Parte Seconda. Cap. V

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Nella vallata del campus, tiepida, verde, Damien Karras correva intorno all’ovale del campo da football. Indossava pantaloncini cachi e una maglietta grigia segnata da macchie scure di salutare sudore. Poco più in là di fronte a lui, in cima a una collinetta, la cupola bianca di calce dell’osservatorio astronomico sembrava muoversi, pulsante, al ritmo del suo passo. Alle sue spalle la facoltà di medicina si allontanava, trascinando con sé quei frammenti di sofferenza e di cure. Da quando era stato sollevato dalle sue incombenze, aveva preso a venire ad allenarsi tutti i giorni, macinando chilometri lungo la pista per stancarsi abbastanza da trovare il sonno. E c’era quasi riuscito; era quasi riuscito a sottrarsi a quella morsa terribile che gli stringeva il cuore, indelebile come un tatuaggio praticato in profondità sottopelle. La stretta si era fatta lentamente più sopportabile. Venti giri… Sempre più lieve. Ancora! Ancora altri due! Sempre più lieve. Con i potenti muscoli delle gambe ben ossigenati e ben irrorati dal sangue, con quella falcata decisa e aggraziata da leone, Karras continuava a battere la pista quando si accorse di un uomo, seduto sulla panchina dove aveva lasciato l’asciugamano, il maglione e i pantaloni. Era un uomo di mezza età con un cappotto logoro e un cappello piuttosto sgualcito. Sembrava che osservasse proprio lui. Chi era? Sì, osservava lui: aveva girato la testa al passaggio di Karras. Il sacerdote accelerò il passo, spingendo sulle gambe all’ultimo giro con lungi passi che risuonavano pesanti sul terreno. Poi, lentamente, il suo divenne un camminare ansimante proprio mentre, facendo profondi respiri, superava la panchina, senza guardare, le mani premute sui fianchi. La muscolatura del torace e delle spalle, robusta e forte, premeva sul tessuto della maglietta, facendo distorcere la scritta FILOSOFI stampata sul davanti in lettere un tempo nere e ora scolorite dai numerosi lavaggi subiti. L’uomo con il cappotto si alzò in piedi e si avvicinò al gesuita. «Padre Karras?», chiamò con la solita voce roca il tenente Kinderman. Il prete si voltò e annuì con un cenno rapido del capo. Con gli occhi appena socchiusi per proteggersi dalla luce del sole aspettò che il detective lo raggiungesse. Poi però riprese a camminare, chiedendo con un gesto della mano all’altro di seguirlo. «Le dispiace? Continuo a camminare, per evitare i crampi», disse col fiatone. «Oh, non c’è problema», rispose Kinderman con una smorfia che rivelava la sua totale mancanza di entusiasmo per la proposta. Mise le mani in tasca. La passeggiata dal parcheggio fino a lì lo aveva già stancato abbastanza. «Ci siamo… ci siamo già visti?», chiese il sacerdote. «No, padre, no, ma un sacerdote all’ingresso del campus mi ha detto che lei sembra un pugile. Non ricordo il nome però». Tirò fuori il portafogli dalla tasca, poi aggiunse: «Non sono mai stato bravo con i nomi». «E il suo?». «William Kinderman, padre». Gli mostrò il tesserino d’identificazione del dipartimento. «Squadra omicidi». «Davvero?». Karras osservò con attenzione il documento. Nei suoi occhi brillava un interesse vivace, quasi infantile. Il viso, così sudato e arrossato per lo sforzo appena compiuto, aveva assunto un’aria di innocente impazienza. Si girò verso il detective che con passo incerto cercava di seguirlo. «Come posso esserle utile?». «Ehi, padre, sa una cosa?», replicò il detective analizzando con lo sguardo i lineamenti marcati del prete. «Aveva ragione quel sacerdote, lei sembra davvero un pugile. Forse, mi scusi, per via di quella cicatrice vicino all’occhio», continuò indicando col dito. «Come Marlon Brando, sembra proprio quella di Brando in Fronte del porto. I truccatori gli fecero una cicatrice», e illustrò le sue parole tirandosi l’angolo dell’occhio, «una cicatrice che faceva sembrare l’occhio leggermente socchiuso, appena appena, così che sembrasse sempre come assente, confuso, sempre triste. Ecco, il suo viso è identico!», disse, ancora indicando. «Lei è davvero uguale a Marlon Brando. Glielo dicono tutti, vero, padre?». «No, nessuno». «Nemmeno che sembra un pugile?». «Oh, qualche volta». «È di queste parti?». «New York». «Partecipavate ai Golden Gloves3, dico bene?». «Ha fatto centro, merita una promozione. La faranno capitano», rispose Karras sorridendo. «Ora mi dica, come posso aiutarla?». «Per prima cosa cammini un po’ più piano, per favore. Enfisema». Il detective si portò una mano alla gola. «Oh, mi perdoni». Karras rallentò l’andatura. «Non si preoccupi. Fuma, padre?». «Sì». «Non dovrebbe». «Bene. Ora mi dica di cosa si tratta». «Certo, ho divagato un po’ troppo. Senta, è occupato? Ha da fare?», s’informò il detective. «Interrompo qualcosa?». «Che cosa, per esempio?», domandò Karras, perplesso. «Ma, non saprei, forse stava dicendo delle preghiere fra sé». «La faranno sicuramente capitano», rispose criptico Karras, di nuovo con un sorriso. «Chiedo scusa, ma non ho afferrato». Karras scosse la testa, però il suo sorriso non scomparve. «Penso davvero che non le sfugga nessun dettaglio», spiegò poi. Lo sguardo che scambiò col detective era pieno di una sincera e complice simpatia. Kinderman si fermò e con un enorme quanto vano sforzo cercò di assumere un’espressione sorpresa: ma poi, guardando gli occhi ilari del sacerdote, chinò la testa e mormorò, sogghignando rassegnato: «Ecco, certo, dovevo aspettarmelo. Uno psichiatra, del resto, chi pensavo di prendere in giro?». Si strinse nelle spalle, poi continuò: «Ormai è come un’abitudine per me, padre. Il metodo Schmaltz4, la strategia Kinderman. Be’, vorrà dire che taglierò corto e le spiegherò direttamente il perché della mia visita». «Le profanazioni», rispose pronto Karras, annuendo. «Questa è la prova che il mio Schmaltz è andato sprecato», replicò calmo il detective. «Spiacente». «Non si preoccupi, padre, me lo sono meritato. Sì, si tratta di quanto è accaduto in chiesa», confermò. «Esatto. Solo che c’è dell’altro, qualcosa di più serio». «Un omicidio?». «Sì. Forza, mi colpisca ancora, comincia a piacermi». «Be’, è della squadra omicidi», rispose il gesuita con una scrollata di spalle. «Fa nulla, fa nulla, Marlon Brando, non si preoccupi. Le dicono spesso che, per essere un prete, lei fa troppo il dritto?». «Mea culpa», mormorò in risposta Karras. Nonostante stesse sorridendo, si rammaricò di aver forse intaccato la sicurezza di sé in quell’uomo. Non era sua intenzione. Almeno ora si sentiva sollevato di poter esprimere la sua sincera perplessità. «Continuo a non capire, comunque», aggiunse, facendo attenzione a sottolineare il suo stupore corrucciando la fronte, «quale relazione ci possa essere tra i due eventi». «Senta, padre, questa conversazione rimane tra noi, vero? In confidenza? Per capirci, come se ci trovassimo nel confessionale?». «Certamente». Adesso guardava il detective con occhi seri e carichi di sincerità. «Di cosa si tratta?». «Ha presente quel regista che stava girando un film proprio qui nel campus, padre? Burke Dennings?». «Sì, l’ho visto». «L’ha visto, certo», annuì Kinderman. «Sa anche com’è morto?». «Ho letto i giornali», disse Karras, ancora scrollando le spalle. «Quanto è apparso sui giornali è solo una parte di quello che è successo realmente». «In che senso?». «Solo una parte. Soltanto una piccola parte di quello che è successo. Mi ascolti: lei che ne sa di stregoneria?». «Come?». «Solo un attimo di pazienza, adesso ci arriviamo. Ora, mi dica, la stregoneria… lei la conosce bene?». «Non benissimo». «Dal punto di vista delle streghe, non dei cacciatori di streghe». «Ho scritto un articolo sull’argomento qualche tempo fa». Karras sorrise, poi precisò. «Dal punto di vista della psichiatria». «Davvero? Perfetto! Grandioso! Questo è un grande vantaggio per noi, un punto a nostro favore. Lei mi può aiutare tanto, molto più di quanto pensassi. Allora, padre, la stregoneria…». Prese sottobraccio il gesuita, poi si diressero di nuovo verso la panchina. «Vede, padre, io sono solo un profano e, se devo dirla tutta, non sono molto istruito. Non ufficialmente, per lo meno, no davvero. Però leggo, leggo tanto. So benissimo cosa si dice degli autodidatti, che sono come degli operai non specializzati prestati alla cultura. Ma io, sono sincero, non me ne vergogno. Per nulla. Io sono…». S’interruppe di colpo, chinò il capo e scosse la testa. «Schmaltz. È un’abitudine ormai, non riesco a smettere. Mi perdoni, la prego, so che è molto occupato». «Sì, sto pregando». La frecciatina del sacerdote era stata secca e inespressiva. Kinderman si fermò per un momento e lo guardò fisso. «Dice sul serio? No…». Il detective distolse lo sguardo e i due ripresero a camminare. «Vado subito al punto: le profanazioni. Le fanno venire in mente qualcosa che abbia a che fare con la stregoneria?». «Potrebbe essere. Qualche particolare rito utilizzato durante le messe nere». «Dieci e lode. E ora Dennings. Ha letto come è morto?». «Un incidente, una caduta». «Ecco, glielo dico io cosa è successo. Che resti tra noi, per favore». «Sicuro». Il detective assunse d’improvviso un’espressione sofferente, quando intuì che Karras non aveva nessuna intenzione di fermarsi alla panchina. «Le dispiace?», chiese con aria malinconica. «Cosa?». «Non potremmo fermarci un po’? Magari sederci?». «Oh, certamente». S’incamminarono subito verso la panchina. «Non le verranno i crampi?». «No, adesso sto bene». «Sicuro?». «Sto bene». «Okay, okay, se proprio insiste…». «Cosa stava dicendo?». «Glielo dico tra un istante, per favore, solo un istante». Con un sospiro di sollievo Kinderman poggiò la massa dolorante del suo corpo sulla panchina. «Ah, adesso va meglio, molto meglio», disse poi, mentre il gesuita recuperava la sua salvietta e si asciugava il viso sudato. «La mezza età, che vita impossibile…». «Diceva di Burke Dennings». «Dennings, Dennings, Dennings…». Il detective continuava ad annuire, gli occhi fissi sulle sue scarpe. Poi sollevò lo sguardo verso Karras. Il gesuita stava asciugandosi la nuca. «Burke Dennings, caro padre Karras, è stato trovato alla base di quella cascata di scale esattamente cinque minuti dopo le sette, con la testa completamente girata, insomma, di 180 gradi. Il viso sopra la schiena». Si sentivano delle grida in lontananza, provenienti dal campo di baseball dove la squadra dell’università faceva gli allenamenti. Karras smise di asciugarsi e ricambiò lo sguardo deciso del tenente. «Non è una conseguenza della caduta?». «Certo, potrebbe esserlo», rispose Kinderman stringendosi nelle spalle. «Però…». «È improbabile», aggiunse Karras come se parlasse tra sé. «Insomma, c’è qualcosa che le ricorda l’ambiente della stregoneria?». Con movimenti lenti il gesuita prese posto sulla panchina. Aveva un’espressione pensierosa. «Ecco», disse infine, «si presume, per le informazioni che abbiamo, che fosse questa la tecnica con cui i demoni rompessero il collo delle streghe. O perlomeno, così raccontano le leggende». «Leggende?». «Sì, per lo più si tratta di leggende», aggiunse Karras voltandosi verso il suo interlocutore, «nonostante alcune persone morissero davvero in quel modo. Credo si trattasse di adepti di qualche setta, colpevoli di aver tradito o di aver rivelato dei segreti. È solo una supposizione, ma c’era un preciso marchio di fabbrica per identificare gli omicidi satanici». Kinderman annuì. «Esatto, è vero. Ricordo bene un caso simile, un omicidio avvenuto a Londra poco tempo fa, dico, ai giorni nostri. Saranno non più di cinque o sei anni, padre, ricordo di averlo letto sui giornali». «Sì, lo ricordo anch’io. Ma se non sbaglio poi risultò essere una specie di scherzo, no?». «Ha ragione, padre, ha assolutamente ragione. Ma limitandoci al nostro caso, tuttavia si possono vedere delle relazioni tra questa dinamica e le cose accadute in chiesa. Qualche folle, padre, magari qualcuno con del rancore nei confronti della Chiesa. Forse una forma inconscia di ribellione…». «La mente malata di un prete», disse Karras, «è questo che intende dire?». «Lo psichiatra non sono io, padre. Me lo dica lei». «Ecco, gli episodi di profanazione hanno chiaramente un’origine patologica», disse Karras con aria concentrata, mentre s’infilava la giacca sportiva. «E se davvero Dennings è stato ucciso, be’, direi che l’assassino è senza dubbio un altro folle». «Che forse ha qualche nozione di stregoneria e riti demoniaci?». «Potrebbe essere». «Potrebbe essere», borbottò il detective. «L’individuo che risponde a queste caratteristiche vive dunque in questa zona, e ha accesso alla chiesa anche durante la notte?». «Un prete malato di mente», disse Karras, scuro in volto, mentre allungava una mano per recuperare un paio di pantaloni cachi scoloriti dal troppo sole. «Senta padre, capisco che sia difficile nella sua posizione, ma la prego… Insomma, lei è lo psichiatra dei preti del campus, quindi, padre, lei…». «No, mi è stato affidato un altro incarico». «Davvero? Proprio ora, nel bel mezzo dell’attività accademica?». «Queste sono le disposizioni», disse Karras stringendosi nelle spalle, mentre s’infilava i pantaloni. «In ogni caso, lei sa bene chi era malato in quel momento e chi non lo era, sbaglio? Voglio dire, un certo tipo di malattia, lei dovrebbe conoscerlo bene». «Niente affatto, tenente, assolutamente no. Sarebbe un caso se lo venissi a sapere. Vede, io non sono uno psicanalista, tutto quello che faccio è opera di consulenza. Comunque», precisò, abbottonandosi i calzoni, «non conosco davvero nessuno che corrisponda alla sua descrizione». «Ah, certo, etica professionale. Anche se lo sapesse, non me lo direbbe di sicuro». «Già, probabilmente non lo farei». «A proposito, ma glielo dico solo come informazione, questo genere di etica è considerato illegale negli ultimi tempi. Non vorrei disturbarla con cose di poco conto, ma di recente uno psichiatra nella soleggiata California, nientemeno che in California, è stato messo al fresco per non aver detto alla polizia quanto sapeva di un suo paziente». «È una minaccia?». «Non faccia il paranoico. Gliel’ho raccontato tanto per parlare». «Potrei sempre invocare davanti al giudice il segreto confessionale», disse il gesuita scoprendo i denti in un sorriso ironico, mentre si sistemava la camicia nei pantaloni. «A dirla tutta», aggiunse. Il detective lo guardò fisso, un’espressione cupa nel volto. «Le piacerebbe mettersi nel commercio, padre?», chiese. Poi distolse lo sguardo malinconico e aggiunse: «Padre… ma quale padre e padre…?», si chiese con un’enfasi particolare. «Lei è certamente ebreo, l’ho capito appena l’ho incontrata». Il gesuita rise. «Rida, rida pure», disse Kinderman, «rida pure». Ma poi si lasciò sfuggire una risata anche lui. Aveva un’aria di maliziosa soddisfazione. Si girò di nuovo verso il gesuita, con gli occhi brillanti, e aggiunse: «Sa, padre, tutto questo mi ricorda l’esame di ammissione all’accademia di polizia. Quando lo feci, uno dei quesiti suonava più o meno così: “Chi sono i rabbini e cosa potete fare per loro?”. Sa cosa ha risposto uno di quegli imbecilli? “I rabbini sono preti ebrei, e io farei qualunque cosa per loro”. Davvero, non è uno scherzo!». Si alzò dalla panchina e, con la mano sul cuore, fece il gesto di giurare. Karras rise di cuore. «Venga, l’accompagno alla macchina. Ha parcheggiato lontano?». Il detective lo guardò, riluttante a muoversi. «Quindi la nostra conversazione è finita?». Il prete mise un piede sopra la panchina e si allungò in avanti, posando una mano sopra il ginocchio. «Senta, tenente, io non sto cercando di nascondere niente né di coprire qualcuno», disse. «Davvero. Se conoscessi un prete come quello che voi state cercando, come minimo la avvertirei della sua presenza senza darle il nome. Poi credo che ne parlerei al padre provinciale. Ma non conosco nessuno che si avvicini alla descrizione che mi ha fatto». «Ah, certo», sospirò il tenente, «anche se io non ho mai pensato si trattasse di un prete, non seriamente». Con un cenno del capo indicò il parcheggio. «La mia macchina è lì». S’incamminarono. «Mi prenderebbe per pazzo», proseguì il detective, «se solo rivelassi ad alta voce il mio vero sospetto. Non lo so, davvero non lo so». Continuava a scuotere la testa. «Tutte queste congregazioni e queste sette dove si uccide senza motivo. A furia di sentire queste storie uno comincia a farsi idee bizzarre. Per stare al passo coi tempi, ormai, bisogna essere un po’ pazzi». Karras annuì. «Cos’è quella cosa sulla sua maglia?», gli chiese Kinderman, indicando con un movimento del mento il petto del gesuita. «Dove?». «Sulla sua maglietta», precisò il detective. «La scritta FILOSOFI». «Ah, questa. Per un anno ho tenuto dei corsi», rispose Karras, «al seminario di Woodstock, nel Maryland. Giocavo a baseball con la squadra dei dilettanti, non con i professionisti, e si facevano chiamare Filosofi». «E i professionisti come si chiamavano?». «Teologi». Kinderman rise di gusto e scosse ancora la testa. «Teologi tre, filosofi due», disse tra sé. «Ovviamente». «Già, ovviamente». «Che strane cose succedono», borbottò il detective. «Davvero strane. Mi ascolti, padre», continuò; stavolta c’era una nota d’incertezza nella sua voce. «Mi ascolti, dottore… Sono io che sono matto o magari qui, proprio nella nostra zona, potrebbe esserci una congrega di streghe? Ai giorni nostri?». «Oh, andiamo…», disse Karras. «Quindi potrebbe esserci». «Questa mi è sfuggita». «Adesso il dottore lo faccio io», annunciò il detective sferzando l’aria con l’indice teso. «Non ha detto no, ma invece ha fatto il furbo un’altra volta. Questo significa stare sulla difensiva, caro padre Karras, sulla difensiva. Forse lei ha paura di sembrare un credulone, solo un prete ingenuotto e superstizioso davanti a Kinderman, il gran pensatore, il razionalista». Con l’indice ora si toccava ripetutamente la tempia. «Il genio accanto a lei, qui, L’Età dei Lumi in persona. Mi sbaglio? Mi dica se sbaglio?». Il gesuita adesso lo guardava con un rispetto crescente. «Molto astuto, un’osservazione acuta», sottolineò poi. «Allora, riproviamo», disse Kinderman con un grugnito, «glielo chiedo ancora una volta: potrebbe esserci un covo di streghe in questa zona? È possibile?». «Ecco, non saprei davvero cosa risponderle», disse Karras pensieroso, le braccia incrociate sul petto. «Tutto quello che posso dirle è che in Europa si praticano messe nere». «Ancora oggi?». «Ancora oggi». «Intende dire proprio come si faceva un tempo, padre? Senta, io mi sono documentato, ho letto molto sull’argomento, su queste pratiche sessuali con le statue e quant’altro. Non voglio entrare nei particolari per non disgustarla, ma mi dica, comunque, fanno ancora queste cose? Le fanno davvero?». «Non lo so». «Questa è solo la sua opinione, allora, padre “In guardia”». Il gesuita rise. «Va bene, va bene. Penso che lo facciano davvero, o almeno ho questo sospetto. Ma la maggior parte delle mie conclusioni sono basate sulle patologie. Certo, si tratta di messe nere, ma chiunque le pratichi è un individuo profondamente disturbato, con disturbi davvero particolari. C’è una definizione clinica per questo tipo di infermità. Satanismo. Ne sono affette le persone che non riescono a raggiungere il piacere sessuale se non in relazione a un atto di blasfemia. Ecco, non è così raro, anche ai giorni nostri, e le messe nere vengono utilizzate soltanto come giustificazione, come contesto». «Ancora una domanda, mi perdoni, la prego. Cosa mi dice di tutte quelle cose con la statua della Madonna e del Cristo?». «Cosa vuole sapere?». «Sono vere?». «Ecco, credo che come poliziotto la cosa potrebbe interessarle». Colpito e stimolato nel suo campo di studi, Karras si fece man mano più vivace. «Negli archivi della polizia di Parigi risulta ancora il caso di una coppia di monaci di un monastero lì vicino, mi faccia pensare…». Si grattò la testa mentre si sforzava di ricordare. «Sì, credo che fosse il monastero di Crépy». Si strinse nelle spalle. «Vicino Parigi. I monaci si fermarono in una locanda e in modo piuttosto aggressivo chiesero un letto per tre persone. Ecco, il terzo personaggio che viaggiava con loro era una statua della Santa Vergine». «Accidenti, è sconvolgente», disse il detective sospirando. «Davvero sconvolgente». «Ma è la verità. Ed è anche un indizio chiaro che quanto ha letto è basato su fatti realmente accaduti». «Forse è così, almeno per le storie sul sesso, forse è così. Questo lo capisco, è una questione a parte. Lasciamo stare. Ma per quanto riguarda gli omicidi rituali, padre? Sono storie vere? Insomma, andiamo… usare il sangue dei neonati?». Il detective si riferiva a qualcos’altro che gli era capitato di leggere in un libro sulla stregoneria in cui si descriveva come dei finti preti durante la messa nera tagliassero i polsi di bambini appena nati, e ne versassero il sangue in calici, lo consacrassero e poi lo consumassero come si fa nell’eucaristia. «Questo suona come le leggende sugli ebrei», proseguì il detective, «accusati di rapire i bambini cristiani e di bere il loro sangue. Mi perdoni, ma la sua gente ha messo in giro queste cose». «Se lo abbiamo fatto, le chiedo perdono». «La assolvo, la assolvo». Qualcosa di oscuro, di triste attraversò gli occhi del prete, come l’ombra di un dolore ricordato per un istante. Subito spostò lo sguardo sul selciato del sentiero che stavano percorrendo. «Non so nulla di omicidi rituali», disse Karras. «Davvero no. Ma ricordo la storia di una levatrice svizzera che, molto tempo fa, confessò di aver ucciso più di trenta bambini per utilizzarne il sangue durante le messe nere. Forse, però, la confessione era stata raccolta sotto tortura. Chi può saperlo? In ogni caso la donna raccontò una storia convincente. Disse che teneva nascosto nella manica un lungo e sottilissimo spillo. Quando il bambino veniva alla luce, infilava lo spillone nel cranio del bambino, dove le ossa dovevano ancora saldarsi; poi lo nascondeva nuovamente nella manica. Nessuna traccia», disse ancora, guardando Kinderman. «I bambini sembravano nati morti. È a conoscenza dei pregiudizi che i cattolici europei ancora hanno nei confronti delle levatrici? Sono iniziati così». «È semplicemente spaventoso». «Il nostro secolo non ha l’esclusiva per quel che riguarda la follia. Ad ogni modo…». «Aspetti, solo un istante, mi perdoni. Tutte queste storie sono state raccontate da persone che avevano subito delle torture, non è così? Quindi, in sostanza, non sono molto affidabili. Prima firmavano le confessioni e poi erano gli altri, i machers5, a riempire gli spazi vuoti. Voglio dire, a quei tempi non c’erano principi come l’habeas corpus e nessuno andava a manifestare davanti ai tribunali con scritte tipo “Libertà per la mia gente”, giusto per capirci. Sbaglio? Mi corregga, se sbaglio». «Sì, ha ragione, ma anche allora tante confessioni venivano rilasciate spontaneamente». «Ma chi direbbe volontariamente cose simili?». «Be’, sicuramente delle persone con disturbi mentali». «Ah, perfetto! Un’altra fonte attendibile!». «Anche stavolta ha ragione, tenente. Io sto solo facendo l’avvocato del diavolo. Ma noi spesso tendiamo a dimenticare che individui sufficientemente psicotici da confessare cose simili possono essere sufficientemente psicotici da averle commesse veramente. Prendiamo il caso dei licantropi, per esempio. Insomma, si sa, nessuno è capace di trasformarsi in un lupo. Che succede però se un uomo è talmente disturbato non solo da pensare di essere un lupo ma, addirittura, da comportarsi come se lo fosse?». «Terribile. Ma di cosa stiamo parlando, padre, di teorie o di fatti?». «Be’, questo è il caso di William Stumpf, per esempio. O di Peter, non ricordo. Sì, di un tedesco del XVI secolo che era convinto di essere un licantropo. Uccise probabilmente tra i trenta e i quaranta ragazzini». «Intende dire che ha confessato di averlo fatto?». «Sì, certo, ma credo che la confessione fosse valida». «Come può dirlo?». «Quando lo hanno catturato stava mangiando il cervello delle sue due figliastre». L’aria frizzante di aprile, trasparente e soleggiata, era solcata dall’eco delle chiacchiere e dei colpi della mazza da baseball sulla pallina. Veniva dal campo di allenamento del campus. «Forza, Mullins, colpisci quella palla, eliminalo, andiamo!». Il prete e il detective arrivarono al parcheggio. Proseguirono in silenzio. Quando arrivarono alla macchina di servizio del tenente, Kinderman allungò senza pensarci una mano verso la maniglia. Per un istante rimase immobile in questa posizione, poi sollevò uno sguardo deluso verso Karras. «Allora, padre, mi sa dire a che cosa sto dando la caccia?», chiese il detective. «A un folle», rispose Karras sottovoce. «Forse a qualcuno sotto effetto di droghe». Il detective sembrò riflettere un istante, poi annuì senza parlare. Infine si voltò nuovamente verso il sacerdote. «Vuole un passaggio?», gli chiese, aprendo lo sportello della macchina. «Grazie, ma sono solo due passi». «Non faccia complimenti, forza!», rispose Kinderman con un gesto impaziente della mano, invitando Karras a salire in macchina. «Potrà raccontare ai suoi amici di aver fatto un giro su una vera auto della polizia». Il gesuita sorrise e prese posto sul sedile posteriore. «Molto bene, molto bene», disse il detective ansimando, poi si accomodò accanto al sacerdote e chiuse lo sportello. «Non esistono passeggiate brevi», commentò, «nessuna lo è». Karras indicò la strada e si diressero verso il modernissimo edificio della comunità dei gesuiti sulla Prospect Street, dove il sacerdote aveva preso alloggio di recente, convinto che, vivendo lì, gli altri preti sarebbero stati incoraggiati ad andare da lui per una consulenza. «Le piace il cinema, padre Karras?». «Moltissimo». «Ha visto Re Lear?». «Non ho ancora avuto modo, non posso permettermelo». «Io l’ho visto. Mi sono procurato dei biglietti omaggio». «Bel colpo». «Ricevo biglietti per i migliori spettacoli, ma la signora Kinderman è sempre molto stanca, non vuole mai accompagnarmi». «È un vero peccato». «Sì, un peccato, ha ragione, detesto andare al cinema da solo. Capisce, mi piace vedere i film in compagnia, parlarne, discuterne, criticarli». Continuava a guardare fuori dal finestrino, dal lato opposto a quello dove sedeva il sacerdote. Karras annuì in silenzio. Teneva lo sguardo fisso sulle mani, larghe e forti, che teneva unite in mezzo alle gambe. Ci fu un momento come di stallo, poi Kinderman si voltò con un movimento lento e un’ombra di tristezza nello sguardo. «Le andrebbe, qualche volta, di venire al cinema con me, padre? Tutto gratis, ho i biglietti omaggio», aggiunse subito dopo. Il prete ricambiò il suo sguardo, sorridendo. «Come diceva Elwood P. Dowd in Harvey, tenente: quando?». «Oh, le farò sapere, la chiamerò!», esclamò il detective, raggiante e pieno di entusiasmo. Giunsero alla palazzina e parcheggiarono. Karras mise la mano sulla maniglia e la fece scattare. «Mi chiami, tenente, ci conto. Per il resto, mi dispiace non esserle stato di grande aiuto». «Nient’affatto, mi ha aiutato», rispose Kinderman sottolineando con un gesto della mano le sue parole. Karras stava scendendo dall’auto. «E poi per essere un ebreo che cerca di convertirsi, lei è un uomo davvero simpatico». Karras si voltò, chiuse la portiera e si affacciò al finestrino aperto con un sorriso caloroso, anche se appena disegnato sulle labbra. «La gente le dice che somiglia a Paul Newman?». «Sempre, sì. E mi creda, dentro questo corpo il signor Newman si fa in quattro per uscire in superficie. Troppa gente qua dentro», continuò, «c’è pure Clark Gable». Karras salutò con la mano, sorrise ancora e s’incamminò. «Aspetti, padre Karras!». Il sacerdote si fermò e si voltò. Il detective stava scendendo dall’auto. «Ancora una cosa, padre, dimenticavo», disse con il fiato corto mentre lo raggiungeva. «Mi era sfuggito di mente. Ha presente quel foglio con tutte quelle schifezze scritte in latino? Quello che hanno trovato in chiesa?». «Intende dire la cartagloria?». «Quello che è, insomma. Sa forse dov’è?». «Sì, ce l’ho io, nella mia stanza. Stavo controllando il latino. Vuole vederla?». «Sì, magari ci dice qualcosa di più, chi lo sa». «Mi aspetti solo un istante, la vado a prendere». Mentre il detective aspettava poggiato alla macchina di servizio, il sacerdote raggiunse la sua stanza al piano terra e recuperò la cartagloria. Tornò al parcheggio e la consegnò a Kinderman. «Forse ci sono delle impronte», ansimò Kinderman guardando il foglio. Poi sembrò realizzare, e subito aggiunse: «No, aspetti, lei l’ha toccata sicuramente. Ottima pensata, “Mr Jogging”, ebreo che non è altro». Stava cercando con maldestre manovre di estrarre la carta dalla stretta custodia di plastica trasparente. «Ecco, aspetti, sta venendo fuori, ecco che viene». Poi, d’improvviso, sollevò lo sguardo sul prete, un’espressione di crescente costernazione negli occhi. «Non mi dica, Kirk Douglas, che ha toccato pure l’interno!». Karras reagì con un sorriso rassegnato, confermando col capo l’ipotesi del detective. «Non fa nulla, forse siamo ancora in grado di trovare qualcosa. A proposito, ha analizzato lo scritto?». «Sì, l’ho controllato». «E quali sono le sue conclusioni?». Karras si strinse nelle spalle. «Non sembra affatto opera di qualcuno che scherza. All’inizio pensavo potesse trattarsi di uno studente, ma ora ne dubito. Chiunque abbia prodotto questa cosa è profondamente disturbato». «Come mi ha già detto». «Per quanto riguarda il latino…», proseguì Karras, riflessivo, «non solo è tecnicamente perfetto, ma… ecco, presenta una precisa cifra stilistica, uno stile molto personale. Insomma, è come se chi avesse scritto questa cosa fosse abituato a pensare in latino». «I preti lo fanno?». «Oh, andiamo, che domanda è?». «Mi risponda, le chiedo solo questo, padre Paranoia». «Be’, in un certo stadio della loro preparazione, sì, lo fanno. Almeno i gesuiti e qualche altro ordine. Ai seminari di Woodstock, alcuni corsi vengono tenuti interamente ed esclusivamente in latino». «Come mai?». «Per precisione concettuale. Come succede con la giurisprudenza». «Ah, capisco». D’un tratto l’espressione di Karras si fece più seria, grave. «Mi ascolti, tenente, posso dirle chi penso davvero sia stato?». Il detective si fece più vicino. «Me lo dica. Chi?». «I domenicani. Gli stia alle calcagna». Karras liberò un sorriso, fece un cenno di saluto con la mano e si allontanò. «Non le ho detto tutta la verità, prima», gli gridò dietro il detective, stizzito. «Lei somiglia a Sal Mineo!». Kinderman osservò il sacerdote che agitava ancora una volta la mano prima di entrare nell’edificio, poi tornò indietro verso la macchina. Sospirò, seduto immobile sul sedile anteriore, gli occhi fissi sul tappetino. «Vibra e ronza, quest’uomo, vibra e ronza», mormorò tra sé, «esattamente come un diapason immerso nell’acqua». Per qualche istante rimase immobile in quella posizione. Poi sollevò la testa e si rivolse all’autista. «Tutto a posto, torniamo alla centrale. In fretta. Senza tener conto dei segnali, veloce!». Poco dopo erano già lontani. La nuova camera di Karras era arredata con grande semplicità: un letto singolo, una sedia sufficientemente comoda, una scrivania e una libreria ricavata direttamente dalla parete. Sul tavolo una fotografia della madre da giovane; sopra il letto, appeso al muro come un muto rimprovero, campeggiava un crocifisso di metallo. Quella stanza stretta riusciva a contenere tutto il suo mondo. Non gli interessava granché di possedere degli oggetti. L’unica cosa importante era che quei pochi che gli appartenevano fossero puliti. Si fece una doccia, strofinandosi con energia, poi indossò dei pantaloni cachi e una maglietta. Così vestito raggiunse il refettorio per la cena, e lì incrociò il volto rosa di Dyer. L’amico sedeva da solo a un tavolo un po’ in disparte. Lo raggiunse per tenergli compagnia. «Ciao, Damien», disse Dyer. Il giovane sacerdote indossava una vecchia maglietta di Snoopy, piuttosto scolorita. Prima di sedersi, ancora in piedi accanto al tavolo, Karras chinò lievemente il capo e rese grazie pregando sottovoce. Si segnò, prese posto e salutò l’amico. «Allora, che dice il nostro fannullone?», domandò Dyer mentre Karras si sistemava il tovagliolo in grembo. «Fannullone a chi? Sto lavorando». «Una lezione a settimana, davvero tantissimo…». «Non è la quantità che conta, ma la qualità», rispose Karras. «Che si mangia oggi?». «Non l’hai capito dal profumo?». «Oh, merda, oggi ci tocca il cane?». Hot dog e insalata di crauti. «Conta la quantità, non la qualità», replicò con serena ironia Dyer. Karras scosse la testa e allungò un braccio per raggiungere il contenitore d’alluminio del latte. «Fossi in te non lo farei», avvertì Dyer sottovoce e senza enfasi mentre imburrava una fetta di pane di segale. «Le vedi quelle bollicine? Salnitro». «Proprio quello che mi ci vuole», rispose Karras. Mentre con attenzione inclinava il suo bicchiere per riempirlo di latte, sentì alle sue spalle i passi di qualcuno che si accostava al tavolo. «Ecco qua, finalmente sono riuscito a finire il libro», disse il nuovo arrivato allegramente. Karras sollevò lo sguardo e un senso di doloroso sgomento lo colpì; sentì un peso prima leggero, poi di piombo penetrarlo fino alle ossa, quando riconobbe il giovane sacerdote che era stato da lui qualche giorno prima per un consiglio, quello che non riusciva a farsi degli amici. «Bene, e cosa ne pensa? Le è piaciuto?», chiese Karras. Rimise sul tavolo la brocca del latte con delicatezza, quasi si trattasse di un breviario consacrato. Il giovane sacerdote iniziò a parlare, e dopo mezzora Dyer pestava i pugni sul tavolo, riempiendo di risate tutta la sala mensa. Karras controllò l’orologio. «Perché non va a prendere una giacca?», chiese al giovane gesuita. «Possiamo fare una passeggiata verso l’altro lato del campus e fermarci a vedere il tramonto, se anche a lei fa piacere». Dopo pochi minuti stavano costeggiando il corrimano della scala che scendeva ripida verso M Street. Era il crepuscolo. I mille raggi del sole al tramonto infiammavano di gloria e di splendore le nuvole sparse nel cielo verso est, disegnando macchie di scura porpora sulla distesa increspata e nera del fiume. Una volta, Karras sarebbe stato capace di riconoscere il segno della grandezza del Signore in questo paesaggio. Tanto tempo fa. Continuava a presentarsi a questo appuntamento, come un amante che già sa di non essere più amato. «È davvero uno spettacolo», commentò il giovane prete. «Sì, lo è», aggiunse Karras. «Cerco di venire qui ogni sera». L’orologio del campus mandò i suoi rintocchi. Erano le sette in punto. Alle 7 e 23 il tenente Kinderman guardava concentrato un’analisi spettrografica che indicava che la vernice presente nella scultura di Regan era compatibile con quella utilizzata nella profanazione della statua della Vergine nella chiesa della Santissima Trinità. E alle 8 e 47, in un quartiere periferico nel quadrante nordorientale della città, un impassibile Karl Engstrom usciva da un palazzotto fatiscente popolato da poveracci e da topi, camminava per tre isolati in direzione sud fino alla fermata del bus, aspettava da solo per circa un minuto, il volto privo di espressione, poi d’improvviso si appoggiava a un lampione, esplodendo in un pianto convulso. Ma, in quel momento, il tenente Kinderman era al cinema.

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