Parte Quarta. Cap. I

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Nella penombra del suo ufficio, segnata soltanto dal suono del suo ansimare, Kinderman sedeva alla scrivania, immobile, assorto nei suoi pensieri. Spostò un poco la lampada da tavolo per vedere meglio. Davanti a lui carte, verbali, reperti, deposizioni, schede della polizia, rapporti della scientifica. Preso dalle sue riflessioni, aveva disposto con attenzione tutte le carte così da formare una rosa, quasi volesse fuggire da quella terribile conclusione a cui esse lo avevano portato, una conclusione che non riusciva ad accettare. Engstrom era innocente. Al momento della morte di Dennings, si trovava a casa della figlia. Le stava dando del denaro perché potesse comprarsi le sue dosi. Aveva mentito sugli spostamenti di quella notte per proteggere la ragazza e fare da scudo a sua moglie, che credeva che Elvira fosse morta e che solo di recente si era ripresa dal dolore e dall’umiliazione. Non era dalla viva voce di Karl che Kinderman aveva appreso queste informazioni. La sera del loro incontro sul pianerottolo di Elvira, il domestico aveva mantenuto un ostinato silenzio. Solo quando il detective aveva informato la ragazza che il padre era coinvolto nell’omicidio di Dennings, lei aveva deciso di dire la verità. C’erano altri testimoni a confermare la sua versione. Engstrom era innocente. Innocente e muto riguardo a tutto quello che stava accadendo in casa di Chris MacNeil. Kinderman aggrottò la fronte, osservando la rosa di documenti sulla scrivania. Fece scivolare un petalo, l’angolo di una deposizione, leggermente più in basso e a destra. Rose. Elvira. Era stato inflessibile con lei: se entro due settimane non si fosse presentata in una clinica per la disintossicazione, non avrebbe smesso di tenerle il fiato sul collo, di farle arrivare mandati di comparizione, fino a quando non avesse raccolto prove sufficienti a convalidare un arresto. Eppure non era convinto che la ragazza avrebbe seguito il suo avvertimento. C’erano volte in cui si trovava a guardare in faccia la legge senza battere ciglio, come se fosse un sole di mezzogiorno, capace per un attimo di renderlo cieco, il tempo necessario perché la sua preda riuscisse a scappare. Engstrom era innocente. Cosa rimaneva? Kinderman, ansimante, spostò il suo peso sulla sedia. Poi chiuse gli occhi e immaginò di essere a mollo in una vasca d’acqua bollente. Saldi, svendita dei pensieri!, annunciò a se stesso. Traslochiamo verso nuove conclusioni! Liquidazione totale! Tutto fuori! Restò un istante in attesa, perplesso. Poi, aggiunse e sottolineò: Tutto fuori! Riaprì gli occhi ed esaminò nuovamente tutti i dati a sua disposizione: 1. La morte del regista Burke Dennings sembrava essere collegata in qualche modo alle profanazioni avvenute nella chiesa della Santissima Trinità. In entrambi i casi si trattava di stregoneria, e molto probabilmente il profanatore e l’assassino erano la stessa persona. 2. Un esperto di stregoneria, un prete gesuita, era stato visto più volte presso l’abitazione di Chris MacNeil. 3. Il foglio scritto a macchina ritrovato sull’altare della chiesa e contenente le frasi blasfeme era stato sottoposto al controllo per le impronte digitali. Tracce erano state rilevate su entrambi i lati. C’erano anche quelle di Damien Karras. Ma ne erano state trovate altre che, per dimensione, sembravano appartenere a una persona con mani molto piccole, con buona probabilità un bambino. 4. Il testo battuto a macchina ritrovato nella chiesa era stato confrontato con una lettera incompleta scritta con la macchina di Sharon Spencer. Era stato lo stesso Kinderman a prendere quel foglio che la segretaria aveva appallottolato e buttato via, durante la sua seconda visita in casa MacNeil. I caratteri della macchina da scrivere e quelli presenti sulla carta d’altare erano compatibili. Stessa macchina. Secondo il rapporto della scientifica, tuttavia, il tocco era differente. Chi aveva scritto le frasi blasfeme aveva un tocco di gran lunga più pesante di quello di Sharon Spencer. Dato che era evidente che il dattilografo in questione non aveva premuto sui tasti uno a uno, da inesperto, ma con grande perizia, si poteva dedurre inoltre che l’anonimo autore del testo della cartagloria fosse una persona dotata di una forza fuori dall’ordinario. 5. Burke Dennings, sempre che la sua morte non fosse stata accidentale, era stato ucciso da una persona dotata di una forza fuori dall’ordinario. 6. Engstrom non era più tra i sospettati. 7. Da una verifica sui tabulati dei voli nazionali risultava che Chris MacNeil aveva accompagnato sua figlia a Dayton, Ohio. Kinderman era venuto a conoscenza del fatto che la bambina era malata e che sarebbe stata in osservazione in una clinica. Ma la clinica in questione, a Dayton, non poteva che essere la Barringer. Kinderman aveva proceduto ad alcuni controlli e la clinica aveva confermato di aver avuto la bambina tra gli ospiti. Nonostante i medici si fossero rifiutati di dichiarare la natura della malattia, era ovvio che si trattava di un disturbo mentale piuttosto grave. 8. Gravi disturbi mentali possono conferire una forza fuori dall’ordinario ai soggetti che ne sono affetti. Kinderman sospirò e chiuse gli occhi. Sempre la stessa. Era tornato sempre alla stessa conclusione. Scosse il capo. Poi aprì gli occhi e osservò il centro di quella rosa di carte e documenti: una vecchia copia ingiallita di un giornale. Sulla copertina una foto di Chris e Regan. Indugiò sul volto della piccola: il viso delicato, punteggiato di lentiggini, i capelli legati in una lunga coda, l’incisivo mancante in quel sorriso dolce. Spostò lo sguardo verso il buio fuori dalla finestra. Una pioggia fitta e leggera era appena cominciata. Scese in garage, s’infilò nella berlina scura e guidò lungo le strade scivolose e scintillanti di pioggia fino al quartiere dell’università. Parcheggiò sul versante est della Prospect Street. Rimase immobile al posto di guida. Per quindici minuti. Immobile. Gli occhi fissi sulla finestra di Regan. Doveva bussare, chiedere di vederla? Chinò il capo. Con una mano si sfiorò la fronte. William F. Kinderman, tu sei malato! Sei malato! Vattene a casa! Prendi delle medicine! Vai a dormire! Guardò ancora in direzione della finestra. Sconfortato, scosse la testa. Ecco dove lo aveva portato la sua tremenda logica. Spostò ancora lo sguardo quando vide un taxi fermarsi di fronte alla casa. Accese il motore e fece partire i tergicristalli. Dal veicolo scese un uomo anziano, alto. Un impermeabile nero, un cappello dello stesso colore, una valigia logora. Pagò il tassista, poi si voltò e rimase in piedi, immobile, gli occhi fissi sulla villetta. Il taxi ripartì per scomparire dietro l’angolo con la trentaseiesima. Kinderman ingranò rapidamente la marcia e lo seguì. Prima di svoltare all’incrocio, si accorse che il vecchio era rimasto fermo, in piedi alla luce di un lampione, avvolto nella foschia, come un viaggiatore melanconico congelato nel tempo. Il detective fece dei segnali al taxi con i fari. In quel momento, all’interno della casa, Karras e Karl erano impegnati a tenere ferme le braccia di Regan mentre Sharon cercava di iniettarle il Librium, portando la dose somministrata nelle ultime due ore a quattrocento milligrammi. Il dosaggio, Karras lo sapeva bene, era spaventoso. Ma dopo una pausa di qualche ora, la personalità demoniaca si era improvvisamente risvegliata con una furia e un’agitazione che il fisico di Regan, così debilitato, non avrebbe potuto sopportare a lungo. Karras era ormai esausto. Dopo il suo colloquio col vescovo, era subito tornato a casa di Chris per informarla di quanto accaduto. Aveva collocato una flebo intravenosa per garantire l’alimentazione alla bambina, poi era rientrato nella sua camera ed era crollato sul letto. Dopo neanche un’ora e mezzo il telefono lo aveva strappato al sonno. Sharon. Regan era ancora in stato di incoscienza e il suo polso si faceva sempre più flebile. Il sacerdote era allora corso alla villetta, portando con sé la sua borsa da medico. Aveva pizzicato il tendine d’Achille della bambina, per verificare la reazione al dolore. Nessuna reazione. Fece ancora più pressione, stringendo la carne tra le unghie. Ancora nessuna reazione. Adesso era davvero preoccupato. Nonostante sapesse che in condizioni di isteria o in stati di trance poteva talvolta verificarsi un’insensibilità al dolore, temeva che Regan entrasse in coma, uno stato dal quale sarebbe potuta facilmente passare alla morte. Controllò la pressione sanguigna; novanta di massima, sessanta di minima. Frequenza cardiaca al polso: sessanta battiti. Aveva aspettato nella stanza, controllando ogni quindici minuti per un’ora e mezzo, prima di essere sicuro che la pressione sanguigna e la frequenza cardiaca si fossero stabilizzate. Questo significava che Regan non rischiava un collasso, ma che si trovava in uno stato di torpore. Diede precise istruzioni a Sharon perché le sentisse il polso ogni ora. Poi tornò alla sua stanza e al suo riposo. Ma, ancora una volta, il telefono lo svegliò. L’esorcista, lo informò l’ufficio della curia, sarebbe stato Lankester Merrin. Karras avrebbe fatto da assistente. La notizia lo aveva lasciato di sasso. Merrin! Il filosofo, il paleontologo! Quella mente così acuta, quell’intelligenza straordinaria! I suoi libri avevano provocato molto clamore all’interno della Chiesa perché aveva interpretato la sua fede in termini di scienza e ragione, in termini di una materia in continua, perenne evoluzione, destinata a divenire puro spirito e a unirsi a Dio. Karras chiamò immediatamente Chris per darle la notizia, ma scoprì che era già stata informata direttamente dal vescovo. Le aveva riferito che Merrin sarebbe arrivato il giorno seguente. «Ho detto al vescovo che avrebbe potuto alloggiare qui a casa», gli disse Chris. «Sarà una questione di un giorno o due, non è vero?». Prima di rispondere, Karras indugiò un istante. «Non lo so». Ancora una pausa, poi: «Non creda che sia così semplice». «Voglio dire, se dovesse funzionare», gli rispose Chris. Il tono della sua voce si era fatto dimesso. «Non intendo dire che non funzionerà», la rassicurò il sacerdote. «Insomma, potrebbe volerci più tempo». «Quanto tempo?». «Dipende». Sapeva bene che un esorcismo poteva durare settimane, a volte anche mesi; sapeva che spesso si risolveva in un totale fallimento. E, in fondo, era quanto si aspettava. Si aspettava che il peso, una volta fallita la cura tramite suggestione, sarebbe nuovamente caduto, per l’ultima volta, sulle sue spalle. «Può darsi che ci vogliano pochi giorni, oppure intere settimane», le aveva detto poi. «Quanto tempo rimane a mia figlia, padre Karras?». Quando mise giù il telefono, si sentì sfinito, tormentato. Disteso sul letto, pensò a Merrin. Merrin! Attraverso di lui gli arrivava un soffio di euforia e di speranza. Ma immediatamente dopo, il cuore gli si fece di nuovo pesante di sconforto. La scelta dell’esorcista sarebbe dovuta ricadere su di lui, era nelle cose. Ma il vescovo lo aveva scavalcato. Perché? Perché Merrin lo aveva già fatto in passato? Mentre chiudeva gli occhi, si ricordò che gli esorcisti venivano selezionati sulla base del loro senso di “pietà” e delle loro “altissime qualità morali”; ricordò un passo del Vangelo secondo Matteo in cui Gesù, quando i discepoli gli chiesero perché un tentativo di esorcismo fosse fallito, rispose «a causa della vostra poca fede». Sia il padre provinciale che il preside dell’università erano a conoscenza del suo problema, della sua crisi, rifletté Karras. Ne avevano forse parlato anche con il vescovo? Si rigirò tra le lenzuola, abbattuto e scoraggiato. Si sentì in qualche modo svilito, inutile, inadatto, respinto. E questo lo pungeva nell’animo. Senza una vera ragione, gli faceva male. Alla fine arrivò il sonno a riempire quel vuoto, a riempire gli anfratti e le crepe del suo animo. Ma ancora una volta, il telefono che squillava lo svegliò. Chris lo chiamava per comunicargli che Regan era in preda a una nuova crisi. Si precipitò alla villetta, controllò nuovamente le pulsazioni. La frequenza era aumentata. Le somministrò del Librium. Poi lo fece di nuovo. E ancora una volta. Alla fine, si diresse verso la cucina e raggiunse Chris al tavolo per un caffè. Stava leggendo un libro di Merrin; se l’era fatto recapitare direttamente a casa. «Va oltre i miei limiti di comprensione», gli disse sommessamente, nonostante sembrasse toccata e molto scossa dalla lettura. «Ma c’è qualcosa di così bello, di così grandioso». Fece scorrere le pagine all’indietro fino a un passaggio che aveva segnato in precedenza, poi fece scivolare il libro sul tavolo e lo passò a Karras. Il sacerdote iniziò a leggere: …Abbiamo una certa confidenza con l’ordine, con la costanza, con il perenne rinnovamento cui è soggetto il mondo materiale che ci circonda. Nonostante sia fragile ed effimera ciascuna delle parti che lo compongono, così come sempre nuovi e transeunti sono i suoi elementi; esso rimane, duraturo. È tenuto insieme da una legge di permanenza, e nonostante muoia ogni giorno, ogni giorno torna alla vita. Ma è questo stesso disfacimento a far nascere nuovi assetti, e ogni morte è madre di centinaia di nuove vite. Ogni ora, al suo inizio, non è altro che testimone di quanto fuggevole, ma al contempo certo e sicuro, sia il grandioso tutto in cui ci muoviamo. È come un’immagine riflessa sullo specchio d’acqua di un fiume, che è sempre la stessa nonostante l’acqua continui a scorrere. Il sole tramonta per sorgere nuovamente, il giorno viene inghiottito dalle tenebre della notte per poi rinascere da esse, luminoso e nuovo come se mai si fosse estinto. La primavera diventa estate, e attraverso l’estate diventa autunno e poi inverno; e c’è la sicurezza del suo definitivo ritorno, del trionfo e della resurrezione dalla tomba verso la quale, fin dalla sua prima ora, si è affrettata. Ci lamentiamo dei fiori di maggio perché presto appassiranno, ma sappiamo che un giorno maggio avrà la sua rivincita su novembre grazie a quell’eterno ciclo che non si ferma mai, che ci insegna a essere moderati e cauti anche al culmine delle nostre speranze, e a non disperare mai anche nelle ore di più nera desolazione. «Sì, è bellissimo», commentò Karras con un filo di voce. I suoi occhi erano ancora fissi sulla pagina. La furiosa rabbia del demone si fece più rumorosa al piano di sopra. «… bastardo… schifoso… ipocrita d’un prete!». «Mi metteva sempre una rosa accanto al piatto… la mattina… prima che uscissi per andare a lavoro». Karras sollevò gli occhi, fissandola con sguardo interrogativo. «Regan», gli disse Chris. Poi chinò il capo. «Già, mi dimentico che… che lei non l’ha mai conosciuta». Si soffiò il naso e si asciugò gli occhi. «Le va un po’ di brandy nel caffè, padre Karras?», chiese. «No, grazie, meglio di no». «Il caffè non sa di niente», aggiunse Chris con voce tremante. «Penso che vi metterò un goccio di brandy. Mi scusi». Rapidamente lasciò la stanza. Karras rimase seduto, da solo, la tazza tra le mani. Aveva caldo per via del maglione che indossava sotto la tonaca. Si sentiva fiacco: non era riuscito a confortare Chris. Poi un ricordo d’infanzia si fece avanti, triste. Il ricordo di Ginger, il suo cagnolino, un bastardino, sempre più scheletrico e malato, accucciato dentro una scatola nel suo appartamento; Ginger tremante, febbricitante, che vomita mentre Karras lo copre con degli asciugamani, mentre cerca di fargli bere del latte caldo; fino a quando non arriva un vicino e si rende conto che si tratta di cimurro, scuote la testa e dice: «il tuo cane aveva bisogno subito di iniezioni». Poi un pomeriggio, dopo la scuola… in strada… in fila per due fino all’angolo… sua madre che lo aspetta… stranamente… il suo sguardo triste… e poi gli prende la mano e gli stringe nel pugno una moneta da mezzo dollaro… un istante di euforia… così tanti soldi!… poi la voce di lei, dolce e calda: «Ginger è morto…». Abbassò gli occhi verso la fumante, amara oscurità nella sua tazza e gli parve che le sue mani fossero incapaci di aiutare e di curare. «… bastardo d’un prete!». Il demone. Ancora furioso di rabbia. «Il tuo cane aveva bisogno subito di iniezioni…». Tornò veloce in camera di Regan. La tenne ferma mentre Sharon cercava di farle l’ennesima iniezione di Librium, che portava ora il dosaggio di quel giorno a quota cinquecento milligrammi. Sharon stava tamponando la piccola ferita lasciata dalla puntura. Karras osservava Regan, perplesso. La violenta valanga di oscenità non sembrava rivolta a qualcuno che si trovava lì nella stanza, ma a qualcuno di invisibile, di non presente. Si liberò di quel pensiero. «Torno subito», disse a Sharon. Preoccupato per Chris, andò in cucina. La trovò sola al tavolo. Si stava versando il brandy nel caffè. «È sicuro di non volerne un po’, padre?», gli chiese. Il sacerdote scosse la testa; poi si avvicinò al tavolo e si abbandonò su una sedia. Teneva gli occhi fissi al pavimento. Gli arrivava il suono della porcellana colpita dal cucchiaino che mescolava il caffè. «Ha parlato con il padre?», domandò. «Sì, sì, l’ho chiamato». Una pausa. «Ha chiesto di parlare con Regan». «E lei cosa gli ha risposto?». Un’altra pausa. Poi: «Le ho detto che era fuori, a una festa». Silenzio. Nessun ticchettio di porcellana. Sollevò lo sguardo e vide che gli occhi di Chris erano rivolti al soffitto. Infine se ne accorse anche lui: le grida al piano di sopra erano improvvisamente cessate. «Credo che il Librium cominci a fare effetto», disse speranzoso. Il suono del campanello. Karras guardò prima in direzione dell’ingresso, poi di nuovo Chris. La donna rispose con un’occhiata interrogativa, piena di apprensione, e inarcò un sopracciglio. Kinderman? Secondi. Il tic-tac dell’orologio. Rimasero in attesa. Willie stava riposando. Sharon e Karl erano al piano di sopra. Nessuno stava andando ad aprire. Tesa, Chris si alzò di scatto dalla sedia e si diresse in soggiorno. In ginocchio sul divano, scostò una tenda e sbirciò furtiva attraverso la finestra. Grazie a Dio! Non era Kinderman, ma un uomo anziano, alto, avvolto in uno scuro impermeabile sgualcito. Teneva il capo pazientemente chino sotto la pioggia battente. Portava con sé una borsa logora, piuttosto vecchia. Per un istante, mentre la valigia quasi sfuggiva alla sua presa, una fibbia di metallo brillò alla luce del lampione. Il campanello suonò ancora. Chi era? Confusa, Chris scese dal divano e andò all’ingresso. Aprì appena la porta, strizzando gli occhi nell’oscurità mentre una nebulosa di pioggia fine le colpiva il volto. Le falde del cappello nascondevano il viso dell’uomo. «Sì, salve, posso aiutarla?». «La signora MacNeil?», chiese una voce dall’ombra. Era gentile, raffinata, ma piena come un raccolto abbondante. Chris stava annuendo quando lui fece per togliersi il cappello. Si ritrovò davanti degli occhi che la travolsero, brillanti di intelligenza e di compassione, pieni di una serenità che si riversava nel suo essere, come le acque calde e ristoratrici di un fiume la cui sorgente si trovasse dentro di lui, ma anche oltre di lui. Un fiume il cui flusso era controllato, ma al tempo stesso impetuoso, continuo. «Sono padre Merrin». Per un momento la donna rimase impassibile, gli occhi fissi sul volto magro e ascetico, sugli zigomi scolpiti, lisci come una pietra levigata. Poi, rapida, aprì del tutto la porta. «Oh, Dio mio! Si accomodi, prego! Entri! Cavolo, non… davvero! Non so a cosa stavo pensando…». Merrin entrò e Chris chiuse la porta. «Ecco, l’aspettavo per domani». «Sì, lo so», si sentì rispondere. Voltandosi per guardarlo in viso, la donna notò che teneva la testa leggermente inclinata, gli occhi rivolti verso l’alto, come se sentisse – no, forse meglio ascoltasse, pensò lei – una presenza invisibile… una qualche vibrazione lontana che gli era conosciuta e familiare. Chris lo guardò perplessa. La pelle dell’uomo sembrava essere stata esposta a venti stranieri, cotta da un sole che splende in altri luoghi, in luoghi lontani dal tempo e dallo spazio a lei familiari. Ma che sta facendo? «Mi dia la borsa, padre, deve essere pesantissima». «Va bene così», rispose a bassa voce. Ancora in ascolto. Ancora intento a captare qualcosa. «Ormai è come se facesse parte del mio braccio, è così vecchia… così logora». Abbassò lo sguardo. Nei suoi occhi c’era un sorriso caldo, stanco. «Sono abituato ai pesi… Padre Karras è qui?», domandò lui. «Sì, è in cucina. A proposito, ha cenato, padre?». Lanciò un’occhiata verso il piano di sopra sentendo una porta che si apriva. «Sì, ho mangiato qualcosa sul treno». «È sicuro che non le va nient’altro?». Un istante. Poi il suono della porta che si chiudeva. Riabbassò lo sguardo. «No, la ringrazio». «Caspita, questa pioggia…», protestò Chris, ancora turbata. «Se avessi saputo del suo arrivo, sarei venuta a prenderla alla stazione». «Non si preoccupi». «Ha dovuto aspettare a lungo per un taxi?». «Solo pochi minuti». «Prendo la borsa, padre». Karl. Era sceso, e ora prendeva la borsa dalla debole stretta del vecchio, portandola con sé nel corridoio. «Abbiamo preparato un letto per lei nello studio, padre». Chris continuava ad agitarsi, spostando il peso del corpo da una gamba all’altra. «È un letto molto comodo e sono sicuro che apprezzerà la tranquillità. Le faccio strada». Si mosse, ma poi si fermò. «Oh, preferisce forse salutare padre Karras?». «Per prima cosa, penso che dovrei vedere sua figlia», disse Merrin. La donna sembrò confusa. «Intende dire, immediatamente, padre?». Come pochi istanti prima, di nuovo Merrin guardò attentamente in direzione del piano superiore. «Sì, adesso. Credo che sia meglio adesso». «Ecco, sono sicura che stia dormendo». «Io credo di no». «Bene, se…». Improvvisamente, Chris sussultò. Un rumore proveniente dall’alto, la voce del demone, tonante eppure ovattata, gracchiante, come un prematuro lamento funebre amplificato. «Merriiiiiinnnnn!». Poi il suono potente, spaventoso, di un colpo incredibilmente violento sui muri della stanza. «Dio onnipotente!», sospirò Chris portandosi al petto una mano pallida. Sconvolta, guardò Merrin. Il prete era rimasto immobile. Stava ancora fissando verso l’alto, concentrato ma sereno. Nei suoi occhi non c’era la minima traccia di stupore. Piuttosto la sensazione di aver riconosciuto qualcosa, pensò Chris. Un altro colpo scosse le pareti della casa. «Merriiiiinnnnnn!». Il gesuita si mosse lentamente in avanti, dimentico di Chris paralizzata dallo stupore, di Karl che usciva rapido e incredulo dallo studio; di Karras che si affacciava alla porta della cucina, sbalordito, mentre quei terribili rumori, quelle terribili grida continuavano. Con passi decisi prese a salire le scale, facendo scivolare la mano bianca come avorio sul corrimano. Karras si avvicinò a Chris. Entrambi osservarono da dietro Merrin che entrava nella stanza di Regan e chiudeva la porta dietro di sé. Per qualche minuto regnò il silenzio. Poi, improvvisamente, il demone esplose in un’orribile risata e Merrin uscì. Chiuse la porta e si avviò lungo il corridoio. Alle sue spalle la porta si aprì di nuovo e si affacciò Sharon. Osservava il vecchio prete allontanarsi, una strana espressione sul volto. Il gesuita scese le scale e tese la mano a Karras. «Padre Karras…». «Salve, padre». Merrin strinse la mano dell’altro sacerdote tra le sue. La strinse forte, scrutando il volto di Karras con occhi colmi di serietà e preoccupazione. Dal piano di sopra la risata si era trasformata in una violenta scarica di volgarità rivolte a Merrin, «Ha un aspetto molto affaticato», gli disse. «È stanco?». «No, per nulla. Perché me lo chiede?». «Ha il suo impermeabile qui con sé?». Karras scosse la testa e rispose di no. «Ecco, allora, prenda il mio», gli disse l’anziano prete sbottonandosi il soprabito. «Avrei bisogno che lei andasse alla vostra palazzina, Damien, e prendesse una tonaca per me, due stole, dell’acqua benedetta e due copie del Rituale Romano». Allungò l’impermeabile a Karras che continuava a fissarlo con aria attonita. «Credo che dovremmo iniziare subito». Karras aggrottò la fronte. «Vuol dire adesso? Immediatamente?». «Sì, credo sia meglio». «Non vuole prima sentire i precedenti del caso, padre?». «Perché?». Le sopracciglia di Merrin erano unite in un’espressione che rivelava la sua completa sincerità. Karras si rese conto di non aver ricevuto risposta. Distolse lo sguardo da quegli occhi penetranti. «Certo», rispose. Un attimo dopo stava indossando l’impermeabile ed era pronto ad andare. «Corro a prendere queste cose». Karl si precipitò dall’altra parte della stanza e gli tenne aperta la porta. Si scambiarono una rapida occhiata, poi Karras avanzò nella notte piovosa. Merrin si voltò nuovamente verso Chris. «Non è un problema per lei se cominciamo subito, vero?», le chiese con dolcezza. Lei era rimasta a osservare quell’uomo, sentendo crescere dentro di sé una sensazione di sollievo. Un senso di sicurezza, di comando, di protezione era entrato nella casa come un raggio di sole. «No, ne sono felice», rispose con gratitudine. «Immagino però che lei sia molto stanco, padre». Il vecchio prete si accorse dello sguardo ansioso della donna rivolto verso il piano di sopra, verso la furia del demone. «Posso offrirle una tazza di caffè?», gli chiese. «L’ho appena fatto». Una nota di insistenza, una supplica stanca. «È ancora caldo. Ne vorrebbe?». Merrin vide le mani nervose stringersi tra loro, poi rilasciarsi. Le profonde occhiaie. «Sì, volentieri», disse con calore. «Grazie». Qualcosa di pesante, di ingombrante era stato scacciato via. O perlomeno messo a tacere per un po’. «Se non è un disturbo per lei…». Chris lo accompagnò in cucina, e poco dopo Merrin era accanto al forno con una tazza di caffè nero fumante tra le mani. «Gradisce correggerlo con del brandy, padre?». Chris gli allungò la bottiglia. Il vecchio inclinò la testa e lasciò cadere lo sguardo sulla tazza. «Ecco, i medici mi hanno detto che non dovrei», rispose. Poi avvicinò la tazza. «Ma grazie a Dio, non ho una volontà di ferro». Chris esitò un istante, incerta. Ma quando il prete sollevò il capo, vide la traccia di un sorriso brillare nei suoi occhi. Versò il brandy. «Lei ha un nome delizioso», le disse lui. «Chris MacNeil. È un nome d’arte?». Chris fece scivolare un po’ di brandy anche nella sua tazza e scosse la testa. «No, per fortuna il mio vero nome non è Esmeralda Glutz». «Ringraziamo Dio per questo», mormorò Merrin. Chris sorrise e sedette. «E invece Lankester, padre? Un nome così insolito… Porta questo nome in onore di qualcuno?». «Di una nave merci», rispose a bassa voce il prete. Lo sguardo assente, portò la tazza alle labbra. Prese un lungo sorso. «O forse un ponte. Sì, credo si trattasse di un ponte». Sembrava afflitto. «Ecco, Damien», continuò. «Come mi sarebbe piaciuto chiamarmi così. Un nome splendido». «Che origine ha questo nome, padre?». «Damien?». Merrin riportò lo sguardo al suo caffè. «Era il nome di un sacerdote che dedicò la sua vita alla cura dei lebbrosi nell’isola di Molokai. Alla fine fu contagiato anche lui». Si fermò. «Un nome splendido», ripeté. «Credo che con un nome come Damien, sarei stato contento di avere Glutz per cognome». Chris ridacchiò. Si rilassò, sentendosi più leggera. E per qualche minuto lei e Merrin chiacchierarono di cose semplici, familiari. Alla fine Sharon entrò in cucina, e solo allora Merrin accennò a muoversi. Come se fosse rimasto in attesa del suo arrivo, posò la tazza nel lavandino, la sciacquò e la collocò con precisione sullo scolapiatti. «Buonissimo, proprio quello di cui avevo bisogno», disse. Chris si alzò. «Le mostro la sua stanza». Il prete la ringraziò e la seguì fino alla porta dello studio. «Se ha bisogno di qualcosa, padre, basta che me lo dica», disse Chris. Lui posò le mani sulle sue spalle e le strinse, rassicurante. Chris sentì una sensazione di forza e calore scorrerle attraverso il corpo. Provò un senso di pace. E una strana sensazione di… sicurezza?, si chiese. «Lei è davvero gentile». Il vecchio sorrise di nuovo con gli occhi. «Ancora grazie». Merrin tolse le mani e la osservò mentre tornava verso la cucina. Appena fu lontana, un dolore acuto sembrò attraversargli il volto. Entrò nello studio e chiuse la porta. Dalla tasca dei pantaloni estrasse un tubetto di aspirine, lo aprì, prese una delle piccole pastiglie e la posò delicatamente sotto la lingua. Chris entrò in cucina. Si fermò sulla porta, gli occhi fissi su Sharon. La ragazza, accanto ai fornelli, il palmo della mano posato sul bollitore, aspettava il suo caffè. Le si avvicinò, preoccupata. «Ehi, tesoro», le disse con dolcezza. «Perché non ti riposi qualche ora?». Nessuna risposta. Sharon sembrava persa nel flusso dei suoi pensieri. Poi si girò e guardò Chris senza espressione. «Scusami, dicevi?». Chris vide quel volto contratto, lo sguardo distante. «Che cosa è successo di sopra, Sharon?», le chiese. «Che cosa è successo dove?». «Quando padre Merrin è entrato nella stanza». «Oh, certo…». La ragazza aggrottò la fronte. I suoi occhi assenti erano ora diretti a un punto nello spazio sospeso tra il dubbio e il ricordo. «Sì, è stato strano». «Strano?». «Insolito. Loro si sono soltanto…». Fece una pausa. «Ecco, si sono soltanto guardati per un po’, poi Regan… quella cosa, ha detto…». «Ha detto?». «Ha detto: “Questa volta non vincerai”». Chris sgranò gli occhi, in attesa. «E poi?». «Tutto qui», rispose Sharon. «Poi padre Merrin si è girato ed è uscito». «E come ti è sembrato?», le chiese Chris. «Strano». «Oh, Cristo santo, Sharon, cerca un altro aggettivo!», sbottò Chris. Era sul punto di dire qualcos’altro quando vide che la ragazza aveva inclinato lievemente il capo, distratta, come se fosse in ascolto. Chris guardò verso il soffitto e in quel momento lo sentì anche lei: il silenzio, l’improvvisa pausa della furia del demone; eppure c’era qualcosa di più… qualcosa… che cresceva, che montava. Le due donne si scambiarono un’occhiata. «Lo senti anche tu?», chiese Sharon a bassa voce. Chris annuì. La casa. C’era qualcosa nella casa. Una tensione. L’aria che lentamente si faceva più densa. Un pulsare, come se delle energie esterne si stessero lentamente compattando. Il tintinnare del campanello suonò irreale. Sharon si voltò. «Vado io». Si diresse all’ingresso e aprì la porta. Era Karras. Aveva con sé un cesto della biancheria. «Grazie, Sharon». «Padre Merrin è nello studio», gli disse. Karras si avviò velocemente in quella direzione. Bussò lievemente alla porta, poi entrò con la cesta. «Mi scusi, padre», disse, «ho avuto un piccolo problema…». S’interruppe di colpo. Merrin, pantaloni e maglietta, era in ginocchio accanto al letto pieghevole, la testa abbandonata sulle mani giunte, in preghiera. Karras rimase immobile per un momento, come se, girato per caso l’angolo, d’un tratto avesse incontrato la sua stessa giovinezza, un chierichetto con una tonaca sotto il braccio, che si allontanava in fretta senza riconoscerlo. Karras spostò lo sguardo sulla cesta della biancheria, sulle macchioline lasciate dalla pioggia sui vestiti inamidati. Poi, lentamente, gli occhi sempre bassi, si avvicinò al divano e vi posò il contenuto della cesta. Quando ebbe finito, si sfilò l’impermeabile e lo piegò con cura sulla sedia. Guardò nuovamente Merrin e vide che si stava segnando. Si affrettò a voltarsi, chinandosi a raccogliere la più grande delle due pianete di cotone bianco. Cominciò a indossarla sopra la tonaca scura. Sentì Merrin alzarsi in piedi e dire: «Ti ringrazio, Damien». Karras si girò verso di lui, sistemandosi la pianeta mentre Merrin si avvicinava al divano, gli occhi che accarezzavano con dolcezza gli indumenti che vi erano posati. Karras afferrò un maglione. «Penso sia meglio che lo indossi sotto la tonaca, padre», disse a Merrin porgendoglielo. «A volte nella stanza c’è molto freddo». Merrin toccò il maglione con mano lieve. «È gentile da parte tua. Grazie, Damien». Poi prese dal divano la tonaca per Merrin e rimase a guardare il vecchio gesuita che indossava il maglione dalla testa. Solo in quel momento, all’improvviso, mentre osservava questo gesto familiare, questa normalissima azione, Karras percepì quanto forte fosse l’impatto con quell’uomo, con quel momento, con la calma sopraggiunta nella casa, che lo sopraffece fino a togliergli il respiro. Tornò in sé quando sentì che gli si toglieva la tonaca dalle mani. Merrin. «Conosci le regole per l’esorcismo, Damien?». «Sì, le conosco», rispose Karras. Merrin cominciò ad abbottonarsi la tonaca. «È molto importante evitare le conversazioni con il demone…». «Il demone». Aveva pronunciato quelle parole come se parlasse di un dato di fatto, pensò Karras. Ne fu irritato. «Possiamo chiedere solo ciò che è pertinente», aggiunse Merrin mentre chiudeva gli ultimi bottoni del colletto. «Ma tutto quel che va oltre è pericoloso. Estremamente pericoloso». Prese delicatamente la pianeta dalle mani di Karras e cominciò a indossarla. «E soprattutto, non ascoltare quello che dice. Il demone è bugiardo. Mentirà per confonderci, ma alla menzogna unirà la verità per attaccarci, per colpirci. Si tratta di un attacco psicologico, Damien. Molto potente. Non ascoltare. Ricorda: non ascoltare». Quando Karras gli porse la stola, l’esorcista aggiunse: «C’è ancora qualcosa che vorresti chiedermi prima di cominciare, Damien?». Karras scosse la testa. «No. Ma credo che possa essere utile darle qualche informazione sulle personalità differenti che si sono manifestate in Regan. Fino a ora, sembrano essere tre». «È soltanto una», disse Merrin a bassa voce, mentre faceva scivolare la stola sulle spalle. Per un istante la strinse tra le mani, immobile, negli occhi un’espressione tormentata. Poi prese le due copie del Rituale e ne porse una a Karras. «Salteremo la litania dei Santi. Hai portato l’acqua benedetta?». Karras sfilò la bottiglietta dalla tasca. Merrin la prese; poi, con un semplice cenno del capo, indicò la porta. «Vuoi far strada, per favore, Damien?». Al piano di sopra, accanto alla stanza, Chris e Sharon attendevano nervose. Erano avvolte in maglioni e giacche pesanti. Al rumore della porta che si apriva, si voltarono e videro Karras e Merrin avanzare lungo il corridoio, in solenne processione. Alti, come sono alti, pensò Chris. E Karras, quella faccia scura, quei lineamenti scolpiti nella pietra accanto all’innocenza della veste bianca da chierichetto. Osservandoli mentre con passo sicuro salivano le scale, Chris sentì una profonda e insolita commozione. Adesso arriva mio fratello maggiore e te la vedi con lui, carogna! Era una sensazione, pensò, molto simile a questo. Sentiva il cuore batterle sempre più forte. Giunti sulla soglia, i due gesuiti si fermarono. Karras aggrottò la fronte quando vide gli abiti che indossava Chris. «Vuole entrare anche lei?». «Ecco, credo che dovrei farlo». «Per favore, no», la esortò il sacerdote. «Non lo faccia. Farebbe un grosso errore». Chris rivolse uno sguardo interrogativo a Merrin. Con voce ferma, l’esorcista rispose: «Padre Karras sa quello che dice». La donna guardò ancora Karras. Poi abbandonò la testa sul petto. «Va bene», disse remissiva. Si poggiò nuovamente al muro. «Aspetterò qui». «Qual è il secondo nome di sua figlia?», chiese Merrin. «Teresa». «Un nome bellissimo», disse il vecchio con calore. Sostenne per un istante lo sguardo della donna, rassicurandola. Poi volse gli occhi alla porta della stanza e ancora una volta Chris sentì quella tensione, una spirale di oscurità che s’infittiva. Dentro, nella stanza. Oltre quella porta. Anche Karras la percepiva, notò Chris, e anche Sharon. Merrin annuì. «Possiamo andare», disse a bassa voce. Karras aprì la porta e per poco non cadde all’indietro, respinto da un fetore insopportabile e da un freddo gelido. In un angolo della stanza c’era Karl, rannicchiato su una sedia. Indossava una giacca da caccia verde oliva, scolorita dal tempo. Si voltò verso Karras, un fremito di speranza negli occhi. Il gesuita spostò rapidamente lo sguardo verso il letto, verso il demone. Quegli occhi lucenti erano fissi sul corridoio alle sue spalle. Erano fissi su Merrin. Karras avanzò verso i piedi del letto mentre Merrin, altissimo, ritto, procedeva lentamente accanto a lui, sistemandosi di lato. Si fermò e lasciò cadere il suo sguardo nelle profondità dell’odio. Una soffocante tranquillità avvolse la stanza. Poi Regan prese a leccarsi le labbra gonfie e screpolate. La sua lingua era nera, come quella di un lupo. Il rumore era simile a quello di una mano che liscia una pergamena stropicciata. «Bene, superbo schifoso», gracchiò il demone. «Finalmente! Finalmente sei arrivato!». Il vecchio gesuita allungò un braccio e con mano ferma tracciò il segno della croce in direzione del letto; poi ripeté il gesto verso tutti gli angoli della stanza. Mentre si voltava, svitò il tappo della boccetta di acqua benedetta. «Oh, sì! Un po’ di piscio santo, adesso!», disse con voce stridula il demone. «Lo sperma dei santi!». Merrin sollevò la boccetta e il volto del demone divenne livido, contorcendosi in una smorfia atroce. «Ah, lo vuoi fare, bastardo?», sbottò rabbioso. «Lo vuoi fare davvero?». Il gesuita cominciò a spargere il liquido. Il demone sollevò la testa dal cuscino. La bocca e i muscoli del collo tremavano, rabbiosi. «Sì, spruzza pure! Spruzza, Merrin! Forza, bagnaci pure! Facci annegare nel tuo sudore! Il tuo sudore è benedetto, vero, santissimo Merrin? Inchinati e scorreggia nuvole di incenso! Inchinati e facci vedere il tuo culo, facci adorare il tuo culo, il culto del culo di Merrin! Faccelo baciare, faccelo leccare, quel culo benedetto…». «Sta’ zitto!». Le parole volarono fuori dalla bocca del gesuita come colpi di un fucile. Karras sussultò e si guardò attorno in cerca di Merrin che, con lo sguardo fisso su Regan, le ordinava di tacere. E il demone fece silenzio. Ricambiava quello sguardo. Ma ora gli occhi erano esitanti, incerti. Ammiccanti. Cauti. Con gesti consueti, Merrin tappò la boccetta dell’acqua santa e la restituì a Karras. Lo psichiatra la fece scivolare nella tasca, senza distogliere lo sguardo dal vecchio gesuita che ora, inginocchiato a lato del letto, gli occhi chiusi, pregava con un filo di voce. «Padre nostro…», cominciò. Regan sputò, colpendo il prete in piena faccia con uno schizzo di saliva giallognola, che colò lentamente sulla guancia dell’esorcista. «…venga il tuo regno…». Il capo sempre chino, Merrin, senza fermarsi, continuò la preghiera. Una mano cercava il fazzoletto nella tasca della tonaca. Con calma si ripulì il viso. «…e non indurci in tentazione…», proseguì senza scomporsi. «Ma liberaci dal male», concluse Karras. Sollevò lo sguardo sulla bambina. Gli occhi erano rovesciati nelle orbite. Si vedeva solo il bianco del bulbo. L’inquietudine cresceva dentro di lui. Come se qualcosa nella stanza si stesse compattando, una strana energia. Tornò con gli occhi al libro per seguire le preghiere di Merrin. «Dio Padre di nostro Signore Gesù Cristo, mi appello al tuo santo nome, implorando umilmente la tua misericordia, perché ci conceda la grazia di eliminare questo spirito immondo che tortura una tua creatura, con l’aiuto di nostro Signore Gesù Cristo». «Amen», rispose Karras. Merrin si alzò e la sua preghiera si fece ora solenne: «Dio, creatore e protettore del genere umano, guarda con pietà a questa tua serva, Regan Teresa MacNeil, ora tormentata e stretta nelle spire dell’antico nemico dell’uomo, persecutore della nostra stirpe, che…». Karras sollevò lo sguardo quando sentì Regan sibilare come un serpente: la vide che sedeva rigida, solo il bianco degli occhi visibile, mentre rapidissima la lingua le usciva e rientrava tra le labbra, la testa che ondeggiava avanti e indietro come quella di un cobra. Nuovamente Karras ebbe una sensazione di inquietudine. Abbassò lo sguardo sul libro. «Salva la tua umile serva», pregò Merrin, ritto in piedi, leggendo dal Rituale. «Che crede in te, mio Dio», rispose Karras. «Lascia che trovi in te, o Signore, una torre fortificata». «Di fronte al nemico». Quando Merrin passò a leggere la riga successiva, Karras sentì Sharon ansimare alle sue spalle, poi voltandosi vide che guardava sconcertata il letto. Confuso, guardò anche lui. E rimase pietrificato: la testata del letto si stava sollevando dal pavimento! Rimase a fissare quello spettacolo con occhi increduli. Dieci centimetri. Venti. Trenta. Poi anche la parte posteriore del letto cominciò a sollevarsi. «Gott in Himmel!», mormorò Karl, terrorizzato. Ma Karras non lo sentì e non lo vide segnarsi quando i piedi del letto raggiunsero la stessa altezza della testata. Non sta succedendo davvero!, pensò, mentre ancora osservava la scena, paralizzato. Il letto si sollevò ancora di altri trenta centimetri e poi restò sospeso a quell’altezza, ondeggiando delicatamente, come se galleggiasse sulla superficie di uno stagno. «Padre Karras?». Regan che oscilla. Sibila. «Padre Karras?». Karras si voltò. L’esorcista lo guardava, sereno, poi con un cenno del capo gli indicò la copia del Rituale che aveva tra le mani. «La risposta, per favore, Damien». Il sacerdote assunse un’aria attonita, come se non capisse. Sharon fuggì dalla stanza. «Fai che il nemico non abbia potere su di lei», ripeté Merrin con calma. Karras si affrettò a riportare lo sguardo sul libro e, il cuore che gli batteva all’impazzata, in un sospiro rispose: «E il figlio dell’ingiustizia non avrà potere di farle del male». «Signore, ascolta la mia supplica», proseguì Merrin. «E lascia che il mio grido giunga fino a te». «Che il Signore sia con te». «E con il tuo spirito». Merrin si lanciò in una lunga preghiera e ancora Karras tornò a guardare il letto, a guardare le sue speranze e il suo Dio e la rivelazione del soprannaturale librarsi nel vuoto. L’euforia percorse tutto il suo essere. Eccola! È qui! Proprio di fronte a me! Eccola! D’un tratto si girò sentendo la porta che si apriva. Sharon si precipitò dentro con Chris. La donna si fermò, il fiato mozzato, poi sospirò: «Cristo Santo». «Signore onnipotente ed eterno…». Come fosse un gesto quotidiano, l’esorcista sollevò una mano e lentamente, col pollice, tracciò tre volte il segno della croce sulla fronte di Regan, senza smettere di leggere dal Rituale: «Tu che hai mandato il tuo unico figlio sulla Terra per sconfiggere il leone ruggente…». Il sibilare cessò e dalla bocca di Regan, contorta in una smorfia, arrivò un muggito basso, raccapricciante. «…libera dalla rovina e dagli artigli del demone del mezzogiorno questa umana creatura fatta a tua immagine, e…». Il muggito crebbe di intensità, lacerava le carni e penetrava nelle ossa. «Signore, Dio di tutto il creato…». Con gesti consueti Merrin prese un lembo della sua stola con la mano e con quello sfiorò la nuca di Regan, senza smettere di recitare: «…tu che hai scacciato Satana dal paradiso, scagliandolo in basso come un fulmine, incuti il terrore nella bestia che porta distruzione nella tua vigna…». Il muggito terminò. Un silenzio vibrante. Poi un fiotto di vomito denso, putrido, prese a uscire dalla bocca di Regan; un getto regolare e lento che fluiva come lava dalle labbra, andando a colpire a piccole ondate la mano di Merrin. Ma l’esorcista non si mosse. «Lascia che la tua potente mano scacci il crudele demonio dal corpo di Regan Teresa MacNeil, che…». Karras si accorse appena della porta che si apriva alle sue spalle, di Chris che fuggiva dalla stanza. «Scaccia da questo corpo il persecutore degli innocenti…». Il letto cominciò a muoversi, dapprima pigramente; poi prese a beccheggiare come una barca e d’improvviso cominciò a sollevarsi e abbassarsi, con scatti violenti. Mentre dalla bocca della bambina continuava a fluire il getto di vomito, Merrin sistemò la stola sul collo di Regan, premendogliela sul collo. «Dona ai tuoi servi il coraggio di opporsi con fermezza al drago ribelle, che egli non abbia vittoria su coloro che hanno fede in te…». Di colpo, i movimenti diminuirono di intensità e mentre Karras ancora guardava, come ipnotizzato, il letto cominciò ad abbassarsi, lievemente, come una piuma, fino a posarsi sul pavimento, sul tappeto, con un tonfo ovattato. «Signore, concedi che questa tua serva…». Pietrificato, Karras distolse lo sguardo. La mano di Merrin. Lui non poteva vederla. Era ricoperta da un cumulo di vomito colante. «Damien?». Karras sollevò gli occhi sull’esorcista. «Signore, ascolta la mia preghiera», disse con calma il vecchio prete. Lentamente, Karras si accostò al letto. «E lascia che il mio grido giunga fino a te». Merrin sollevò la stola, fece un piccolo passo indietro, poi con la frusta della sua voce colpì l’aria nella stanza, ordinando: «Io ti scaccio, spirito immondo, e con te scaccio tutti i poteri di Satana e del nemico! Tutti gli spiriti dell’inferno! Tutto l’esercito del male!». «È Cristo che ti comanda, Colui che fermò il vento e i mari e la tempesta! Colui che…». Regan smise di vomitare. Rimase silenziosa. Immobile. Il bianco di quegli occhi brillava di malvagità all’indirizzo di Merrin. Ai piedi del letto, Karras continuava a osservare la bambina con attenzione. La sorpresa e l’eccitazione sparivano lentamente. La sua mente febbricitante prese a cercare spiegazioni, a frugare compulsivamente, senza sosta, dentro gli angoli più oscuri dei dubbi razionali: poltergeist, azioni psicocinetiche, tensione cerebrale adolescenziale e potere della mente umana. Fu percorso da un brivido ricordando qualcosa. Si mosse verso il lato del letto, si chinò e afferrò il polso di Regan. E scoprì di avere davvero paura. Come lo sciamano in Siberia. Il battito stava raggiungendo una velocità incredibile. Ripiombò nelle tenebre dello sconforto. Gli occhi fissi sull’orologio, contò i battiti, li contò come fossero argomenti contro la sua stessa esistenza. «È Lui che ti comanda, Lui che ti ha precipitato a capofitto lontano dal paradiso terrestre!». Le frasi potenti di Merrin andarono a urtare il limitare della coscienza di Karras, come colpi forti, risonanti, inesorabili. Intanto il battito cardiaco si faceva più veloce. Sempre più veloce. Karras guardò il viso della bambina. Taceva ancora. Immobile. Nell’aria gelida della stanza, il vapore si sollevava dal vomito come da una maleodorante offerta votiva. Karras era preoccupato. All’improvviso, sentì drizzarsi i peli sul braccio. Con una lentezza spaventosa, a piccoli scatti, la testa di Regan cominciò a girare sul suo asse, come quella di un manichino, fino a quando il bianco terribile e sfolgorante degli occhi spiritati si fissò su di lui. «E ora perciò trema di paura, Satana…». Con la stessa lentezza, la testa si girò verso Merrin. «…Tu corruttore dei giusti! Tu fautore di morte! Tu traditore della nazioni! Tu ladro della vita! Tu…». Karras si guardò attorno, cauto. Le luci nella stanza cominciarono a spegnersi e riaccendersi a intermittenza, persero intensità, poi soffocarono in una penombra inquietante, pulsante. Un brivido gli percorse la schiena. Nella stanza il freddo aumentava. «…Tu principe degli assassini! Tu creatore di ogni oscenità! Tu nemico del genere umano! Tu…». Un colpo sordo rimbombò nella camera. Poi un altro. Continuarono attraverso le pareti, il pavimento, il soffitto, un martellare insistente, cadenzato, forte come quello di un cuore enorme e malato. «Abbandona questo corpo, mostro! Il tuo posto è la solitudine! La tua dimora è un nido di vipere! Torna da dove vieni e unisciti a loro! È Dio stesso che te lo ordina! Il sangue di…». I colpi si fecero più intensi, minacciosi e più veloci, sempre più veloci. «Io ti scaccio, antico serpente…». Sempre più veloci. «…in nome del giudice dei vivi e dei morti, in nome del tuo creatore, del creatore di tutto l’universo…». Sharon emise un grido, premendosi le mani sulle orecchie mentre i colpi si facevano più violenti e poi acceleravano all’improvviso, fino a prendere un ritmo terrificante. Il battito di Regan era stupefacente. Martellava a una velocità tale da non poter esser misurato. Dall’altra parte del letto, Merrin si chinò e con l’estremità del pollice tracciò la croce sul petto ricoperto di vomito della bambina. I rumori ingoiavano il suono delle sue preghiere. Karras sentì che all’improvviso la frequenza cardiaca diminuiva, e quando Merrin, senza smettere di recitare le preghiere, tracciò la croce sulla fronte di Regan, anche quegli orribili colpi cessarono d’un tratto. «O Dio del cielo e della Terra, Dio degli angeli e degli arcangeli…». Adesso Karras riusciva a sentire le parole dell’esorcista, mentre la frequenza cardiaca continuava a scendere. «Bastardo, superbo, presuntuoso, Merrin! Fai schifo! Questa volta perderai! Morirà! La troia morirà!». La foschia che avvolgeva la stanza si diradò lentamente. Era ritornata la personalità demoniaca e, con tutta la sua rabbia, si rivolgeva a Merrin. «Superbo come un pavone! Vecchio eretico! Forza, voltati e guardami! Guardami, schifoso, adesso guardami!». Il demone si sollevò dal materasso e sputò sul viso di Merrin; poi, ancora con quella voce aspra: «Così il tuo maestro guarisce i ciechi!». «Signore, Dio di tutto il creato…», ricominciò a pregare Merrin, prendendo nuovamente il fazzoletto e asciugandosi il volto da quella orribile saliva. «Adesso segui i suoi insegnamenti, Merrin! Fallo! Infila il tuo cazzo benedetto nella bocca della troietta, purificalo, forza, Santissimo Merrin, posa la tua grinzosa reliquia in questa bocca e guarisci la troietta! Un miracolo! Un…». «…libera questa tua serva da…». «Ipocrita! Non te ne frega niente della troietta, non ti importa di nulla! Hai fatto di lei una contesa tra noi due!». «…umilmente ti prego…». «Bugiardo! Bugiardo bastardo! Dicci, dov’è la tua umiltà, Merrin? Dove l’hai lasciata, nel deserto? Nelle rovine? Nelle tombe dove cerchi di fuggire dal tuo prossimo? Fuggire dagli ultimi, da quelli che non hanno una mente acuta come la tua? Sei capace di parlare agli uomini, feccia d’un prete?…». «…liberala…». «La tua dimora è un nido di pavoni, Merrin! Il tuo posto è da solo con te stesso! Torna sulla cima della montagna dove potrai parlare solo con te stesso!».
Merrin continuò a pregare, senza prestare ascolto al torrente di offese che il demone gli rovesciava contro. «Hai fame, santissimo Merrin? Vieni, ti offrirò nettare e ambrosia, ti darò il cibo del tuo gran Dio!», gracchiò il demone. Rilasciò una scarica di diarrea, poi rise. «Ecco, questo è il mio corpo! Adesso consacra questo, Santissimo Merrin!». In preda al disgusto, Karras cercò di concentrarsi sul libro quando Merrin prese a leggere un passaggio del Vangelo di Luca: «Gesù gli domandò: “Qual è il tuo nome?”. Rispose: “Legione”, perché molti demoni erano entrati in lui. E lo supplicavano che non ordinasse loro di andarsene nell’abisso. Vi era là un numeroso branco di porci che pascolavano sul monte. Lo pregarono che concedesse loro di entrare nei porci; ed egli lo permise. I demoni uscirono dall’uomo ed entrarono nei porci e quel branco corse a gettarsi a precipizio dalla rupe nel lago e annegò». «Willie, ho buone notizie per te!», gracchiò il demone. Karras sollevò lo sguardo e vide Willie accanto alla porta, ferma con un cambio di asciugamani e lenzuola tra le braccia. «Una buona novella, un annuncio di redenzione!», disse con soddisfazione. «Elvira è viva! Lei è viva! Lei è…». Willie sgranò gli occhi, sconvolta. Karl si voltò verso di lei, gridando: «No, Willie, non ascoltare! No!». «…è una drogata, Willie, una disperata…». «Willie, non ascoltare!», urlò Karl. «Vuoi che ti dica dove abita?». «Non ascoltare! Non ascoltare!». Karl spinse Willie fuori dalla stanza. «Vai a trovarla per la Festa della Mamma, Willie! Che bella sorpresa per lei! Vai da lei e…». D’improvviso il demone s’interruppe e fissò i suoi occhi su Karras. Il sacerdote aveva appena controllato il polso. Il battito si era fatto di nuovo più veloce. Era meglio somministrare a Regan una nuova dose di Librium. Si mosse per ordinare a Sharon di preparare la siringa. «La desideri? La vuoi?», disse il demone, la libidine negli occhi. «Prendila, è tua! Quella puttana, quella cavalla è tua! Puoi cavalcarla come preferisci! Sai, Karras, la notte ti sogna! Si masturba, la notte, pensando al tuo uccello da prete…». Sharon divenne paonazza e abbassò gli occhi mentre Karras continuava a darle le istruzioni per il Librium. «E prepara anche una supposta di Compazine, nel caso continuasse a vomitare», aggiunse. La ragazza annuì, sempre a capo chino; poi si allontanò, rigida. Quando passò accanto al letto, Regan le gridò: «Puttana!». Poi si sollevò e la colpì nel volto con un getto di vomito. Sharon era immobile, paralizzata, quando apparve la personalità di Dennings. «Puttana! Troia!», gridò con voce stridente. La ragazza si affrettò fuori dalla stanza. Adesso era Dennings, una smorfia di disgusto sul viso. Si guardò intorno e chiese: «Qualcuno potrebbe spalancare la finestra, per favore? C’è un odore bestiale qui dentro! È semplicemente…». «No, no, non fatelo!», si corresse. «Per carità di Dio, non fatelo, o qualcuno potrebbe anche morire, cazzo!». Poi rise, mostruosamente, e strizzò un occhio all’indirizzo di Karras. Infine sparì. «È il Signore Gesù Cristo che ti espelle…». «Proprio lui, Merrin? Proprio lui?». Era tornato il demone. Merrin continuò a recitare le preghiere, ad applicare la stola sul corpo di Regan, a tracciare la croce, sotto un fuoco di insulti e oscenità. Troppo a lungo, pensò Karras, la crisi stava durando troppo a lungo. «Ah, eccola la cagna! Eccola, la mamma della troietta!», cantilenò il demone. Karras si voltò e vide Chris avanzare verso di lui con una siringa e del cotone. Teneva il capo chino, mentre il demone continuava a scagliarle contro insulti. Karras le andò incontro, disapprovando la sua venuta. «Sharon si sta cambiando», spiegò Chris, «e Karl è…». Karras la interruppe. «Va bene», e insieme si avvicinarono al letto. «Ah, sì, vieni a dare un’occhiata a quello che hai combinato, puttana, troia! Vieni!». Chris cercava disperatamente di non ascoltare, di non guardare, mentre Karras afferrava il braccio di Regan, che non opponeva resistenza. «Guarda che schifo hai combinato! Guarda questa puttana assassina!», ruggì il demone. «Sei felice adesso, soddisfatta? Sei stata tu a fare tutto questo! Sì, tu, con la tua carriera prima di ogni altra cosa, prima di tuo marito, prima di tua figlia, prima…». Karras sollevò lo sguardo. Chris era paralizzata. «Avanti! Non ascolti! Avanti, faccia l’iniezione!», gli ordinò. «…e il tuo divorzio! Poi cerchi i preti, vero? I preti non ti aiuteranno!». La mano della donna prese a tremare. «È matta! Matta! La troietta è impazzita! L’hai fatta impazzire, ha ucciso per colpa tua e…». «Non ci riesco!». La faccia contorta dallo sconcerto, Chris fissava la siringa che le tremava tra le dita. Scosse la testa. «Non ci riesco!». Karras le sfilò la siringa dalla mano. «Va bene, disinfetti il braccio! Qui!», le disse in tono perentorio. «…l’hai portata nella bara! Puttana!». «Non lo ascolti!», l’avvertì ancora Karras. Il demone girò la testa, gli occhi gonfi di rabbia. «E tu, Karras!». Chris strofinò il braccio di Regan col cotone. «Adesso, esca dalla stanza!», le ordinò Karras, inserendo l’ago nella carne lacerata. La donna fuggì via. «Oh, sì, noi conosciamo bene la tua gentilezza con le madri, Karras!», gracchiò il demone. Il gesuita si irrigidì. Rimase immobile per un istante. Poi, lentamente, estrasse l’ago e guardò quegli occhi rovesciati nelle orbite. Dalla bocca di Regan veniva fuori un canto cadenzato, lento, quasi una cantilena; una vocina chiara, dolce, come quella di un bambino del coro. «Tantum ergo sacramentum veneremur cernui…». Era un inno cantato nelle chiese cattoliche durante l’elevazione. Karras rimase immobile, il sangue gelato nelle vene, mentre il demone continuava. Misterioso, agghiacciante, quel canto era come uno spazio vuoto in cui Karras sentì l’orrore di un crepuscolo senza fine che gli precipitava addosso. Lo sentì con terribile chiarezza. Sollevò lo sguardo su Merrin. Tra le mani stringeva un asciugamano. Con movimenti stanchi, delicati, puliva il collo e il viso di Regan, sporchi di vomito. «…et antiquum documentum…». Quel canto. Di chi era quella voce?, si chiese Karras. E poi quei frammenti: Dennings… la finestra… Tormentato, vide Sharon che prendeva l’asciugamano dalle mani di Merrin. «Finirò io, padre», gli disse. «Sto bene ora. Vorrei cambiarla e ripulirla prima di darle il Compazine, va bene? Potete aspettare entrambi fuori solo per qualche minuto?». I due sacerdoti si spostarono nel calore e nella penombra del corridoio. Esausti, si appoggiarono al muro. Karras continuava ad ascoltare quella cantilena inquietante che ora giungeva ovattata dall’interno della stanza. Dopo qualche istante, disse piano a Merrin: «Prima ha detto… ha detto che si trattava di un unico spirito». «Sì». Le voci così flebili, il capo chino, come fossero in un confessionale. «Tutti gli altri sono soltanto armi per attaccarci», proseguì Merrin. «Ce n’è uno solo, soltanto uno. È un demone». Calò il silenzio. Poi Merrin dichiarò con semplicità: «So che hai dei dubbi. Ma vedi, io ho incontrato questo demone già una volta. Ed è potente, molto potente…». Silenzio. Fu Karras a parlare. «Noi diciamo che il demone… non può toccare l’anima della vittima». «Sì, è così, è così. Non c’è peccato». «Allora qual è l’obiettivo della possessione?», disse Karras, scuro in volto. «Qual è lo scopo?». «Chi può saperlo?», rispose Merrin. «Chi può davvero sperare di saperlo?». Rimase pensieroso per un po’. Poi, come se si avventurasse in un terreno insicuro, continuò: «Ecco, io penso che il vero obiettivo del demone non sia la vittima. Penso che siamo noi… gli osservatori… tutte le persone in questa casa. E credo che lo scopo sia farci perdere la speranza, farci rinnegare la nostra umanità, Damien. Farci vedere la nostra stessa bestialità, la nostra natura abietta, putrescente, priva di dignità, orribile, malvagia, insignificante. E qui forse è il nocciolo di tutto questo, Damien: il nostro essere senza valore. Per questo credo che la fede non sia una questione razionale, per nulla. È una questione d’amore. Accettare la possibilità che Dio possa amarci…». Ancora una volta, Merrin s’interruppe. Poi proseguì più lentamente, come se parlasse a se stesso. «Lui lo sa… il demone sa dove colpirci…». Annuiva. «Tanto tempo fa ho perso anch’io la speranza di riuscire ad amare il mio prossimo. Certe persone… provavo soltanto repulsione. Come posso amarle?, mi chiedevo. Questo pensiero mi tormentava, Damien, mi portava a perdere la fiducia in me stesso… e da qui a perdere la speranza in Dio. La mia fede era a pezzi, frantumata…». Karras guardò Merrin con interesse. «E cosa è accaduto?». «Ah, bene… alla fine ho compreso che mai Dio mi avrebbe chiesto qualcosa che io sapevo impossibile dal punto di vista psicologico; che l’amore che Lui chiedeva era un atto della mia volontà, e non una semplice emozione. Niente affatto. Lui mi chiedeva di agire nel mondo con amore, di avvicinarmi al prossimo con amore. E quando potevo agire in questo modo anche verso coloro che in realtà trovavo repellenti, ecco, questo era il più grande degli atti d’amore». Scosse la testa. «Capisco che le mie parole ti sembrino banali, ovvie, Damien. Lo so. Ma in quel momento io non riuscivo a vedere tutto questo. Una strana cecità. Come tanti mariti, come tante mogli», aggiunse con una nota di tristezza nella voce, «che pensano di aver perduto il loro amore solo perché il loro cuore non batte più all’impazzata alla vista della persona amata! Oh, buon Dio!». Prima scosse la testa, poi annuì. «Io credo siano solo bugie, Damien, menzogne… La possessione, ecco, non è nelle guerre, come tanti credono che sia, e molto raramente è in situazioni straordinarie come quella che stiamo vivendo noi ora, qui… in questa ragazzina, questa povera bambina. No, io la vedo spesso nelle piccole cose della vita, Damien, nell’insensibilità, nei piccoli rancori, nelle incomprensioni, nelle parole crudeli e sferzanti che si dicono, spesso senza volere, nelle discussioni tra amici. O tra innamorati. Se mettiamo insieme tutte queste piccole cose, Damien», continuò con un filo di voce, «non abbiamo più bisogno della figura del diavolo per capire le nostre guerre, per capire noi stessi… noi stessi…». Dalla stanza proveniva ancora quella cantilena cadenzata. Merrin guardò verso la porta e rimase in ascolto per un momento. «Eppure anche da questo, anche dal male, nascerà il bene. In un modo che noi non riusciremo mai a comprendere e neppure a vedere». Tacque per un momento. «Forse il male è l’involucro dietro il quale si cela il bene», mormorò. «E forse lo stesso Satana, a dispetto di se stesso, è solo uno strumento perché si compia la volontà di Dio». Non aggiunse altro, e per qualche istante i due rimasero in silenzio. Karras rifletteva su quelle parole. Una nuova obiezione gli venne in mente. «Quando il demone viene scacciato», azzardò, «come si può fare in modo che non ritorni?». «Non lo so», rispose Merrin. «Non lo so. Eppure sembra che questo non succeda mai. Mai. Mai». Merrin si portò una mano al volto, massaggiandosi le tempie e gli occhi. «Damien… è un nome magnifico», mormorò. Karras sentì nella voce dell’uomo tutta la sua infinita stanchezza. E qualcos’altro. Una sorta di ansia. Qualcosa come un dolore represso. Di scatto Merrin si allontanò dalla parete e, la mano ancora a coprirsi il viso, si scusò e si precipitò verso il bagno. Cosa c’è che non va?, si chiese Karras. Sentì una profonda invidia, un’ammirazione per la straordinaria forza dell’esorcista, per la sua purissima fede. Si voltò verso la porta. La cantilena era cessata. Alla fine la notte era giunta al termine? Dopo qualche minuto, Sharon uscì dalla camera con un mucchio di lenzuola e biancheria maleodorante. «Adesso dorme», disse. Distolse lo sguardo e continuò a camminare lungo il corridoio. Karras fece un lungo respiro e rientrò nella stanza. Sentì il freddo pungente, poi quel fetore insopportabile. Lentamente si avvicinò al letto. Regan dormiva. Finalmente. E finalmente, pensò Karras, anche lui poteva riposare. Si chinò e prese il polso della bambina, tenendo d’occhio sul suo orologio la lancetta dei secondi. «Perché mi hai fatto questo, Dimmy?». Gli si gelò il sangue nelle vene. «Perché l’hai fatto?». Il sacerdote non riusciva a muoversi, incapace anche di respirare, non osava guardare in direzione di quella voce piena di tristezza, non osava guardare quegli occhi: gli occhi dell’accusa, gli occhi della solitudine. Sua madre. Sua madre! «Mi hai lasciato per diventare un prete, Dimmy, mi hai fatto rinchiudere…». Non guardare! «Anche adesso mi scacci, Dimmy?». Non è lei! «Perché mi fai questo?». Le tempie gli pulsavano, martellanti, il cuore bloccato in gola. Karras chiuse gli occhi, strinse le palpebre, mentre quella voce si faceva sempre più implorante, più spaventata, piena di lacrime. «Sei sempre stato un bravo ragazzo, Dimmy. Per favore! Ho paura! Non mandarmi via, Dimmy! Ti prego!». …non è mia madre! «Fuori c’è il nulla! Solo il buio, Dimmy! Solitudine!». Adesso era un pianto. «Tu non sei mia madre!», sussurrò Karras con rabbia. «Dimmy, ti prego!». «Tu non sei mia…». «Oh, per carità di Dio, Karras!». Dennings. «Ecco, non è affatto giusto scacciarci da questo corpo! Molto semplice! Davvero! Per quanto mi riguarda, il fatto che io sia qua dentro è più che giusto! Questa puttanella! Lei ha preso il mio corpo, e io credo che sia proprio un mio diritto che mi sia permesso di stare nel suo, non trovi, Karras? Oh, Cristo santo, Karras, guardami, vuoi guardarmi? Coraggio, vieni avanti! Non capita spesso di vedermi sul palco a recitare la mia parte. Adesso, forza, girati verso di me». Karras aprì gli occhi e poté vedere la personalità di Dennings. «Bravo, così va meglio. È stata lei a uccidermi. Non il custode, Karras, è stata lei! Oh, proprio così!». Annuiva come a confermare le sue parole. «Lei! Stavo facendo i fatti miei, al bar nello studio, capisci, quando mi è sembrato di sentire dei lamenti. Be’, era mio dovere andare a vedere se stesse male, dopo tutto. Allora sono salito al piano di sopra, e avresti dovuto vedere come mi ha afferrato per la gola, maledizione, questa troietta». La voce ora si fece lamentosa, patetica. «Cristo, non avevo mai visto una forza simile in tutta la mia vita! Ha cominciato a gridare che le avevo rubato le attenzioni di sua madre, o qualcosa del genere, o che avevo causato la separazione dei suoi genitori. Insomma, cose di questo tipo. Non si capiva bene. Ma te lo posso dire, caro, mi ha preso e mi ha buttato giù da quella fottuta finestra!». La voce tornò aspra, gracchiante. Un tono più alto. «Cazzo, mi ha ucciso! Mi ha ucciso! Ora dimmi, non pensi che sia maledettamente sleale da parte tua mandami via da qui? Andiamo, Karras, rispondi alla mia domanda! Pensi davvero che sia leale? Insomma, lo pensi davvero?». Karras deglutì. «Sì o no?», continuò la voce. «È leale o no?». «Come mai… perché la testa girata al contrario?», chiese Karras roco. Dennings si guardò intorno, evasivo. «Oh, be’, quello è stato un incidente… uno scherzo del destino… ho sbattuto su tutti quegli scalini… un caso». Karras cercò di riflettere, la gola completamente asciutta. Poi prese di nuovo il polso di Regan, gli occhi fissi sul suo orologio, per non badare a quelle parole. «Dimmy, ti prego! Non lasciarmi sola!». Sua madre. «Se invece di farti prete avessi fatto il medico, io ora vivrei in una bella casa, Dimmy, non in una topaia piena di scarafaggi, non tutta sola in una topaia! Allora…». Karras si sforzava di non ascoltare, di rimanere impenetrabile, ma la voce tornò a essere piagnucolosa. «Dimmy, ti prego!». «Non sei mia…». «Non vuoi guardare in faccia la verità, eh, brutta carogna schifosa?». Il demone. «Credi a quello che ti dice Merrin?», sibilò. «Credi che lui sia santo e buono? Bene, sappi che non è così! È superbo e inaffidabile! Te lo proverò, Karras! Te lo proverò facendo morire la troietta!». Karras aprì gli occhi, ma non ebbe il coraggio di guardare. «Sì, Karras, morirà e non la salverà il Dio di Merrin! Non la salverete! Morirà per colpa di Merrin, del suo orgoglio e della tua incompetenza! Incapace! Non avresti dovuto darle il Librium!». Il sacerdote si voltò a guardare gli occhi. Erano scintillanti di soddisfazione, di trionfo, di cattiveria. «Sentile il polso!», disse in un ghigno il demone, «Avanti, Karras! Sentile il polso!». Il braccio della bambina era ancora tra le sue mani. Il battito era rapido e… «Debole?», gracchiò il demone. «Oh, sì. Un’inezia. Per il momento, solo un po’». Karras raggiunse la sua borsa da medico e prese lo stetoscopio. Il demone lo invitò con voce aspra: «Ascolta, Karras! Ascolta bene!». E Karras ascoltò. Il battito cardiaco suonava lontano, debole. «Non le permetterò di addormentarsi!». Sollevò lo sguardo sul demone. Si sentì gelare. «Sì, Karras», gracchiò ancora. «Non si addormenterà! Senti? Non permetterò che la troietta si addormenti!». Sotto lo sguardo fisso del sacerdote, il demone gettò la testa all’indietro esplodendo in una risata gutturale. Karras non si accorse che Merrin stava rientrando nella stanza. L’esorcista gli si fece vicino accanto al letto e osservò il suo volto. «Che succede?», chiese. Karras rispose, con voce priva di espressione. «Il demone… ha detto che non la lascerà dormire». Offrì i suoi occhi tormentati al vecchio. «Il suo cuore funziona sempre peggio, padre. Se non riesce a riposare al più presto, c’è il rischio di un collasso cardiaco». Merrin assunse un’aria seria e preoccupata. «Puoi darle qualche calmante? Qualche farmaco che la faccia dormire?». Karras scosse la testa. «No, sarebbe pericoloso. Potrebbe entrare in coma». Si voltò quando Regan prese a ridere, starnazzando come una gallina. «Se la pressione sanguigna dovesse alzarsi ancora…». Non volle concludere la frase. «Cosa si può fare?», chiese Merrin. «Niente… niente…», rispose Karras. «Ma non so… forse qualche nuovo farmaco…», disse all’improvviso. «Vado a chiamare un cardiologo, padre». Merrin annuì. Karras si precipitò al piano inferiore. Trovò Chris in cucina, in attesa. Dalla stanza accanto gli arrivavano i singhiozzi di Willie e la voce di Karl che cercava di consolarla. Spiegò a Chris la necessità di un consulto, attento a non svelare il pericolo reale che la bambina stava correndo. Chris lo autorizzò a telefonare, e Karras chiamò un vecchio amico, un famoso specialista della facoltà di medicina dell’università di Georgetown. Lo svegliò e gli spiegò brevemente la situazione. «Arrivo subito», disse il medico. In meno di mezzora era lì. Entrando nella stanza, reagì con sgomento al freddo e alla puzza, con sincera compassione alle condizioni di Regan. Adesso farfugliava cose incomprensibili con voce stridula. Mentre il cardiologo la visitava, alternava canzoni a strani versi di animali. Poi apparve nuovamente Dennings. «Oh, ma è terribile», si lamentò con lo specialista. «Semplicemente orribile! Oh, spero davvero che lei possa aiutarla! C’è qualcosa che può fare? Noi non abbiamo un posto dove andare, altrimenti, e tutto questo perché… Oh, maledetto diavolo testardo». Il cardiologo guardò stupito la scena, continuando a misurare la pressione sanguigna. Dennings spostò lo sguardo su Karras. «Che cavolo stai facendo? Non vedi che questa puttanella dovrebbe andare in ospedale? L’aspetta il manicomio, Karras! Adesso lo sai anche tu! È vero! Adesso dacci un taglio con queste cazzo di cerimonie! Se muore, lo sai, è solo colpa tua! Tutta colpa tua! Insomma, solo perché lui è un testardo, non vuol dire che tu ti debba comportare come un moccioso! Sei un medico! Dovresti saperlo, Karras! Avanti, con la penuria di alloggi che c’è di questi tempi, lo sai, se dovesse morire…». Di nuovo il demone. Ululati. Il cardiologo, impietrito, sciolse la fascia dello sfignomanometro. Poi fece un cenno del capo a Karras. Aveva finito. Uscirono in corridoio. Lo specialista guardò indietro verso la porta della stanza, un istante soltanto, poi si rivolse a Karras. «Che diavolo sta succedendo là dentro, padre?». Il gesuita evitò il suo sguardo. «Non posso dirlo», rispose sommessamente. «Va bene». «Come sono le condizioni?». I modi del cardiologo furono sbrigativi. «Deve smettere di agitarsi… deve dormire… dormire prima che la pressione salga ancora…». «C’è qualcosa che posso fare, Bill?». Il medico guardò Karras dritto negli occhi. «Prega». Salutò e andò via. Il sacerdote lo osservò mentre si allontanava. Ogni suo muscolo, ogni arteria, ogni nervo chiedeva riposo, chiedeva speranza, chiedeva un miracolo, nonostante sapesse che non ce ne sarebbe stato nessuno. «…non avresti dovuto darle il Librium!». Tornò verso la stanza e spinse la porta con una mano pesante come la sua anima. Merrin era in piedi accanto al letto. Guardava Regan nitrire come un cavallo. Sentì i passi di Karras e si voltò verso di lui con sguardo interrogativo. Il sacerdote scosse la testa. Merrin annuì. C’era una profonda tristezza nel suo volto, poi rassegnazione; ma quando si girò verso Regan, diventò piena determinazione. Merrin s’inginocchiò ai piedi del letto. «Padre nostro…», cominciò. Regan gli sputò addosso, una bile scura e fetida. «Perderai! Morirà! La troietta morirà!». Karras prese la sua copia del Rituale. L’aprì. Sollevò lo sguardo su Regan. «Salva la tua serva», pregò Merrin. «Di fronte al nemico». Il cuore di Karras era colmo di disperazione. Dormi! Dormi!, ruggì la sua coscienza in un impeto di parossismo. Ma Regan non riusciva a dormire. Non all’alba. Non a mezzogiorno. Non al calar della sera. Non il giorno seguente, domenica. Il battito arrivò alle centoquaranta pulsazioni al minuto, filiforme. Le crisi si susseguivano senza sosta; Karras e Merrin continuarono a ripetere il rito, senza dormire. Karras cercava febbrilmente possibili rimedi: una fascia costrittiva che limitasse al minimo i movimenti della bambina; oppure tenere tutti lontani dalla camera, per vedere se la violenza delle provocazioni si attenuava. Non fu così. E le grida di Regan sfiancavano il suo organismo tanto quanto i suoi movimenti. Eppure la pressione sanguigna teneva. Ma quanto ancora sarebbe durata? Karras era logorato dalla situazione. Oh, Signore, non lasciare che muoia!, gridava dentro di sé. Non lasciarla morire! Falla dormire! Lasciala dormire! Non fu mai consapevole che quei pensieri altro non erano che preghiere. Preghiere che non furono mai ascoltate. Alle sette della sera di domenica, Karras sedeva in silenzio accanto a Merrin nella stanza, sfinito, distrutto dai ripetuti attacchi del demone. La sua mancanza di fede, la sua incompetenza, l’aver abbandonato sua madre per il sacerdozio. E Regan. La sua colpa. «Non avresti dovuto darle il Librium…». I due preti avevano appena terminato un ciclo del rituale. Stavano riposando, mentre Regan cantava Panis Angelicus. Raramente avevano lasciato la stanza. Una volta sola Karras, per cambiarsi e farsi una doccia. Ma in quel freddo era più semplice rimanere svegli, immersi in quel fetore che rispetto alla mattina era cambiato: adesso era un odore di putrefazione, di carne marcia, che prendeva alla gola. Mentre con gli occhi arrossati osservava la bambina, a Karras sembrò di sentire un rumore. Qualcosa che scricchiolava. Poi di nuovo. Quando sbatteva le palpebre. Si accorse che il rumore veniva proprio da queste, a tal punto erano cispose. Si voltò verso Merrin. Nel corso delle ultime ore, l’esorcista aveva pronunciato pochissime parole: solo ogni tanto qualche racconto della sua infanzia, qualche ricordo, piccoli aneddoti, la storia della sua anatra, Clancy. Karras si preoccupò per lui. La mancanza di sonno. Gli attacchi del demone. Alla sua età. Merrin chiuse gli occhi e chinò il capo, il mento abbandonato sul petto. Karras lanciò un’occhiata verso Regan, poi esausto si alzò e si avvicinò al letto. Le sentì il polso e iniziò a controllare la pressione. Mentre applicava la fascia dello sfignomanomentro attorno al braccio, strizzò ripetutamente gli occhi per essere certo di quello che stava vedendo. «Giorno della Mamma oggi, Dimmy». Per un istante non riuscì a muoversi. Gli parve che il cuore gli schizzasse fuori dal petto. Poi guardò quegli occhi che ora non sembravano più quelli di Regan; erano occhi tristi, pieni di rimprovero. Quelli di sua madre. «Non sono stata buona con te? Perché mi hai lasciata morire tutta sola, Dimmy? Perché? Perché mi hai…». «Damien!». Merrin gli strinse forte il braccio. «Per favore, esci e vai riposarti un po’, Damien». «Dimmy, ti prego! Perché mi lasci…». Sharon entrò per cambiare le lenzuola. «Vai, Damien, dormi qualche ora!», ordinò Merrin. Con un nodo alla gola, Karras uscì dalla stanza. Si fermò in corridoio, esausto. Poi scese le scale con passo incerto. Caffè? Lo desiderava, ma ancor di più desiderava farsi una doccia, cambiarsi i vestiti, radersi. Lasciò la casa e raggiunse la palazzina dei gesuiti dall’altra parte della strada. Entrò e barcollando andò nella sua stanza. E quando posò gli occhi sul letto… Dimenticati della doccia. Dormi. Solo mezzora. Si avvicinò al telefono per chiamare la reception e chiedere di essere svegliato, ma proprio in quel momento squillò. «Sì, pronto?», rispose roco. «Qualcuno vuole vederla, padre Karras, l’aspetta qui. Il signor Kinderman». Per un momento, Karras trattenne il fiato; poi debolmente disse: «Per favore, gli dica che arrivo tra un minuto». Non appena ebbe appoggiato la cornetta, vide il pacchetto di Camel sulla scrivania. Attaccato c’era un bigliettino di Dyer. Lo lesse con la vista annebbiata: Una chiave dello Strip Club Playboy è stata trovata nell’inginocchiatoio della cappella, di fronte alle candele. È tua? Nel caso puoi richiederla alla reception. Impassibile, Karras poggiò il bigliettino sul tavolo. Indossò vestiti puliti e uscì dalla stanza. Si dimenticò di prendere le sigarette. Alla reception trovò Kinderman al banco del centralino, intento a sistemare un mazzo di fiori in un vaso. Quando si voltò e vide Karras, teneva tra le mani lo stelo di una camelia rosa. «Ah, padre, padre Karras!», disse raggiante il detective. La sua espressione divenne preoccupata davanti allo sfinimento sul volto del gesuita. Rapidamente rimise la camelia al suo posto e venne incontro al sacerdote. «Ha un aspetto orribile! Che succede? È questo il risultato di tutto quel suo correre intorno alla pista? La smetta! Mi dia retta, venga con me!». Afferrò il sacerdote per il gomito e lo spinse delicatamente a seguirlo in strada. «Ha un minuto?», gli chiese mentre già superavano la porta d’ingresso. «Un minuto scarso», mormorò Karras. «Cosa deve dirmi?». «Solo una breve chiacchierata. Mi serve un consiglio, niente di più, solo un consiglio». «Su cosa?». «Questione di pochi minuti», rispose il detective agitando una mano per tranquillizzarlo. «Adesso facciamo una passeggiata. Prendiamo un po’ d’aria, ci farà bene». Mise un braccio attorno a quello del sacerdote e lo condusse verso Prospect Street. «Ah, guardi, non è meraviglioso! Superlativo!». Stava indicando il sole che tramontava sul fiume. Nel silenzio, risuonò il rumoroso vociare degli studenti della Georgetown riuniti di fronte a un bar all’angolo con la trentaseiesima. Uno di loro diede un pugno sulla spalla di un compagno, poi i due presero a lottare amichevolmente. «Ah, l’università…», sospirò Kinderman con rassegnazione, indicando col capo la scena che stava osservando. «Non ci sono andato… ma avrei voluto… avrei davvero voluto…». Vide che Karras stava osservando il tramonto. «Dico sul serio, padre, ha davvero un brutto aspetto», gli ripeté. «Che succede? È stato male?». Quando sarebbe arrivato al punto?, si chiese Karras. «No, sono solo molto impegnato», rispose. «Ci vada piano, allora», ansimò Kinderman. «Piano, con calma. Lo sa meglio di me. A proposito, ha visto il Bolshoi Ballet al Watergate?». «No». «No, nemmeno io. Ma mi piacerebbe. Sono così aggraziati… così belli!». Erano giunti al muro di cinta della rimessa ferroviaria. Un braccio sul parapetto, Karras si voltò verso Kinderman. Il detective teneva le mani aperte sul muro e, pensieroso, guardava il fiume. «Allora, cosa le passa per la testa, tenente?», gli chiese Karras. «Ah, ecco, padre», sospirò Kinderman. «Ho paura di avere un problema». Karras lanciò un rapido sguardo alla finestra di Regan oscurata dalle tende. «Professionale?». «Be’, in parte sì… solo in parte». «Di che si tratta?». «Ecco, per di più è…». Esitante, il detective strizzò gli occhi. «Insomma, direi che è piuttosto un problema etico, padre Karras…». Kinderman si girò e poggiò la schiena al muro. Gli occhi fissi sul marciapiede, aggrottò la fronte, poi scrollò le spalle. «Non posso parlarne con nessuno se non con lei. Sicuramente non con il mio superiore, capisce. Davvero non posso, non posso parlarne con lui. Così ho pensato…». Il suo viso si illuminò di una improvvisa vitalità. «Avevo una zia… questa deve proprio sentirla, è divertente. Aveva il terrore, dico, il terrore, di mio zio. Per anni. Non osava nemmeno rivolgergli la parola. Non avrebbe mai osato alzare la voce con lui. Mai! Quindi, ogni volta che si arrabbiava con lui per qualcosa, per qualsiasi cosa, ecco, correva subito nell’armadio della sua stanza – non ci crederà! – al buio, da sola, con tutti i vestiti appesi e le tarme, e cominciava a maledire – maledire! – mio zio per almeno venti minuti. Diceva esattamente quello che pensava di lui! Insomma, dico la verità, lo insultava! Quando veniva fuori, stava meglio, andava da lui e gli dava un bacio sulla guancia. Allora, che mi dice, padre Karras? È o non è una buona terapia?». «Molto buona, sì», disse Karras con un accenno di sorriso. «Quindi io sarei il suo armadio, in questo momento? Mi sta dicendo questo?». «In un certo senso», confermò Kinderman. Abbassò di nuovo lo sguardo. «In un certo senso. Ma la cosa è più seria, padre Karras». Si interruppe un istante. «E l’armadio dovrà parlare», aggiunse con tono perentorio. «Ha una sigaretta?», domandò il sacerdote. Ora gli tremavano le mani. Il detective lo fissò, incredulo. «In una condizione come la mia si aspetta che fumi?». «No, non me lo aspetto», mormorò Karras, poggiando le mani sul muro e guardandole fisse. Smetti di tremare! «Bel medico! Dio me ne scampi! Dovessi trovarmi malato in una giungla e invece di Albert Schweitzer ci fosse solo lei… Lei cura ancora le verruche con impacchi di rane, Dottor Karras?». «Rospi, non rane», rispose Karras piano. «Oggi non è in vena di scherzare, eh?», chiese il tenente con tono preoccupato. «Qualcosa non va?». Senza dire nulla il sacerdote scrollò il capo. Poi, gentile: «Mi dica, tenente». Kinderman sospirò e si voltò verso il fiume. «Stavo dicendo che…». Ansimò, poi si sfiorò la fronte con il pollice. «Stavo dicendo che… insomma, diciamo che sto lavorando a un caso, padre. Un omicidio». «Dennings?». «No, un caso ipotetico, puramente ipotetico. Lei non ne sa nulla. Niente. Nulla di nulla». Karras annuì. «Un omicidio rituale, legato alla stregoneria, a quanto sembra», proseguì il detective. Era accigliato, sceglieva con attenzione le parole. «E diciamo che in questa casa, questa casa ipotetica, vivono cinque persone. Una di loro deve per forza essere l’assassino». Agitava la mani, con movimenti carichi di enfasi. «Questo è ciò che so. Lo so per certo». Si fermò, respirando lentamente. «Ma qui è il problema… Tutti gli indizi… ecco, tutti gli indizi portano a un bambino, padre Karras; una bambina di dieci, dodici anni… solo una bambina, potrebbe essere mia figlia». Teneva gli occhi fissi sulla massicciata davanti a loro. «Sì, lo so, sembra una storia inventata, ridicola… ma è vera. Ora, in questa casa arriva un prete, padre, un prete molto famoso. E visto che questo è uno scenario puramente ipotetico, si dà il caso che il mio ipotetico genio sia a conoscenza del fatto che questo prete, una volta, ha curato una malattia molto, molto speciale. Una malattia mentale, devo dirlo, sapendo che questo risveglierà il suo interesse». Karras sentì il suo volto farsi pallido come cenere. «Ora, c’è un altro fatto… questa malattia ha a che fare con il satanismo, è così, e inoltre… la forza… una forza fuori dall’ordinario. E quindi, questa ragazzina ipotetica… ecco diciamo che avrebbe potuto… rigirare la testa di un uomo, mi capisce? Sì, avrebbe potuto». Adesso stava annuendo. «Sì… sì, avrebbe potuto. Ora la domanda è…». Sorrise, pensieroso. «Capisce, padre, la bambina non è responsabile, padre. È incapace di intendere e di volere». Si strinse nelle spalle. «È solo una bambina! Una bambina!». Scosse la testa. «E inoltre la malattia di cui è vittima… può essere pericolosa. Potrebbe uccidere qualcun altro. Chi può dirlo?». Di nuovo strizzò gli occhi in direzione del fiume. «È un problema. Cosa fare? Ipoteticamente, ripeto. Lasciar perdere? Far finta di niente e sperare che guarisca?». Prese un fazzoletto. «Padre, io non so… non so cosa fare». Si soffiò il naso. «È una decisione terribile, veramente terribile». Stava cercando una porzione pulita, inutilizzata, del fazzoletto. «Terribile. E detesto essere io a doverla prendere». Si soffiò nuovamente il naso e si tamponò leggermente una narice. «Padre, cosa sarebbe giusto fare in un caso simile? Ipoteticamente. Lei quale crede che sia la cosa giusta da fare?». Il gesuita ebbe un momento di tensione, di ribellione. Sentiva una rabbia cupa e silenziosa montargli dentro per questo nuovo peso da sopportare. Aspettò che defluisse. Incontrò gli occhi di Kinderman e rispose con dolcezza: «Metterei il caso nelle mani di un’autorità superiore». «Credo che sia lì che si trovi, al momento», disse Kinderman in un soffio. «Sì… e lì la lascerei». I loro sguardi si intrecciarono. Poi Kinderman ripose il fazzoletto nella tasca. «Sì… sì, mi aspettavo che avrebbe risposto così». Annuì, poi guardò il tramonto. «Davvero bello. Uno spettacolo». Scostò la manica della giacca per dare un’occhiata all’orologio. «Oh, devo proprio andare. La signora Kinderman starà già brontolando: “La cena si fredda!”». Si rivolse a Karras. «La ringrazio, padre, mi sento meglio, molto meglio. Oh, a proposito, potrebbe farmi un favore? Portare un messaggio? Se dovesse incontrare un uomo di nome Engstrom, gli dica… ecco, dica: “Elvira è in clinica, sta bene”. Lui capirà. Lo farebbe per me? Dico, se dovesse incontrarlo». Karras era confuso. Poi aggiunse: «Certo. Certo». «Senta, andiamo a vederci un film una di queste sere, padre, le va?». Il gesuita abbassò lo sguardo e mormorò: «Presto». «Presto. Sembra un rabbino quando parla dell’avvento del Messia: presto, sempre presto. Senta, mi faccia un altro favore, padre». Il detective assunse un’espressione seriamente preoccupata. «Smetta di correre su quella pista per un po’. Cammini e basta. Cammini, piano piano. Lo farà?». «Lo farò». Le mani ficcate in tasca, il detective riportò lo sguardo al suolo, rassegnato. «Capisco». Sospirò stancamente. «Presto. Sempre presto». Prima di allontanarsi, il capo ancora chino, posò una mano sulla spalla del sacerdote. La strinse. «Elia Kazan le manda i suoi omaggi». Per un po’ Karras rimase a osservarlo mentre avanzava col suo passo ondeggiante lungo la strada. Lo osservava con stupore. Con affetto. Sorpreso dalle infinite qualità di quel labirinto che è il cuore. Sollevò gli occhi alle nuvole vestite di rosa, sopra il fiume; poi più in là, verso ovest, dove si lanciavano verso il limitare del mondo, splendendo stancamente, come il ricordo di una promessa. Si portò un pugno alla bocca e scrutò nel profondo della sua tristezza, come se gli sgorgasse dalla gola fino a raggiungere gli angoli degli occhi. Rimase in attesa. Non osò guardare un’altra volta il tramonto. Guardò invece verso la finestra di Regan; poi tornò alla villetta. Fu Sharon ad aprirgli. Gli disse che la situazione non era cambiata. Aveva tra le braccia un mucchio di biancheria maleodorante. Se ne scusò. «Le stavo portando di sotto, alla lavanderia». Il sacerdote la guardò. Pensò al caffè. Ma improvvisamente sentì il demone che urlava, malvagio, contro Merrin. Si lanciò verso le scale. Poi si ricordò del messaggio. Karl. Era lì? Si voltò per domandare di lui a Sharon, ma fece appena in tempo a vederla scendere nel seminterrato. Confuso e indeciso, si diresse in cucina. Karl non c’era. Soltanto Chris. Era seduta al tavolo, lo sguardo fisso a… un album di foto? Vecchie immagini, ritagli di giornale. Le mani a visiera sulla fronte le impedivano di vederlo. «Mi scusi», disse molto dolcemente il sacerdote. «Karl è qui?». La donna scosse la testa. «È fuori per una commissione», sussurrò amara. Karras la sentì tirare su col naso. Poi: «C’è del caffè, padre», mormorò. «Dovrebbe essere pronto in un minuto». Karras aveva gli occhi fissi sulla lucina del bollitore quando sentì alle sue spalle che Chris si stava alzando. La donna gli passò accanto con passo svelto, il viso rivolto dall’altra parte. Si scusò con voce tremante e lasciò la stanza. Lo sguardo di Karras andò alle foto. Una ragazzina. Con un dolore improvviso, si accorse che quella che stava osservando era Regan. Qui stava spegnendo le candeline su una torta di compleanno ricoperta di crema; qui invece, seduta sul molo di un lago in pantaloncini e maglietta, salutava felice in direzione dell’obiettivo. C’era qualcosa stampato sulla T-shirt: CAMP… Non riusciva a leggere. Nella pagina seguente, un foglietto di carta a righe, e sopra, con la grafia di un bambino: Se invece di semplice creta Potessi prendere le cose più belle Come un arcobaleno O le nuvole o il canto degli uccelli Forse allora, cara mamma, se potessi metterle tutte insieme riuscirei a fare una scultura che davvero somigli a te. Sotto la poesia: «Ti voglio bene! Tantissimo! Buona festa della mamma!». Poi la firma, a matita: Rags. Karras chiuse gli occhi. Non riusciva a sopportare questo incontro. Si voltò stancamente, aspettando il caffè. Si aggrappò al ripiano della cucina e chiuse di nuovo gli occhi. Smetti di pensarci!, pensò, Smetti! Ma non gli era possibile, e quando sentì il rumore del caffè che usciva, le sue mani presero a tremare e la sua compassione si trasformò in una rabbia cieca, contro la malattia, contro il dolore, contro la sofferenza delle creature indifese, contro la fragilità del corpo, contro la mostruosa, insopportabile corruzione della morte. «Se invece di semplice creta…». La rabbia sfumò in una sensazione di sconforto e frustrazione disperata. «…le cose più belle…». Non poteva aspettare il caffè. Doveva andare… doveva fare qualcosa… aiutare… provarci… Uscì dalla cucina. Quando passò davanti al soggiorno, lanciò uno sguardo all’interno. Chris era sul divano, in preda a violenti singhiozzi, e Sharon le stava vicino per consolarla. Distolse lo sguardo e salì le scale. Sentiva il demone urlare furioso contro Merrin. «…Sapevi che avresti perso! Avresti perso, lo sapevi, Merrin, schifoso bastardo! Torna qui! Torna e…». Karras cercò di non ascoltare. «…o il canto degli uccelli…». Entrando nella stanza si rese conto di aver dimenticato di indossare il maglione. Guardò Regan. La testa era voltata dall’altra parte, di profilo, e la rabbia del demone continuava. «…tutte le cose più belle…». Si avvicinò alla sedia per prendere una coperta e solo in quel momento, nella sua infinita stanchezza, si accorse dell’assenza di Merrin. Mentre tornava verso il letto per misurare la pressione di Regan, quasi inciampò su di lui. Il suo corpo, esanime e disarticolato, giaceva sul pavimento lì accanto. Sconvolto, Karras si inginocchiò. Rivoltò il corpo e vide il viso livido. Sentì il polso. In un istante di lancinante, tagliente angoscia, realizzò che l’esorcista era morto. «…oh, la santissima scoreggia! Morire, Karras? Vuoi morire anche tu?», ruggì il demone. «Riportalo in vita, ridaccelo, non abbiamo ancora finito con lui!». Un infarto. Ostruzione delle coronarie. «Oh, Signore», gemette Karras in un sospiro. «Signore, no!». Non riusciva a crederci, disperato. Chiuse gli occhi e scosse il capo. Poi, con un dolore che sentiva crescere dentro di sé, spinse con forza il pollice nella carne del polso pallido del vecchio prete, come a raccogliere, a strizzare l’ultimo battito di vita da quel corpo. «…prete schifoso…». Karras si scostò dal cadavere e fece un lungo respiro. Poi vide le pillole sparse sul pavimento. Ne prese una e con una dolorosa scoperta si rese conto che Merrin sapeva. Aveva sempre saputo. Nitroglicerina. Lo sapeva. Gli occhi arrossati, gonfi di lacrime, il sacerdote guardò il viso del vecchio. «…vai a riposare un po’, Damien…». «Nemmeno i vermi mangeranno le tue carni putrefatte, tu…». Karras sentì le parole del demone e prese a tremare, sfigurato da una furia violenta. Non ascoltare! «…omosessuale…». Non ascoltare! Non ascoltare! Una vena sulla fronte di Karras iniziò a gonfiarsi, pulsando, livida. Quando prese le mani di Merrin e con tenerezza le mise a croce sul petto di vecchio, il demone gracchiò: «Adesso mettigli anche il cazzo tra le mani!». Un fiotto di saliva putrescente colpì l’occhio del cadavere. «Forza, l’ultimo rito!», sghignazzò il demone. Rovesciò la testa e si mise a ridere selvaggiamente. Gli occhi di Karras guardavano sgomenti quella macchia di sputo. Il sangue gli ribolliva nelle vene, impedendogli di sentire quello che succedeva attorno a lui. E lentamente, muovendosi a scatti, tremando, sollevò lo sguardo. Il suo viso era paonazzo dalla rabbia, uno spasmo di odio e rancore. «Figlio di puttana!», disse Karras tra i denti, un sibilo che tagliò l’aria come una lama d’acciaio. «Bastardo!». Non si mosse, eppure sembrava ondeggiare come un serpente, i muscoli del collo tesi come cavi di metallo. Il demone smise di ridere e piantò su di lui gli occhi colmi di cattiveria. «Perderai, Karras, come sempre! Sei un perdente! Lo sei sempre stato!». Regan lo colpì con un getto di vomito. Lui lo ignorò. «Sì, sei potente con i bambini, eh?», disse scosso da tremiti di rabbia. «Ragazzine! Forza, fammi vedere cosa sai fare, prenditela con uno più forte! Andiamo, fammi vedere!». Protese le mani verso il demone, mani simili a grossi, forti uncini. Le dita si aprivano e si chiudevano lentamente. «Forza, vediamo chi è il perdente! Prova con me! Lascia la bambina e prendi me! Vieni dentro di me!». Non era passato un minuto che Sharon e Chris sentirono il rumore dal piano di sopra. Erano nello studio; Chris aveva smesso di piangere e sedeva di fronte al bar mentre Sharon, dall’altra parte del bancone, le preparava da bere. Quando poggiò sul banco le bottiglie di vodka e di tonica, entrambe guardarono al soffitto. Colpi. Forti tonfi contro i mobili, contro le pareti. Poi la voce… del demone? Sì, il demone. Volgarità. Ma una voce diversa. Si alternavano. Karras? Sì, Karras. Eppure più potente. Più profonda. «No! Non ti permetterò di far loro del male! Non gli farai del male! Tu verrai con me…». Chris rovesciò il suo bicchiere, scossa dal violento rumore, dai vetri che andavano in frantumi, e in un istante lei e Sharon stavano correndo fuori dallo studio, su per le scale fino alla porta della stanza. Si precipitarono dentro. Videro le tende strappate, gettate sul pavimento! La finestra! I vetri erano andati completamente distrutti! Spaventate, corsero verso la finestra, e in quel momento Chris si accorse del corpo di Merrin riverso sul pavimento accanto al letto. Rimase paralizzata dallo shock. Poi si lanciò su di lui, chinandosi sul cadavere. «Oh, mio Dio!», disse con voce rotta. «Sharon! Vieni qui, Sharon, presto!». Sharon era alla finestra. Lanciò un grido improvviso. Chris, a bocca aperta, il sangue gelato nelle vene, la guardò correre di nuovo verso la porta. «Shar, che c’è?». «Padre Karras! Padre Karras!». Schizzò fuori dalla stanza, sconvolta. Chris si alzò e corse alla finestra tremando. Guardò in basso e sentì il cuore esplodergli in petto. In fondo alla scalinata, il corpo di Karras giaceva rigido sul pavimento. Una piccola folla gli stava intorno. Sgranò gli occhi, terrorizzata. Paralizzata. Provò a muoversi. «Mamma?». Una vocina, spaventata, un pianto, alle sue spalle. Chris trasalì. Non osava credere che… «Che succede, mamma? Ti prego, vieni qui! Mamma, ti prego, ho tanta paura! Ho…». Chris si voltò e vide le lacrime di confusione, la supplica, e immediatamente si precipitò verso il letto, piangendo. «Rags! Piccola mia! Rags!». Nel frattempo, Sharon uscì di corsa e raggiunse la palazzina dei gesuiti. Chiese di parlare urgentemente con padre Dyer. Il sacerdote venne subito alla reception. Sharon gli raccontò tutto. Lui impallidì. «Ha chiamato un’ambulanza?». «Oh, Dio mio, non ci ho pensato!». Dyer diede rapide istruzioni al centralinista, poi si lanciò fuori dall’edificio, seguito dalla ragazza. Attraversò la strada. Alla base della scalinata. «Permesso, fatemi passare! Permesso!». Mentre si intrufolava tra la folla, Dyer sentì quei commenti, la litania dell’indifferenza. «Che è successo?». «Un tipo è precipitato dalle scale». «L’hai visto?». «Doveva essere ubriaco. Vedi le macchie di vomito?». «Andiamo, o faremo tardi». Alla fine Dyer riuscì a farsi largo. Per un istante rimase congelato in una dimensione di dolore senza tempo, dove anche l’aria era troppo carica di sofferenza per poter respirare. Karras giaceva rigido e contorto sulla schiena, la testa al centro di una pozza di sangue. Aveva gli occhi aperti. Guardavano il vuoto. La bocca era spalancata. E ora quegli occhi si mossero, posandosi vacui su Dyer. Un barlume di vita. Un luccichio di gioia. Una preghiera. Qualcosa di urgente. «Forza, circolare! Fate largo!». Un poliziotto. Dyer si chinò e posò una mano delicata su quel volto contuso, livido, accarezzandolo. Era pieno di ferite. Un grumo di sangue all’angolo della bocca. «Damien…». Dyer s’interruppe, cercando di fermare il tremito della sua voce, mentre negli occhi dell’amico tornava quella luce, quella debole luce, quella preghiera, quell’urgenza. Si fece più vicino. «Riesci a parlare?». Lentamente Karras allungò un braccio fino a toccare con la mano il polso di Dyer, guardandolo fisso. Lo strinse leggermente. Dyer ricacciò indietro le lacrime. Si chinò ancora e accostò la bocca all’orecchio del sacerdote. «Vuoi confessarti, Damien?». Una stretta. «Ti penti di tutti i peccati che hai commesso nella tua vita e di aver offeso Dio onnipotente?». Una stretta. Dyer si raddrizzò e con gesti lenti tracciò il segno della croce sul corpo di Karras. Poi pronunciò la formula dell’assoluzione: «Ego te absolvo…». Una lacrima scivolò dall’angolo dell’occhio di Karras. Dyer sentì la presa sul suo polso farsi più forte, sempre più forte, mentre finiva di dire quelle parole. «…in nomine Patris, et Filii, et Spiritus Sancti. Amen». Si chinò di nuovo e avvicinò la bocca all’orecchio di Karras. Aspettò. Si sforzò di sciogliere il nodo che sentiva in gola. «Sei…?». Si interruppe quando sentì la presa sul suo polso allentarsi improvvisamente. Tirò indietro la testa e vide gli occhi pieni di pace, di pace e di qualcos’altro. Qualcosa di misterioso, come una gioia, il raggiungimento di qualcosa di desiderato con tutto il cuore. Gli occhi erano ancora aperti, guardavano. Ma niente di questo mondo. Niente che fosse di questa Terra. Con gesti delicati e teneri, Dyer chiuse le palpebre dell’amico. Sentì in lontananza la sirena dell’ambulanza. Cominciò a dire «Addio», ma non riuscì a finire. Chinò il capo e scoppiò in lacrime. L’ambulanza arrivò pochi istanti dopo. Karras fu deposto su una barella e, mentre lo stavano caricando sul mezzo, Dyer volle salire a bordo. Sedette all’interno e strinse la mano del sacerdote. «Non c’è più niente da fare per lui, padre», gli disse l’infermiere con gentilezza. «Non renda le cose più difficili. Resti qui». Dyer continuava a fissare quel volto devastato, distrutto. Scosse la testa. L’infermiere fece un cenno dalla finestrella all’autista che aspettava, paziente. Annuì. La porta del mezzo si chiuse con un tonfo. Dal marciapiede, Sharon osservò sconcertata l’ambulanza che si allontanava. Sentì i commenti dei passanti. «Cosa è successo?». «Chi lo sa, amico? Chi diavolo lo sa?». Il suono della sirena riempì la notte, riempì l’aria al di sopra del fiume. Poi cessò quando l’autista si ricordò che ormai il tempo non era più importante. Spense la sirena. L’acqua del fiume continuava a scorrere lentamente, andando a lambire rive più serene.

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