guardando fuori dalla finestra seduto su quella maledetta poltrona, e io lo svegliavo, per portarlo a letto.
Avevo sette anni, e già non ero più un bambino. Non potevo scoprire l'aria fresca. In un attimo da bambino quale ero divenni grande. Quel momento tanto desiderato era diventato realtà. Ma mi terrorizzava. E tanto.
Io coltivavo la terra, raccoglievo i frutti dagli alberi e davo da mangiare agli animali. Scendevo poco più in là per prendere l'acqua al fiume con un secchio che pesava più di me e mio padre si alzava dal letto solamente quando lo zio lo costringeva ad andare in città.
Non mi ci portò più, in città. Quegli interminabili momenti in cui non sapevo se preferire che tornasse o di non rivederlo più, su quel carretto di legno appena ridipinto di bianco.
Un giorno scese da quel carretto bianco più pallido che mai. Cadde a terra appena mise piede sul terreno bagnato dalla prima pioggia d'autunno.
Lo zio mi aiutò a portarlo in casa e si risvegliò ben due giorni dopo nel letto, coperto da decine di lenzuola che aveva portato la zia dalla sua casa non lontano da quel legno marcio della nostra.
Oramai era proprio un ammasso marcio di legna da ardere quella casa che mamma aveva tanto amato e curato per lunghi anni.
Durante quei giorni di malattia scesi più volte in città per cercare tutte le erbe medicinali possibili accompagnato da mio zio; ma dopo aver girato a lungo tra le varie e colorate bancarelle, o non ne avevano di adatte o costavano troppo, e la temperatura non scendeva, il suo volto era rosso, e pur respirando non rispondeva ne apriva gli occhi. In quella disperazione c'era però anche sollievo, non vedendolo seduto davanti alla solita maledetta finestra sulla solita maledetta sedia, ma era un sentimento malsano, e ne ero consapevole.
Non ricordo quanti anni avesse quando morì. Aveva combattuto da giovane nella Terza Grande Guerra. Era miracolosamente sopravvissuto alla più violenta e devastatrice delle tre, ed era tornato a casa seppur con una sola gamba, e morì felice sulla stessa poltrona su cui mio padre si abbandonava intere giornate dopo la morte di mamma. Mio padre e lo zio seppellirono il nonno nel giardino, dove avrebbero sepolto anche la mamma.
Morì felice, mi ripeteva mio padre. Ma non ci credo. Da poco mia nonna si era allontanata, ma non perché la morte l'aveva presa, ma per propria scelta personale. Se la donna che si ama ti abbandona per desiderio di cambiare aria, si può anche essere contenti dopo un po'. Per l'abitudine di non vederla più si arriva a una certa rassegnazione. Sarà morto contento di aver vissuto la vita che gli restava accanto ai figli e alle famiglie che avevano creato, ma non felice. Non sereno. La serenità non l'ha mai raggiunta secondo me, ma mi potrei stare anche sbagliando. Forse mi sono fatto un'idea sbagliata del nonno. Forse era veramente quell'eroe di guerra ideale, che non prova sentimenti se abbandonato. Io comunque continuerò a tenerlo nel mio cuore come un bellissimo quadro, che se visto da lontano è perfetto, ma avvicinandosi si possono notare le increspature della pittura, quelle che caratterizzano veramente una persona.
Quando mio padre si era risvegliato da un paio di giorni, passando continuamente dal lettone vuoto alla vecchia sedia, io continuavo a lavorare per procurare di che mangiare a me e a mio padre in quella vecchia fattoria abbandonata da Stragh.
Durante il tragitto tra l'acqua e la fattoria mantenevo il secchio tra le mani e vidi il riflesso del sole, ormai basso anche nelle ore del primo pomeriggio, e poi nelle minuscole increspature dell'acqua formatesi dal movimento barcollante del mio camminare, osservai il mio volto pallido e stanco.
I lunghi capelli biondi che si bagnavano nell'acqua del secchio, e come fili d'oro escono dall'incudine così nascevano dall'acqua. Gli occhi erano d'oro, con sfumature scure, illuminati dal rosso sole che affiorava basso da dietro le verdi colline levigate dai venti dell'Ovest.
YOU ARE READING
Seinlef, re per destino
FantasyQanulsui[Buongiorno], io sono Seinlef, Re di Castèra, e vi racconterò la mia storia. Sono nato in una povera fattoria ai confini del Regno di Rodamessal, mia madre, morta prematuramente, mi lasciò in balia della desperazione di mio padre. Ma il...