Il neurologo chiamato a consulto prese ancora una volta le radiografie e le osservò alla luce. Cercava dei segni, delle tracce sul cranio, simili alle piccole ammaccature che un martello lascia su una superficie di rame. Il dottor Klein stava in piedi dietro di lui, le braccia conserte. Avevano già analizzato insieme le lastre per verificare la presenza di lesioni o di sacche di liquido, o l’eventuale spostamento della ghiandola pineale. Ora stavano esaminando la possibilità che si trattasse di una conformazione del cranio anomala, quella del tipo Lückenshadl, con significativi avvallamenti ossei che avrebbero indicato una eccessiva pressione intercraniale cronica. Niente, non trovarono niente. Era giovedì, il 28 di aprile. Il neurologo si sfilò lentamente gli occhiali e li ripose con cura nella tasca del camice. «Non c’è niente di niente qui, Sam. Niente che io riesca a vedere». Klein fissò il pavimento, scuro in volto, poi scosse la testa. «Non riesco a capire». «Vuoi provare con un’altra serie di radiografie?». «Penso che non servirebbe. Piuttosto vorrei provare con un esame del liquor». «Mi sembra un’ottima idea». «Intanto, vorrei che visitassi la bambina». «Oggi va bene?». «Oggi, ecco…». Il telefono squillò. «Scusami un istante». Klein sollevò la cornetta. «Pronto?». «La signora MacNeil in linea. Dice che è urgente». «Che linea?». «Sulla dodici». Premette il pulsante. «Sono il dottor Klein, signora MacNeil. C’è qualche problema?». La voce della donna era rotta, sconvolta, isterica. «Dottore, santo cielo, Regan sta male. Potrebbe venire qui da noi?». «Mi dica prima che succede». «Non lo so, dottore, sta male! Non riesco a descriverlo! La prego, venga qui! Adesso!». «Arrivo subito!». Chiuse la conversazione e chiamò la segretaria. «Susan, dica al dottor Dresner di occuparsi lui delle mie visite». Mise giù la cornetta e cominciò a togliersi il camice. «Era la madre, la bambina sta male. Vieni con me? Dobbiamo solo attraversare il ponte». «Ho un’ora soltanto». «Bene, andiamo». Arrivarono alla villetta in meno di dieci minuti e sulla porta, dove Sharon venne ad accoglierli, sentirono i lamenti e le grida che venivano dalla camera di Regan. «Sono Sharon Spencer», disse la ragazza. Sembrava spaventata. «Venite, Regan è di sopra». Li accompagnò alla stanza di Regan, aprì la porta e, rivolta verso l’interno, disse: «Ci sono i dottori, Chris». Chris si precipitò alla porta, il viso segnato da una smorfia di paura. «Oh, santo cielo, venite dentro», li pregò con voce tremante, «venite dentro e guardate che cosa sta facendo!». «Questo è il dottor…». Klein interruppe le presentazioni non appena posò lo sguardo su Regan. Gridava come un’ossessa, agitava le braccia convulsamente e il suo corpo sembrava sollevarsi da solo, in posizione orizzontale, al di sopra del letto per poi ricadere violentemente sul materasso. Tutto avveniva rapidamente e senza sosta. «Oh mamma, fallo smettere!», continuava a gridare la bambina. «Fermalo! Vuole uccidermi, fermalo! Fallo smeeetteeere, mammaaaaaaaa!». «Oh, la mia bambina!», disse Chris in un lamento, mentre si portava un pugno alla bocca e prendeva a morderlo. Con occhi imploranti guardò Klein. «Dottore, che c’è? Che sta succedendo?». Klein scosse la testa, lo sguardo fisso su Regan mentre quello strano fenomeno continuava. Si sollevava di circa trenta centimetri a ogni spasmo, poi ricadeva annaspando per prendere ossigeno, come fosse scossa, alzata e gettata di nuovo sul letto da mani invisibili. Chris si coprì gli occhi con la mano tremante. «Gesù, oh Cristo santo». La voce era rotta, spezzata dal panico. «Dottore, che cos’ha?». Improvvisamente il movimento sussoltorio del corpo cessò, e la bambina cominciò a contorcersi, si girava e rigirava da una parte all’altra del letto, gli occhi rovesciati così che si vedeva solo il bianco. «Mamma, mi sta bruciando… Lui mi brucia!», si lamentò Regan gridando. «Brucio, mamma, brucio!». Le sue gambe cominciarono a incrociarsi e disincrociarsi a ritmo sempre più frequente. I dottori si avvicinarono alla bambina, prendendo posizione ai due lati del letto. Il corpo era ancora in preda a scatti e spasmi frenetici. Regan gettò la testa all’indietro, scoprendo il collo gonfio e teso, poi iniziò a mormorare qualcosa di incomprensibile in uno strano tono gutturale. «…onussenonos… onussenonos…». Il dottor Klein si chinò su di lei per sentirle il polso. «Allora, piccola, adesso vediamo cosa ti fa male», disse con gentilezza. Ma un istante dopo Klein indietreggiava, barcollava sconvolto all’altro capo della stanza, colpito con una forza inimmaginabile dal braccio di Regan. La bambina si mise a sedere, una smorfia di rabbia selvaggia le segnava il viso. «La troietta è mia adesso!», disse con un grido animalesco, la voce cupa e potente. «È mia! State alla larga! È mia!». Una risata disumana le sgorgò dalla gola, poi la bambina ricadde sulla schiena come se l’avesse spinta qualcuno. Si sollevò la camicia da notte, scoprendo i genitali. «Scopami! Scopami!», gridò rivolta ai medici, poi cominciò a masturbarsi spasmodicamente con entrambe le mani. Dopo qualche istante Chris fuggì via dalla stanza con la voce rotta dal pianto vedendo Regan infilarsi un dito nella bocca e leccarlo. Quando Klein si avvicinò alla sponda del letto, Regan sembrò abbracciarsi e prese ad accarezzarsi le braccia con le mani. «Oh, sì, la mia perla…», canticchiò la bambina con quella voce incredibilmente aspra. Aveva gli occhi chiusi, come fosse in uno stato di estasi. «La mia piccolina… il mio fiorellino… la mia perlina». Poi prese ancora a contorcersi, a rigirarsi; continuava a mormorare monosillabi privi di senso, senza posa. D’improvviso si tirò su e si mise a sedere, fissando l’aria davanti a sé con gli occhi sbarrati, disperati, colmi di terrore. Si mise a miagolare come un gatto. Poi iniziò ad abbaiare. Infine nitrì. E ancora, incurvandosi dalla vita in su, cominciò a descrivere con il busto dei cerchi. I movimenti erano rapidi, sempre più energici. Annaspava per prendere ossigeno. «Fermatelo!», disse piangendo, «Vi prego, fatelo smettere! Mi fa male! Fermatelo! Non riesco a respirare!». Klein aveva ormai visto abbastanza. Prese la sua borsa e si avvicinò alla finestra, poi velocemente cominciò a preparare un’iniezione. Il neurologo rimase invece accanto al letto e vide Regan cadere violentemente all’indietro, come se qualcosa l’avesse spinta. Ancora una volta gli occhi le si rovesciarono nelle orbite, ricominciò poi a rigirarsi da una parte all’altra, lamentandosi a denti stretti con rapidi suoni gutturali. Il neurologo si fece più vicino per cercare di capire, di dare un senso a quelle parole. Poi, a un cenno del collega, lo raggiunse vicino alla finestra. «Le darò del Librium», lo informò Klein a bassa voce, tenendo la siringa contro la luce della finestra. «Ma credo che ti toccherà tenerla ferma». Il neurologo assentì col capo. Appariva preoccupato. Inclinò leggermente la testa in direzione del letto, cercando di ascoltare il mugolare della bambina. «Cosa sta dicendo?», chiese Klein in un sussurro. «Non lo so. È incomprensibile, solo suoni senza senso». Ma la sua stessa spiegazione sembrava non soddisfarlo. «Pronuncia queste sillabe come se significassero qualcosa, però; c’è una certa cadenza». Klein fece un cenno col capo verso il letto, poi si avvicinarono lentamente alle due sponde. Quando le furono accanto, il corpo della bambina si irrigidì, come se i muscoli si fossero improvvisamente contratti. Gli sguardi dei due medici si incontrarono, poi si spostarono di nuovo su Regan che aveva ora assunto una posizione innaturale, arcuando la schiena fino a far toccare la fronte e i talloni. La bambina urlava per il dolore. I due medici si guardarono ancora con espressione interrogativa, poi Klein diede un segnale al suo collega. Ma prima che riuscissero a trattenerla, Regan cadde svenuta, si accasciò e bagnò il letto. Klein si allungò sul corpo disteso e sollevò una palpebra, poi passò a controllarle il battito cardiaco. «Rimarrà in questo stato per un po’», mormorò. «Credo che sia stata una crisi convulsiva. Che ne pensi?». «Sì, lo credo anch’io». «Bene, adesso prendiamo qualche precauzione», aggiunse Klein; poi procedette con l’iniezione. «Allora, dimmi il tuo parere», chiese Klein al collega mentre con una garza sterile disinfettava la piccola ferita lasciata dall’ago. «Lobo temporale, di sicuro. Potrebbe trattarsi di schizofrenia, Sam, è possibile; ma l’insorgenza del disturbo mi sembra troppo rapida. La bambina non ha precedenti simili, vero?». «Non li ha, no». «Nevrastenia?». Klein fece segno di no col capo. «Allora potrebbe essere isteria», ipotizzò infine il neurologo. «Avevo pensato la stessa cosa». «Certamente. Ma dovrebbe essere un fenomeno della natura per fare quel movimento volontariamente, per contorcersi come ha fatto poco fa, non credi?». Si fermò un istante e scosse la testa. «No, penso ci sia un’origine patologica, Sam… quella forza, gli stati di paranoia, le allucinazioni. D’accordo, questi sono sintomi riconducibili alla schizofrenia. Ma una lesione del lobo temporale giustificherebbe anche le convulsioni. Però c’è ancora una cosa che non mi quadra…». S’interruppe e aggrottò le sopracciglia perplesso. «Di che si tratta?». «Sai, non ne sono del tutto certo, ma credo di aver colto segni di una dissociazione: “la mia perla”… “la mia piccolina” … “il mio fiorellino”… “la troietta”. Ho avuto la sensazione che parlasse di sé in terza persona. È sembrato anche a te o sono io che ci sto ricamando sopra?». Klein si accarezzò le labbra, soppesando la domanda. «Ecco, in tutta franchezza, non lo avevo notato, ma ora che me lo dici…», disse a denti stretti, pensieroso. «Non è escluso. Sì, insomma, credo che potrebbe essere così». Con un’alzata di spalle accantonò la questione. «Senti, io le faccio un esame del liquor immediatamente, meglio ora che è incosciente. Poi sapremo di certo qualcosa in più». Il neurologo annuì. Klein cercò nella sua borsa, tirò fuori una pillola e la mise in tasca. «Puoi trattenerti?». Il neurologo guardò l’orologio. «Posso restare un’altra mezzora». «Andiamo a parlare con la madre». Lasciarono la stanza e uscirono sul corridoio. Chris e Sharon erano appoggiate alla balaustra delle scale, entrambe a capo chino. Quando i due medici si avvicinarono, Chris si soffiò il naso con un fazzoletto già bagnato di lacrime. Gli occhi erano arrossati dal pianto. «Adesso sta dormendo», le disse Klein. «Grazie al cielo», singhiozzò Chris. «Le abbiamo dato dei forti tranquillanti. Molto probabilmente non si sveglierà fino a domattina». «Meglio così», disse Chris ormai senza più energie. «Dottore, le chiedo scusa per questo atteggiamento infantile». «Non si preoccupi, va bene così», la rassicurò il medico. «È un’esperienza spaventosa. Dimenticavo, questo è il dottor David». «Salve», disse Chris con un sorriso forzato. «Il dottor David è un neurologo». «Ditemi cosa ne pensate, per favore», disse Chris rivolgendosi a entrambi. «Ecco, siamo ancora convinti che si tratti del lobo temporale», rispose Klein, «e inoltre…». «Cristo santo, ma di che diavolo state parlando?», sbottò Chris, «Si sta comportando da pazza scatenata, si trasforma, cambia personalità! E voi volete dirmi…». Si fermò all’improvviso, cercando di controllarsi. Poi abbassò il capo e poggiò la fronte sulla mano. «Sono troppo sconvolta», disse infine con un filo di voce. «Scusatemi». Con uno sguardo esausto si rivolse a Klein. «Vi ho interrotto. Cosa stava dicendo?». Fu il dottor David a rispondere. «I casi confermati di personalità dissociata, a oggi, non superano il centinaio, signora MacNeil. È una patologia molto rara. Ora, io capisco che la prima tentazione è quella di rivolgersi alla psichiatria, ma in ogni caso qualunque psichiatra responsabile esaminerebbe in primo luogo le condizioni somatiche. È la prassi più sicura». «Capisco. Allora, che si fa adesso?», chiese Chris con un filo di voce. «Faremo una puntura lombare», proseguì David. «Nella spina dorsale?». Il medico annuì. «Quello che ci è sfuggito negli esami radiologici e nell’elettroencefalogramma potrebbe venire fuori da qui. O perlomeno ci permetterà di escludere altre possibilità. Preferirei praticarla qui, adesso, mentre la bambina è addormentata. Le farò un’anestesia locale, chiaramente, ma solo per evitare qualunque movimento». «Come potrebbe muoversi o saltar giù dal letto nelle condizioni in cui si trova?», chiese Chris, il volto sconvolto dall’angoscia. «Ecco, mi pare che ne abbiamo già parlato», intervenne Klein. «In simili stati patologici possono manifestarsi una forza fisica eccezionale e un’accelerazione delle capacità motorie». «Ma non siete in grado di dirmi il perché», disse Chris. «Sembra che abbia a che fare con un problema motivazionale», commentò David. «Ma è tutto quello che sappiamo». «Purtroppo è così. Ora pensiamo alla spinale. Abbiamo il suo consenso?», chiese Klein a Chris. La donna tirò un lungo sospiro per scacciare la tensione. Il suo sguardo era ancora fisso sul pavimento. «Andate avanti», mormorò. «Fate tutto quello che dovete, purché stia meglio». «Ci proveremo», disse Klein. «Posso usare il telefono?». «Certamente, fate pure. È nello studio». «Oh, dimenticavo», aggiunse Klein quando Chris si voltò per accompagnarli. «Bisogna cambiare le lenzuola». «Me ne occupo io», intervenne Sharon, e subito si diresse verso la stanza di Regan. «Posso offrirvi una tazza di caffè?», domandò Chris quando furono al piano di sotto. «Purtroppo ho dato il pomeriggio libero ai domestici, dovrete accontentarvi di un caffè istantaneo». I medici declinarono gentilmente l’invito. «Ho visto che non avete ancora sistemato la finestra», fece notare Klein. «No, abbiamo chiamato il fabbro», rispose Chris. «Dovrebbero essere qui domani, monteranno dei battenti con una chiusura di sicurezza». Il medico annuì. I tre entrarono nello studio e Klein contattò il suo ufficio. Descrisse il caso al suo assistente e gli chiese di recapitare strumenti e farmaci direttamente alla villa. «Prepara anche il laboratorio, dobbiamo analizzare i risultati di una spinale», lo istruì Klein. «Ci penserò io stesso appena avrò prelevato il campione». Quando ebbe finito la telefonata, si rivolse a Chris per sapere che sviluppi c’erano stati dall’ultima volta che aveva visitato la bambina. «Ecco, martedì», Chris cercò di ricordare, «non è successo nulla di insolito. È andata subito in camera sua e ha dormito fino a tardi il giorno dopo, poi…». «Oh, no, aspettate», si corresse. «Non è andata così, dimenticavo. Willie ha detto di averla sentita trafficare qui in cucina molto presto quella mattina. Ricordo di essermi sentita sollevata perché aveva ritrovato un po’ di appetito. Ma poi è tornata subito a letto, almeno credo, perché è rimasta nella sua stanza tutto il giorno seguente». «E stava dormendo?», le chiese Klein. «No, credo che si sia messa a leggere», rispose Chris. «Io iniziavo a tranquillizzarmi, insomma, sembrava che il Librium fosse proprio quello di cui aveva bisogno. Ho notato che era un po’ assente e questo mi dava qualche preoccupazione, ma comunque era già un grosso passo avanti. Ad ogni modo, la notte scorsa ancora nulla», continuò Chris. «Poi questa mattina è cominciato tutto». Tirò un respiro profondo. «Dio solo sa se è cominciato!», disse ancora scuotendo la testa. Era seduta in cucina, raccontò Chris ai due medici, quando Regan era arrivata di corsa dal piano di sopra, gridando, aveva raggiunto la madre ed era andata a nascodersi dietro la sua sedia. Poi aveva afferrato le braccia di Chris spiegando con voce terrorizzata che il capitano Howdy la stava inseguendo, pizzicando, picchiando, che le gridava un sacco di parolacce, che stava cercando di ucciderla. «Eccolo, è lì!», aveva gridato alla fine indicando la porta della stanza. Dopo si era accasciata al suolo, il corpo percorso da spasmi convulsi, mentre gridava tra le lacrime che Howdy la stava prendendo a calci. Infine, all’improvviso, continuò a raccontare Chris, Regan si era alzata e in piedi al centro della cucina con le braccia tese e rigide aveva cominciato a girare su se stessa, rapida, «come una trottola». Aveva continuato a muoversi così per diversi minuti, fino a quando, esausta e senza più forze, era crollata sul pavimento. «E allora, tutto a un tratto», concluse Chris ormai disperata, «ho visto nei suoi occhi… l’odio, odio puro, e mi ha detto…». La voce era soffocata, rotta. «Mi ha chiamato… Oh, santo cielo!». Scoppiò in un singhiozzare convulso, poi con una mano si coprì gli occhi colmi di lacrime. Klein raggiunse lentamente il mobile bar, versò dell’acqua in un bicchiere, poi tornò da lei. «Merda, datemi una sigaretta», sospirò Chris, le mani ancora tremanti mentre con le dita cercava di asciugarsi gli occhi. Klein le porse il bicchiere e una piccola pillola verde. «Intanto prenda questo», le ordinò. «È un tranquillante?». «Sì». «Ne prendo due». «Uno basterà». «Che spilorcio!», mormorò Chris accennando un sorriso. Buttò giù la pillola e restituì il bicchiere vuoto al medico. «La ringrazio», disse piano, sfiorandosi la fronte con le dita ancora tremanti per la tensione. Con un movimento leggero scosse la testa. «Oh, se è cominciata», proseguì con amarezza, «tutta questa roba. Era come se ci fosse qualcun altro dentro di lei». «Forse il capitano Howdy?», chiese David. Chris sollevò lo sguardo, fissando il medico con sconcerto. Lui la guardava con dolcezza. «Cosa intende dire?», gli chiese. «Non saprei, era solo una domanda», rispose lui stringendosi nelle spalle. Lo sguardo lontano e tormentato della donna si spostò sul caminetto spento. «Non lo so», disse in tono opaco. «So soltanto che era qualcun altro». Per un istante nessuno disse nulla. Poi il dottor David si alzò, spiegando che non poteva trattenersi, che aveva altri appuntamenti. Cercò delle parole che potessero rassicurare Chris, infine si congedò. Klein lo accompagnò alla porta. «Mi raccomando, controlla la glicemia», gli disse David. «No, sono l’ultimo arrivato…». David abbozzò un sorriso. «Scusami, sono sconvolto anch’io», disse. Fissava un punto lontano, assorto nei suoi pensieri. «Un caso davvero strano». Si accarezzò il mento per un istante, preoccupato. Poi guardò Klein. «Fammi sapere se ci sono novità». «Ti trovo a casa?». «Sì, dovrei essere a casa. Chiamami». Salutò con un cenno della mano e andò via. Poco più tardi, dopo che tutto il necessario gli fu recapitato, Klein praticò a Regan un’anestesia locale dell’area spinale con la Novocaina. Sotto lo sguardo vigile di Chris e Sharon, prelevò un campione di liquido spinale, senza perdere mai di vista il manometro. «La pressione è regolare», disse fra sé. Quando finì, andò alla finestra per controllare in controluce se il liquido fosse limpido o presentasse delle impurità. Era limpido. Sistemò con cura il campione in una tasca della borsa. «Non credo che lo farà», disse Klein alle due donne, «ma se dovesse svegliarsi nel cuore della notte e dare di nuovo in escandescenze, sarebbe meglio ci fosse un’infermiera con lei per darle dei sedativi». «Non posso farlo io?», chiese Chris, visibilmente preoccupata. «Meglio un’infermiera». Non voleva parlare al medico della sua profonda sfiducia nei confronti di dottori e infermiere. «Ci penserò da sola», aggiunse poi con semplicità. «Ci sono dei problemi?». «Be’, si tratta di iniezioni piuttosto delicate», rispose il medico, «una bolla d’aria può essere molto pericolosa». «So io come farle», intervenne Sharon. «Mia madre lavora in una casa di cura in Oregon». «Oh, Sharon, potresti farlo tu? Resterai qui stanotte?», le chiese Chris. «Non è solo per stanotte», intervenne Klein. «Potrebbe esserci bisogno di nutrirla con una flebo, dipende da come si evolve la situazione». «Potrebbe farmi vedere come si fa?», gli chiese Chris ansiosa. Il medico annuì. «Certo, credo di sì». Prescrisse della Torazina liquida e aggiunse una confezione di siringhe. Consegnò la ricetta a Chris. «Meglio procurarsi queste cose subito». Chris passò il foglio a Sharon. «Cara, pensaci tu per favore. Chiama al telefono e ci porteranno tutto direttamente qui. Vorrei andare col dottore nel suo studio e aspettare i risultati degli esami… Non è un problema, vero, dottor Klein?», chiese. Il medico non poté non notare i segni della fatica nei suoi occhi, la sua angoscia, la sua disperazione. Annuì. «Penso di capire come si sente», le disse con un sorriso di comprensione. «Mi sento così anch’io quando parlo col meccanico della mia macchina». Lasciarono la casa esattamente alle 6 e 18 del pomeriggio. Nel suo laboratorio al Rosslyn Center Klein approntò diversi esami. Per prima cosa controllò i valori delle proteine. Nella norma. Poi passò a un conteggio dei globuli rossi. «Un eccesso di globuli rossi», spiego Klein, «indica un’emorragia in corso. Un eccesso di bianchi indica invece un’infezione». Nello specifico, Klein cercava i segni di un’infezione micotica che molto spesso, in casi affini, era stata indicata come causa di comportamenti anomali cronici. Ma ancora una volta i risultati furono negativi. Per ultimo, Klein esaminò il tasso glicemico presente nel campione. «Perché questo esame?», chiese Chris, sempre attenta. «Ecco, vede, il liquido spinale», le disse il medico, «dovrebbe presentare un valore glicemico pari ai due terzi di quello del sangue. Una significativa discrepanza in questa proporzione sarebbe un segnale preciso di un’infezione in cui i batteri consumano gli zuccheri del liquido spinale. E se dovessimo rilevare questa anomalia, ciò potrebbe spiegare i sintomi di Regan». Ma non fu riscontrato niente di anomalo. Chris scosse la testa, poi incrociò le braccia. «Siamo allo stesso punto di prima, accidenti», mormorò sconfortata. Klein si fermò a riflettere un istante, silenzioso. Poi si girò verso di lei e la guardò serio. «In casa ci sono delle droghe?», le chiese. «Come?». «Anfetamine, LSD, pastiglie come queste?». «Cavolo, no dottore! Glielo dico chiaramente: in casa mia non c’è nulla di simile». Il medico annuì, poi si fissò le scarpe. «Bene, allora, signora MacNeil, credo sia giunto il momento di parlare con uno psichiatra». Chris arrivò a casa alle 7 e 21 precise. Ancora sulla soglia, chiamò: «Sharon? Ci sei?». Nessuna risposta. Salì immediatamente nella stanza di Regan. Dormiva ancora profondamente. La coperta era perfetta, liscia. Chris notò subito che la finestra era spalancata. Un odore acre di urina. Sicuramente Sharon l’ha lasciata aperta per far cambiare l’aria, pensò. Chiuse i battenti. Ma dove sarà andata? Tornò al piano di sotto proprio mentre Willie entrava in casa. «Salve, Willie. Vi siete divertiti oggi?». «Un po’ di compere e un film». «E Karl? Dov’è?». Willie rispose con un gesto di stizza, come a voler cambiare argomento. «Stavolta mi ha lasciato vedere i Beatles. Da sola». «Ottimo». Willie alzò la mano, indice e medio a disegnare una V. Erano le 7 e 35. Alle 8 e 01, mentre Chris nello studio discuteva al telefono con il suo agente, Sharon arrivò con diversi pacchetti, si abbandonò su una poltrona e aspettò che la conversazione finisse. «Dove sei stata?», chiese Chris appena posò la cornetta. «Oh, non ti ha detto nulla?». «Oh, chi mi avrebbe dovuto dire cosa?». «Burke. Non è qui? Dov’è andato?». «È stato qui?». «Aspetta, vuoi dire che non lo hai trovato in casa quando sei tornata?». «Senti, ricominciamo dall’inizio», disse Chris. «Oh, quello è matto», disse Sharon scuotendo la testa. «Non ci potevano recapitare le medicine a casa, così quando Burke è passato di qua ho pensato: bene, starà lui con Regan mentre io vado a comprare la Torazina». Si strinse nelle spalle. «Avrei dovuto immaginarlo, non ci si può fidare di lui». «Sì, avresti dovuto. Allora, cos’hai comprato?». «Ecco, siccome credevo di avere tempo a sufficienza, ho comprato un coprimaterasso di gomma per il letto di Regan», concluse mostrandoglielo. «Hai mangiato qualcosa?». «No, pensavo di prepararmi un sandwich; ne faccio uno anche per te?». «Buona idea, andiamo a mangiare qualcosa». «Come sono andati gli esami?», chiese Sharon mentre attraversavano lentamente il corridoio dirette in cucina. «Nessuna novità, tutti i risultati sono negativi. Dovrò portarla da uno strizzacervelli», rispose Chris con voce spenta. Dopo i panini e il caffè, Sharon mostrò a Chris come praticare un’iniezione. «Le due cose più importanti», le spiegò, «sono accertarsi che non ci siano bolle d’aria nello stantuffo della siringa e poi assicurarsi di non aver preso una vena. Così, aspiri un po’ di liquido e controlli se c’è del sangue nella siringa». Per qualche minuto Chris si esercitò su un pompelmo, e sembrava aver ormai imparato bene la procedura. Poi, alle 9 e 28, si sentì suonare il campanello all’ingresso. Willie andò ad aprire. Era Karl. Quando, andando verso la sua stanza, passò in cucina, l’uomo salutò con un cenno del capo e disse di aver dimenticato le chiavi. «Non riesco a crederci», disse Chris a Sharon, «è la prima volta che lo sento ammettere di aver sbagliato qualcosa». Trascorsero la serata nello studio, davanti alla televisione. Alle 11 e 46 Chris rispose al telefono. Era l’aiuto regista, il giovanotto della seconda troupe. Aveva un tono molto serio. «Hai già avuto la notizia, Chris?». «No, di cosa parli?». «È davvero una brutta notizia». «Cosa è successo?», chiese Chris. «Burke è morto». Era ubriaco. Era inciampato. Era precipitato giù dalla scalinata di pietra proprio accanto alla casa, dalla cima fino all’ultimo gradino. Era stato un pedone della M Street a notarlo mentre scivolava in un buio senza fine. Si era rotto l’osso del collo. La sua ultima scena. Sangue e orrore. La cornetta le cadde dalle mani. Chris piangeva in silenzio, le gambe le cedettero. Sharon si avvicinò rapida per sorreggerla, la aiutò a metter giù il telefono e a distendersi sul divano. «Burke è morto!», disse Chris tra i singhiozzi. «Oh santo cielo!», commentò Sharon senza fiato. «Come è successo?». Ma Chris non era ancora in grado di risponderle, continuava a piangere. Poi, più tardi, parlarono per ore. Parole e ancora parole. Chris bevve parecchio quella sera. Si lasciò andare ai ricordi. Prima rideva, un attimo dopo scoppiava in lacrime. «Oh, mio Dio», continuava a dire singhiozzando, «il povero Burke, il mio Burke!». Il suo sogno di morte tornò di nuovo a tormentarla. Poco dopo le cinque del mattino, Chris era ancora seduta dietro il mobile bar, sfinita, i gomiti sul tavolo e la testa tra le mani, lo sguardo colmo di sofferenza. Aspettava che Sharon tornasse dalla cucina con i cubetti di ghiaccio. Sentì i suoi passi nel corridoio. «Ancora non riesco a crederci», disse Sharon in un sospiro entrando nella stanza. Chris alzò lo sguardo verso di lei e si sentì raggelare. Camminava a quattro zampe, come un ragno, rapidissima, il corpo arcuato quasi a formare una circonferenza, i talloni a toccare la testa. Era Regan, giusto alle spalle di Sharon; la lingua le saettava dalle labbra, dentro e fuori, mentre la bocca emetteva un sibilo simile a quello di un serpente. «Sharon?», disse Chris con freddezza, gli occhi ancora fissi su Regan Sharon si fermò. Regan fece lo stesso. Quando Sharon fece per voltarsi, non vide nulla. Poi cominciò a urlare sentendo la lingua della bambina serpeggiare sulla caviglia. Chris impallidì violentemente. «Chiama il dottore, buttalo giù dal letto, ma portalo qui! Subito!». Ovunque Sharon andasse, Regan la seguiva.
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L'Esorcista
HorreurTutti i diritti sono esclusivamente riservati all'autore (William Peter Blatty) di quest'opera. Cosa accade alla piccola Regan? Cosa c'è che non va? Sua madre non riesce a spiegarsi il suo comportamento e i medici non trovano problemi nella sua test...