Parte Prima. Cap. II

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Immobile sul bordo della piattaforma della metropolitana deserta, ascoltava il rombo del treno in arrivo che avrebbe placato il dolore che lo accompagnava. Come il battito del suo cuore, riusciva a sentirlo soltanto nel silenzio. Fece scivolare la borsa nell’altra mano e guardò giù verso il tunnel. Due punti di luce. Lanciati nell’oscurità come guide verso la disperazione. Un colpo di tosse. Volse lo sguardo alla sua sinistra. Un rottame umano, la barba ispida grigia e sudicia. Abbandonato nella pozza della sua stessa urina, stava tirandosi su a sedere. Con due occhi ingialliti fissò il prete, la faccia deturpata e triste. Il sacerdote si affrettò a guardare da un’altra parte. Quell’uomo si sarebbe avvicinato. Avrebbe cominciato a lamentarsi. Un aiuto a un vecchio chierichetto, padre? Mi aiuterebbe? La mano ancora chiazzata di vomito a far pressione sulla spalla. Poi l’armeggiare per tirar fuori la vecchia medaglietta. La puzza di quel fiato e delle mille confessioni celebrate col vino e il tanfo d’aglio e il sentore di peccati mortali ormai marci, come eruttati simultaneamente, soffocante… soffocante… Il prete si accorse che il relitto umano cercava di mettersi in piedi. Non avvicinarti! Sentì un passo alle sue spalle. Oh, mio Dio, per favore lasciami stare! «Ehi, ciao, padre». Un brivido. Si strinse nelle spalle, incapace di voltarsi. Non sopportava più di cercare Cristo ancora nel fetore, negli occhi vuoti e infossati. Un Cristo fatto di pus e di escrementi sanguinanti, un Cristo che non poteva esistere. Con un gesto quasi distratto si sfiorò la manica, come per accarezzare un’invisibile fascia da lutto. Si ricordò confusamente di un altro Cristo. «Ehi, padreee!». Il rumore lontano del treno che si avvicinava. Poi passi malsicuri, come un inciampare. Guardò il barbone. Si avvinava barcollando. Senza pensarci, con un movimento rapido e improvviso il prete lo raggiunse, lo afferrò per sorreggerlo e lo trascinò fino alla panchina appoggiata al muro. «Sono cattolico», disse l’uomo con un filo di voce. «Sono cattolico», ripeté. Il prete cercò di calmarlo, poi lo fece distendere. Vide arrivare il suo treno. Rapidamente, estrasse un dollaro dal suo portafogli e lo infilò nella tasca destra della giacca del mendicante. Poi gli venne in mente che avrebbe potuto perderlo, allora tirò fuori la banconota e la fece scivolare nella tasca dei pantaloni sporchi d’urina. Recuperò la sua borsa e si affrettò a salire sul treno. Prese posto in fondo al vagone e finse di dormire. Arrivato al capolinea, continuò a piedi verso la Fordham University. Con quel dollaro avrebbe dovuto pagarsi un taxi. Quando giunse alla sala d’ingresso per i visitatori, scrisse il suo nome sul registro e firmò. Damien Karras. Si fermò a esaminare quello che aveva scritto. C’era qualcosa che non andava. Poi con fatica si ricordò e aggiunse: S.J. Si sistemò in una stanza nella Weiger Hall e, dopo un’ora, riuscì a prender sonno. Il giorno successivo prese parte a una riunione dell’Associazione degli Psichiatri Americani. Invitato come relatore, aveva inviato un articolo intitolato “Aspetti psicologici dello sviluppo spirituale”. Lo stesso giorno, a lavori conclusi, si concesse qualche drink e un boccone con alcuni colleghi. Furono loro a saldare il conto. Li lasciò presto. Doveva andare a trovare la madre. Si diresse verso l’edificio di pietra scura, cupo e fatiscente, nella parte est di Manhattan, all’altezza della ventunesima strada. Fermo sui gradini che conducevano alla porta d’ingresso, rimase a osservare i bambini raggruppati sotto la stretta tettoia. Trasandati. Malvestiti. Senza un posto dove andare a giocare. Si ricordò dello sfratto, delle umiliazioni: tornare a casa con la fidanzatina delle elementari e incontrare sua madre che rovistava speranzosa in un secchio dell’immondizia all’angolo della via. Salì le scale e aprì la porta delicatamente, come fosse una ferita non ancora rimarginata. Odori di cucina, di una dolcezza ormai marcita. Si ricordò delle visite della signora Choirelli e del suo minuscolo appartamento con i diciotto gatti. Tenendosi forte alla ringhiera continuò a salire, sopraffatto all’improvviso da una stanchezza profonda che sapeva causata dal senso di colpa. Non avrebbe mai dovuto lasciarla. Non da sola. La madre lo accolse con gioia. Un grido di felicità, un bacio; poi corse a preparare il caffè. Scura di carnagione, robusta, gambe nodose. Lui sedette in cucina ad ascoltare le sue chiacchiere. La vista di quelle pareti nude, spoglie, e del pavimento lurido lo colpì, penetrando fin dentro le sue ossa. L’appartamento era un tugurio. Case popolari. Ogni mese arrivava qualche dollaro mandato da un fratello. Si sedette anche lei al tavolo. La signora così, lo zio cosà. Aveva ancora un forte accento da immigrata. Lui evitò quegli occhi, dei pozzi di dolore. Occhi che avevano passato giorni interi a guardare fuori dalla finestra. Non avrebbe mai dovuto abbandonarla. Più tardi si occupò di scrivere alcune lettere per suo conto. Lei non era in grado di leggere e di scrivere in inglese. E ancora gli ci volle del tempo per sistemare il sintonizzatore di una vecchia e gracchiante radio di plastica. Il suo mondo. Le notizie del giornale radio. Il sindaco Linsday. Andò in bagno. Sparsa sulle mattonelle c’era della carta di giornale, ormai ingiallita. Grosse chiazze di ruggine sulla vasca e sul lavandino. Buttato sul pavimento un corsetto, malandato. I semi della sua vocazione. Per questo era scappato verso l’amore. E ora l’amore si era raffreddato. Durante la notte, poteva sentirlo fischiare tra le pareti del suo cuore, come un vento perduto che ulula disperato. Alle undici meno un quarto le diede un bacio d’addio, promettendole di tornare appena ne avesse avuto la possibilità. Quando lasciò l’appartamento, la radio era sintonizzata sul notiziario. Una volta rientrato nella sua stanza alla Weigel Hall, pensò di scrivere una lettera al padre provinciale della compagnia dei gesuiti nel Maryland. Gli aveva già scritto una volta riguardo a questo argomento: la richiesta di un trasferimento nel distretto di New York per poter assistere da vicino la madre, la richiesta di un posto di docente e l’esenzione dai suoi doveri religiosi. Su quest’ultimo punto era stato generico, accennando a un’“inidoneità” alle sue funzioni. Il padre provinciale del Maryland aveva poi ripreso in mano la questione in occasione della sua annuale ispezione alla Georgetown University, una visita paragonabile a quella di un ispettore militare che, mentre passa in rassegna il suo esercito, è pronto ad ascoltare e accogliere confidenzialmente tutte le lamentele e le proteste. Per quel che riguardava la madre di Damien Karras, il padre provinciale aveva annuito ed espresso la più viva comprensione, ma la faccenda dell’“inidoneità” non lo convinceva, discordante com’era rispetto allo stato effettivo delle cose. Ma Karras aveva insistito: «Bene, Tom, non si tratta solo di psichiatria, lo sai bene. Alcuni dei loro problemi, in fondo, hanno a che fare con la vocazione, col significato delle loro vite. Che diamine, non sempre sono questioni relative al sesso; è la loro fede, e io non posso intervenire su quella, Tom, non ce la faccio più, è troppo per me. Sto vivendo dei problemi già per conto mio. Voglio dire, dubbi, insicurezze». «Quale uomo coscienzioso non ne avrebbe, Damien?». Pressato da mille appuntamenti, il padre provinciale non aveva insistito per conoscere le motivazioni di quel dubitare. Di questo Karras gli era molto grato. Sapeva bene che le sue parole sarebbero sembrate folli: Il bisogno di strappare il cibo con i denti e poi di defecare. I nove “primi venerdì” di mia madre. I calzini sporchi e puzzolenti. I bambini focomelici. Un trafiletto di giornale su un giovane chierichetto che mentre aspettava l’autobus è stato assalito da sconosciuti, cosparso di cherosene, a cui fu dato fuoco. No. Spiegazioni troppo emotive, troppo vaghe, troppo esistenziali. L’unica motivazione radicata nella logica era il silenzio di Dio. Nel mondo c’era il male. E gran parte del male era causata dal dubbio, dalla sincera confusione che assaliva gli uomini di buona volontà. Un Dio ragionevole si sarebbe rifiutato di porre fine a tutto questo? Avrebbe rifiutato di rivelarsi? Avrebbe taciuto davanti a tutto questo? «Signore, dacci un segno…». Lazzaro che si solleva e cammina era qualcosa di vago, disperso in un lontano passato. La sua risata non era stata udita da nessuno che fosse ancora vivo. Perché nessun segno, perché? Diverse volte il prete aveva desiderato ardentemente di aver vissuto con Cristo, di averlo visto, toccato, di aver sondato i suoi occhi. Ah, mio Dio, concedimi di vederti! Concedimi di conoscerti! Vieni a me in sogno! Il desiderio lo consumava. Prese carta e penna e si sedette alla scrivania. Forse non era stato solo il tempo a far sì che il padre provinciale non insistesse. Forse aveva capito che la fede, in fondo, non è altro che una questione di amore. Il suo superiore promise di prendere in considerazione le sue richieste, ma la cosa non aveva poi avuto seguito. Karras scrisse la lettera e andò a letto. Alle cinque lentamente si alzò e si recò alla cappella del dormitorio, prese un’ostia e tornò in camera sua per dire messa. «Et clamor meus ad te veniat», disse, pregando con un tormentato mormorio, «e lascia che il mio grido giunga fino a te…». Alzò l’ostia per consacrarla, ricordando con dolore quanta gioia quel gesto fosse stato capace di dargli. Come era già successo ogni mattina, ancora una volta percepì il dolore acuto di uno sguardo inatteso, di un amore lontano e ormai perduto. Spezzò l’ostia sopra il calice.
«Vi lascio la pace. Vi do la mia pace…». Prese in bocca l’ostia e inghiottì il sapore di carta della disperazione. Finita la messa, pulì il calice e lo ripose attentamente nella sua borsa. Fece una corsa per raggiungere il treno delle sette e dieci per Washington, portando tutto il peso della sua sofferenza nella valigetta nera.

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