Aspettava, nervosa, tesa, in piedi sul marciapiede del ponte, le braccia poggiate al parapetto, mentre dietro di lei il traffico intenso del pomeriggio procedeva a singhiozzo. Le automobili erano per lo più dirette verso casa e i conducenti, già carichi delle loro preoccupazioni quotidiane, ora pestavano sul clacson, si spostavano da una corsia all’altra, si scontravano con graffiante indifferenza. Chris era riuscita a contattare Mary Jo, e le aveva mentito. «Regan sta meglio. A proposito, pensavo di organizzare un altro piccolo ricevimento, magari una cena. Come si chiama quel gesuita, lo psichiatra, di cui mi ha parlato? Mi farebbe piacere invitare anche lui…». Dal fiume sotto di lei salivano risate leggere: una giovane coppia in blue jeans che parlottava su una canoa affittata per qualche ora. Con uno scatto nervoso Chris scosse la cenere dalla sigaretta. Guardò in direzione del centro, osservando il marciapiede del ponte. Qualcuno si avvicinava a passo veloce, pantaloni cachi e un maglione blu: di certo non un prete, non poteva essere lui. Volse lo sguardo nuovamente al fiume, alla sua disperazione che galleggiava sulla scia lasciata dalla canoa rossa. Poteva scorgere il nome dipinto sul fianco della piccola imbarcazione: Capriccio. Rumore di passi. L’uomo col maglione blu si faceva sempre più vicino, rallentando nel raggiungerla. Con la coda dell’occhio lo vide poggiare una mano sul parapetto e rapidamente si voltò dall’altra parte, guardando in direzione della lontana Virginia. «Continua per la tua strada, rompipalle», indirizzò Chris allo sconosciuto, in tono aspro, mentre con un gesto della mano lanciava la sigaretta nel fiume. «Se non te ne vai, giuro su Dio che grido e chiamo gli sbirri». «Signora MacNeil? Sono padre Karras». Chris ebbe un sussulto, diventò rossa in volto, poi si girò veloce verso l’uomo, verso quel volto così segnato, quei lineamenti così duri. «Oh, mio Dio, le chiedo scusa, sono…». Ancora turbata, fece per togliersi gli occhiali da sole, ma quando incontrò gli occhi tristi e scuri del prete se li rimise. «Avrei dovuto dirle che non avrei indossato la tonaca. È colpa mia». La sua voce era carezzevole, rassicurante, e lei sentì le sue pene farsi più leggere quando vide le mani forti del sacerdote allacciarsi delicatamente tra loro. Erano mani grandi, larghe, eppure delicate. Le vene in evidenza come nelle statue di Michelangelo. Lo sguardo di Chris ne fu in qualche modo attratto, inesorabilmente. «Ho pensato che avrei dato meno nell’occhio», continuò Karras. «Mi è sembrata così preoccupata che la cosa passasse sotto silenzio». «Già, ma credo che avrei dovuto preoccuparmi di più di non fare una figuraccia», replicò la donna, mentre con una mano cercava nervosamente qualcosa nella borsa. «Ecco, pensavo che lei fosse…». «Un essere umano?», intervenne lui con sorriso. «Questo lo sapevo già da quando l’ho vista un giorno al campus», rispose Chris. Adesso cercava nelle tasche della giacca. «Per questo l’ho chiamata. Lei sembra davvero umano». Sollevò lo sguardo e si accorse che Karras le stava fissando le mani. «Ha una sigaretta, padre?». Karras cercò nel taschino della camicia, sotto il maglione. «Vanno bene anche senza filtro?». «Sarei capace di fumare anche un pezzo di corda, in questo momento». Lui sfilò dal pacchetto una Camel. «Io lo faccio spesso, vista l’entità delle mie finanze». «Il voto di povertà», mormorò Chris prendendo la sigaretta, un sorriso leggero a incresparle le labbra. «Il voto di povertà ha i suoi vantaggi», replicò Karras mentre cercava i fiammiferi nella tasca dei pantaloni. «Quali, per esempio?». «Fa sembrare saporita anche la corda». Ancora un mezzo sorriso, mentre lui osservava la mano di Chris che teneva la sigaretta. Tremava. Karras vide che la sigaretta oscillava tra le dita. Scosse rapide, frenetiche, continue. Karras le prese la sigaretta e se la portò alla bocca. L’accese, proteggendo la debole fiamma del fiammifero con una mano. Soffiò via la prima boccata di fumo, poi le restituì la sigaretta. I suoi occhi guardavano le auto scivolare via veloci sul ponte. «Così è più facile. Le macchine spostano troppa aria», le disse. «La ringrazio, padre». Lo sguardo di Chris rivelava quanto avesse apprezzato quel gesto. Era pieno di gratitudine, e di speranza. Aveva capito quanto era stata importante quella sua accortezza. L’osservò mentre accendeva una sigaretta per sé. Si dimenticò di proteggere la fiamma con la mano. Mentre Karras soffiava fuori il fumo, quasi allo stesso tempo i due poggiarono i gomiti sul parapetto. «Di dove è originario, padre Karras?». «New York». «Anch’io. Sebbene non ci tornerei mai. E lei?». Karras buttò giù qualcosa che sembrava esserglisi bloccato in gola. «No, nemmeno io». Si sforzò di sorridere. «Ma a me non toccano decisioni di questo tipo». «Dio, quanto sono stupida. Lei è un prete. Deve andare dove la mandano». «Esatto, è così». «Come succede che uno strizzacervelli decide di farsi prete?», chiese Chris. Karras era ansioso di conoscere quale fosse il problema urgente di cui gli aveva parlato al telefono. Intuì che lei stava cercando il modo più semplice per arrivarci… arrivare a cosa? Non doveva farle pressioni. Sarebbero arrivati al dunque… ci sarebbero arrivati. «Bisogna capovolgere l’equazione», la corresse lui. «La Compagnia di Gesù…». «Cosa?». «La Compagnia di Gesù. Si chiama così il nostro ordine: gesuiti è un’abbreviazione». «Ah, capisco». «È stata la Compagnia a mandarmi a studiare medicina e poi a specializzarmi in psichiatria». «In quali università?». «Oh, vediamo… Harvard, John Hopkins, Bellevue». Si rese improvvisamente conto che desiderava far impressione su quella donna. Perché?, si chiese, e subito dopo lesse la risposta nelle periferie e nei ghetti della sua infanzia, nei posti in piccionaia nei teatri del Lower East Side. Eccolo qui, il piccolo Dimmy con la stella del cinema. «Niente male, complimenti», disse lei con ammirazione, annuendo. «Non facciamo voto di povertà intellettuale». Chris percepì del fastidio nella sua risposta. Si strinse nelle spalle, poi lentamente si voltò verso il fiume che scorreva sotto i loro piedi. «Io non la conosco, capisce, tutto qua…». Tirò una lunga boccata dalla sigaretta, aspirando avidamente, poi buttò fuori il fumo. Spense la sigaretta sul bordo del parapetto. «Lei è un amico di padre Dyer, giusto?». «Sì, siamo amici». «Amici intimi?». «Intimi». «Le ha raccontato qualcosa del ricevimento?». «La cena a casa sua?». «Sì, a casa mia». «Sì, ha detto che lei sembra una persona molto umana». Chris non colse, o forse ignorò di proposito la replica di Karras. «Le ha parlato di mia figlia?». «No, non sapevo che avesse una figlia». «Sì, di dodici anni. Non le ha detto nulla?». «No». «Non le ha raccontato quello che ha fatto?». «Non l’ha mai nominata». «I preti sanno tenere la bocca chiusa, a quanto pare. Giusto?». «Dipende», rispose Karras. «Da cosa?». «Dal prete». Al limite della sua coscienza Karras sentì affiorare un preciso avvertimento: ci sono donne che nutrono un patologico interesse per i preti, e questo inconscio desiderio di ottenere l’irraggiungibile viene spesso schermato attraverso altri problemi. «Vede, mi riferivo alla confessione. Non vi è permesso parlare di quello che succede nel confessionale, o sbaglio?». «Sì, è così, non sbaglia». «E di quello che succede fuori dal confessionale?», gli chiese. «Voglio dire, che accadrebbe se…». Le mani ripresero a tremarle, scosse dalla tensione. «Sono curiosa, anzi, no, è proprio quello che vorrei sapere. Insomma, che succede se una persona, diciamo un criminale, un assassino o che so io… capisce, che succede se viene in cerca del suo aiuto? Lei dovrebbe denunciarlo alla polizia?». Stava cercando informazioni sulla religione? Forse voleva far luce su alcuni dubbi prima di convertirsi? C’erano persone, e Karras lo sapeva bene, che si avvicinavano alla salvezza dell’anima come se affrontassero un ponte pericolante lanciato sopra un abisso. «Se è venuta da me per avere conforto spirituale, no, non lo farei», replicò il gesuita. «Non lo farebbe». «No, sicuramente non lo farei. Ma cercherei di convincerlo ad andare a costituirsi». «E come si comporta quando deve praticare un esorcismo?». «Mi perdoni, cosa ha detto?». «Se una persona è posseduta da uno spirito demoniaco, cosa si fa per praticare un esorcismo?». «Allora, per prima cosa bisogna mettere la persona dentro una macchina del tempo e rispedirla nel XVI secolo». Chris lo guardò sconcertata. «Cosa vuole dire? Non la seguo». «Semplicemente che non se ne praticano più, signora MacNeil». «Da quando?». «Da quando abbiamo capito cosa sono le malattie mentali, da quando conosciamo la paranoia, le personalità multiple, e tutte quelle altre cose che mi hanno insegnato ad Harvard». «Mi sta prendendo in giro?». Nella sua voce vibrava la disperazione, la confusione. Karras si pentì di esser stato troppo brusco. Perché aveva usato quel tono?, si chiese. Quella risposta secca gli era venuta alle labbra senza che lo volesse davvero. «Signora MacNeil, anche molti dei cattolici più ortodossi», le spiegò Karras, stavolta con tono gentile, «ormai non credono più all’esistenza del diavolo, e di conseguenza nemmeno alla possessione da parte del demonio. Da quando sono entrato a far parte dei gesuiti, non ho incontrato un solo prete che abbia praticato, anche solo una volta nella vita, un esorcismo. Non uno, glielo assicuro». «Lei è davvero un prete», chiese Chris in un tono aspro e tagliente, «oppure la mandano dall’ufficio collocamento per comparse? Insomma, cosa mi dice di tutte quelle storie presenti nella Bibbia su Cristo che scaccia i demoni?». Ancora una volta, Karras rispose con eccessiva schiettezza, senza riflettere. «Mi ascolti, se Cristo avesse detto a quelle persone che credevano di essere possedute che in realtà erano affette da schizofrenia, come io sostengo che fosse, forse lo avrebbero crocifisso tre anni prima». «Dice davvero?». Chris si sistemò gli occhiali sul viso con un gesto incerto, cercando di tenere la voce bassa e di controllare le sue reazioni. «Ecco, padre Karras, quello che succede è che qualcuno a me molto vicino è probabilmente posseduto. E ha bisogno di un esorcismo. Lei lo può fare?». Improvvisamente tutta la scena apparve surreale agli occhi del sacerdote. Il ponte, il fiume che scorreva sotto di lui, l’Hot Shoppe, il flusso di auto sulla strada, Chris MacNeil, la stella del cinema. Mentre la guardava, in cerca di una risposta adeguata, la donna fece scivolare gli occhiali da sole sul naso, e Karras ebbe un sussulto davanti al rossore, alla disperata preghiera che abitava quegli occhi disfatti dalle troppe lacrime. Realizzò con chiarezza che quella donna stava parlando sul serio. «Padre Karras, è mia figlia», gli disse con voce rotta, «mia figlia!». «Una ragione in più», replicò con dolcezza Karras, «per escludere l’esorcismo e…». «Perché? Cristo santo, io non capisco!», sbottò Chris, la voce ruvida era ora carica di angoscia. Karras le afferrò il polso con mano salda. «In primo luogo», le disse cercando di confortarla, «potrebbe anche peggiorare la situazione». «Ma come?». «Il rito dell’esorcismo ha un forte potere di suggestione, può essere pericoloso. Potrebbe instillare la convinzione di essere posseduti anche dove non c’era mai stata, o, dove c’è, mi capisce, può rinforzarla. E poi, signora MacNeil, prima di dare il nulla osta per un esorcismo, la curia svolge indagini accurate per verificare che ci siano le condizioni per praticarlo. E questa indagine è lunga, ci vuole del tempo. Intanto, lei potrebbe…». «Non può farlo lei stesso l’esorcismo?», lo supplicò Chris. Il labbro inferiore aveva preso a tremarle vistosamente. Rapidamente i suoi occhi si riempirono di lacrime. «Mi ascolti, ogni prete ha il potere di esorcizzare, ma deve avere l’approvazione della Chiesa e, francamente, è raro che venga concessa…». «Potrebbe almeno venire a vederla?». «Come psichiatra, certamente potrei, ma…». «Le occorre un prete, non uno psichiatra!», gridò Chris all’improvviso, il volto sconvolto dalla paura e dall’angoscia. «L’ho portata da tutti quei maledetti dottori del cazzo, da tutti gli psichiatri del mondo, e sono stati loro a mandarmi da lei, e adesso lei mi rimanda da loro!». «Ma sua figlia…». «Cristo santo, c’è qualcuno che vuole aiutarmi?». Quello straziante grido di dolore rimbombò sulla superficie del fiume. Terrorizzati, gli uccelli abbandonarono i rami degli alberi che costeggiavano le due rive. «Oh, Dio santo, qualcuno mi aiuti!», gemette Chris mentre si scioglieva in pianto stringendosi al petto del sacerdote. «Mi aiuti per favore, la prego! Mi aiuti!». Il gesuita abbassò lo sguardo verso la donna, le accarezzò il capo con le mani forti e rassicuranti, mentre gli automobilisti intrappolati nel traffico osservavano la scena dai finestrini con indifferenza. «Va tutto bene», le sussurrò Karras cingendole le spalle con un braccio. Voleva solo calmarla, rasserenarla, evitare una crisi isterica. «…mia figlia»? Era lei stessa ad aver bisogno di uno psichiatra. «Va tutto bene. Okay, verrò a visitarla», le disse, «verrò con lei». Karras si diresse verso la casa insieme a Chris, silenziosa. Percepiva qualcosa di irreale in quegli istanti. Non riusciva a pensare ad altro che alla lezione del giorno dopo all’università. Doveva ancora rivedere i suoi appunti. Salirono lungo la scalinata di pietra. Arrivati in cima, Karras guardò in basso, verso la sua residenza, e in un attimo realizzò che non avrebbe fatto in tempo per la cena. Erano le sei meno dieci. Osservò Chris cercare la chiave e poi inserirla nella serratura. Lei esitò un istante, poi si girò verso di lui. «Padre… crede che forse dovrebbe indossare la veste da prete?». Quella voce: così infantile, ingenua. «Sarebbe troppo pericoloso», le disse. Chris annuì e aprì la porta, e fu in quel momento che Karras la sentì: una gelida, sconvolgente premonizione. Sentì quella sensazione scorrergli nel sangue come schegge di ghiaccio. «Padre Karras?». Lui sollevò lo sguardo. Chris era già entrata, teneva la porta aperta per lui. Per un momento il sacerdote rimase immobile, esitante; poi fece uno scatto in avanti, pervaso da un’oscura intuizione, dalla sensazione che in quel momento qualcosa avesse fine. Karras udì rumori confusi, un trambusto. Veniva dal piano di sopra. Una voce profonda e roboante che gridava volgarità, minacciosa e piena di rabbia, di odio, di rancore. Guardò Chris. La donna ricambiava quello sguardo senza parlare. Poi si mosse, e il sacerdote la seguì lungo le scale, nel corridoio che portava alla camera di Regan. Karl aspettava in piedi, poggiato al muro di fronte alla porta della camera. Teneva la testa china e le braccia incrociate sul petto. Quando, con movimenti lentissimi, il domestico sollevò la testa e guardò Chris, Karras vide lo sconcerto e la paura nei suoi occhi. La voce che arrivava dalla stanza, a distanza così ravvicinata, era talmente potente che quasi sembrava amplificata elettronicamente. «Continua a non volere le cinghie», disse Karl a Chris. Le sue parole uscivano fuori spezzate dall’angoscia, la voce rotta dalla frustrazione. «Torno subito, padre», sussurrò Chris al sacerdote. Karras la osservò percorrere il corridoio ed entrare nella sua stanza da letto. Si girò verso Karl. Lo svizzero aveva gli occhi fissi su di lui. «Lei è un prete?», domandò Karl. Karras annuì, poi di scatto si volse a guardare la porta della camera di Regan. Quella voce rabbiosa era sparita e al suo posto giungeva un lamento lungo e stridente, qualcosa di animalesco che avrebbe potuto somigliare al muggito di un bue. Il sacerdote sentì qualcosa sfiorargli la mano. Abbassò lo sguardo. «Questa è lei», gli stava dicendo Chris, «è Regan». Gli stava porgendo una fotografia. Karras la prese. Una ragazzina. Molto carina, un sorriso dolcissimo. «È stata scattata quattro mesi fa», disse Chris con voce controllata. Poi riprese la foto e con un cenno del capo indicò la porta della stanza. «Ora entri nella stanza, veda lei stesso com’è ridotta adesso». Si appoggiò al muro accanto a Karl. «Io l’aspetto qui». «Chi c’è nella stanza con lei?», chiese Karras. «Nessuno». Karras sostenne per un attimo lo sguardo fisso della donna, poi si voltò verso la stanza. Un’ombra era calata sul suo viso. Non appena fece scattare la maniglia, i rumori dall’interno cessarono improvvisamente. Esitò un istante nel silenzio inaspettato, poi lentamente avanzò nella stanza. Fu quasi respinto dal fetore insopportabile di escrementi che lo colpì, fitto, denso, in piena faccia. Scacciò immediatamente la sua repulsione e chiuse la porta alle sue spalle. E i suoi occhi si fermarono, sbarrati, su quella cosa che era diventata ora Regan, su quella creatura sdraiata supina nel letto, la testa leggermente sollevata dal cuscino, gli occhi enormi fuori dalle orbite, infuocati, illuminati da una follia astuta, da un’intelligenza malvagia. C’era odio e interesse in quegli occhi, ora fissi su di lui, che lo guardavano intensamente, gonfi di rabbia in quel volto ormai scheletrico, tramutato in una maschera orribile carica di ostilità, di un rancore indescrivibile. Karras andò con lo sguardo ai capelli, una massa arruffata, poi alle braccia ferite, alle gambe rinsecchite, alla pancia così grottescamente ampia, gonfia, sporgente. E ancora agli occhi, quegli occhi che non si staccavano da lui… lo penetravano… e che si mossero per seguirlo quando si spostò vicino alla finestra, dove c’erano una sedia e un piccolo tavolo. «Ciao, Regan», disse il prete con voce calda e affettuosa. Prese la sedia e l’avvicinò al letto. «Sono un amico di tua madre. Mi ha detto che non ti senti tanto bene». Si mise a sedere. «Hai voglia di dirmi cosa c’è che non va? Vorrei aiutarti». Gli occhi continuavano a brillare di ferocia, spalancati. Da un angolo della bocca di Regan scendeva un rivolo di saliva giallognola. Poi le labbra si contrassero, apparve un ghigno bestiale su quel volto sfigurato, la bocca si inarcò in una smorfia di derisione e disprezzo. «Bene, bene, bene», disse Regan soddisfatta, un’ironia perversa nella voce. Karras sentì un brivido percorrergli la schiena, i capelli drizzarsi sul collo. La profondità di quella voce era impensabile, così bassa e colma di minaccia e potenza. «Allora sei tu, eh? Hanno mandato te! Bene, non abbiamo nulla da temere da uno come te!». «Sì, è vero. Io sono tuo amico. Vorrei aiutarti», disse Karras. «Allora potresti sciogliere queste cinghie, per cominciare», continuò Regan, stridula. Aveva sollevato i polsi e adesso Karras poteva vedere che erano tenuti da due cinghie di contenzione molto strette. «Sono fastidiose?», le chiese il sacerdote. «Estremamente fastidiose. Una vera seccatura. Una seccatura infernale». Come per un segreto divertimento, gli occhi le brillavano di malizia. Karras notò i segni dei graffi sul viso, i tagli procurati dai suoi stessi morsi sulle labbra. «Ho paura che tu ti faccia del male, Regan». «Io non sono Regan», tuonò lei, ancora con quel ghigno spaventoso che apparve agli occhi di Karras come un’espressione immutabile del suo viso. L’apparecchio correttivo su quei denti parve al sacerdote davvero contraddittorio. «Oh, capisco. Allora forse è il caso che ci presentiamo. Io sono Damien Karras», disse il sacerdote. «E tu chi sei?». «Io sono il diavolo». «Ah, ecco fatto, bene», annuì Karras con aria di approvazione. «Adesso possiamo finalmente parlare un po’». «Una chiacchierata?». «Se per te va bene». «Molto utile per l’anima, sì. Però, converrai che non posso parlare liberamente legato con queste fasce. Sono abituato, e mi diverto, a gesticolare parecchio quando discorro», disse Regan. Un filo di bava spuntava all’angolo della sua bocca. «Come saprai, ho passato molto tempo a Roma, caro Karras. Adesso, gentilmente, scioglimi le cinghie!». Che precocità, quanta proprietà di linguaggio e lucidità, si sorprese Karras. Si sedette sul bordo della sedia, in una posa professionale. «Dici di essere il diavolo?», chiese. «Te lo posso garantire». «Allora perché non fai semplicemente sparire le cinghie?». «Sarebbe una dimostrazione di potere troppo volgare, Karras. Troppo grossolana. Dopo tutto, sono sempre un principe!». Sghignazzò rumorosamente. «Preferisco di gran lunga l’arma della persuasione, Karras, la complicità, l’unione, il coinvolgimento. E in più, se sciolgo le cinghie da solo, ti privo dell’opportunità di compiere un atto caritatevole». «Ma un atto di carità», disse Karras, «è un gesto di virtù, ed è esattamente quello che il diavolo cerca di combattere e di impedire. Di fatto, quindi, io ti starei aiutando solo se non ti slegassi. A meno che, logicamente», continuò stringendosi nelle spalle, «tu non sia realmente il diavolo. E se così fosse, forse ti libererei dalle cinghie». «Furbo come una volpe, caro Karras. Se solo il buon vecchio Erode fosse qui per godersi il momento». «Quale Erode?», chiese Karras stringendo le palpebre. Si stava riferendo al passo in cui Cristo chiama Erode «quella volpe»? «Ce ne sono due. Ti riferisci al re di Giudea?». «Il tetrarca della Galilea!», gli urlò lei con odio e rovente disprezzo. Poi, all’improvviso, tornò quel ghigno sul volto, e Regan parlò con una voce sinistra, in tono di lusinga: «Ecco, vedi come mi hanno fatto agitare queste dannate cinghie? Scioglile, scioglile e ti dirò il tuo futuro». «Molto allettante, che tentazione». «È la mia specialità». «Ma come faccio a sapere che sei davvero in grado di leggere il futuro?». «Sono il diavolo». «Sì, dici di essere il diavolo, ma non mi vuoi dare una prova». «Tu non hai fede». Karras s’irrigidì. «In cosa?». «In me, caro Karras, in me!». Qualcosa di malizioso, di beffardo illuminava quegli occhi. «Tutte queste prove, tutti questi segni dal cielo!». «Bene, c’è qualcosa di molto elementare che possiamo fare», offrì Karras. «Per esempio: il diavolo conosce tutto, giusto?». «No, quasi tutto, Karras, quasi. Vedi? Continuano a dire che sono superbo, mentre in realtà non lo sono affatto. Allora, dove vuoi arrivare, volpe?». Quegli occhi gialli e rossi di sangue scintillavano di astuzia. «Pensavo che possiamo mettere alla prova la vastità delle tue conoscenze». «Oh, sì! Il lago più grande del Sudamerica», disse Regan in tono canzonatorio, una gioia malvagia negli occhi, «è il lago Titicaca, in Perù. Può bastare?». «No, ti chiederò qualcosa che solamente il diavolo può sapere. Per esempio, dov’è Regan? Sai dirmelo?». «Lei è qui». «Qui dove?». «Dentro questo corpo schifoso». «Lasciamela vedere». «Perché?». «Per dimostrarmi che mi stai dicendo la verità». «Vuoi scopartela? Sciogli le cinghie e ti lascerò fare tutto quello che vuoi». «Lasciamela vedere». «Ha una fighetta deliziosa», disse Regan, provocante, con voce libidinosa, la lingua che si muoveva frenetica fuori e dentro la bocca, leccandosi le labbra screpolate, ferite. «Ma come conversatrice è piuttosto scarsa. Ti consiglio vivamente di intrattenerti con me». «Bene, mi sembra chiaro che tu non sai dov’è», disse Karras con aria rassegnata, «quindi apparentemente non sei il diavolo». «Sono il diavolo!», ruggì Regan con uno scatto in avanti, il viso contorto dalla rabbia. Il sacerdote tremò nel sentire la potenza di quella voce terrificante tagliare l’aria, rimbombando tra le pareti della stanza. «Sono il diavolo!». «Va bene, allora lasciami vedere Regan», disse Karras. «Sarebbe la dimostrazione che lo sei». «Ti farò vedere! Te lo dimostrerò! Ti leggerò nel pensiero!», gridò ancora rabbiosa. «Pensa a un numero compreso tra uno e dieci». «No, questo non proverebbe nulla. Mi basta vedere Regan». All’improvviso scoppiò a ridere, appoggiandosi alla spalliera del letto. «No, nulla potrebbe dimostratelo, Karras. Che meraviglia! Splendido davvero! Ma intanto noi cercheremo di esercitare su di te il nostro fascino. Dopo tutto, ora che sei qui, ci dispiacerebbe fare a meno di te». «Chi è “noi”?», avanzò Karras. La cosa aveva risvegliato in lui un subitaneo, forte interesse. «Siamo un bel gruppetto qui, dentro la troietta», disse la cosa, annuendo con soddisfazione. «Ah, sì, proprio un bel gruppetto, per quanto insolito. Vedremo più avanti se sarà il caso di fare le presentazioni. Per ora, però, c’è un certo prurito che mi sta facendo soffrire come un matto, in un punto dove non riesco a grattarmi. Solo per un istante, Karras, potresti sciogliere almeno una delle cinghie?». «Non posso. Dimmi dov’è il prurito e ti gratterò io». «Ah, proprio furbo, che astuzia!». «Mostrami Regan e forse ti scioglierò una delle cinghie», propose Karras. «Solo se…». All’improvviso ebbe un sussulto: gli occhi che stava guardando adesso erano occhi pieni di terrore puro, di spavento, la bocca contratta in un urlo disperato, in una muta richiesta di aiuto. Ma un istante dopo le fattezze di Regan erano sparite in una confusa, violenta ridefinizione dei lineamenti. «Non potrebbe levare queste cinghie?», chiese una voce docile e supplichevole in un marcato accento britannico. D’un tratto la personalità demoniaca ricomparve. «Aiuti un vecchio chierichetto, padre», gracchiò la creatura, poi esplose in una risata fragorosa gettando la testa all’indietro. Karras restò seduto, in preda alla confusione e alla sorpresa. Ora sentiva sul collo la carezza di mani gelide, ma più ferme, più reali. La cosa che era Regan smise all’improvviso di ridere e piantò sul viso di Karras occhi carichi di disprezzo. «A proposito, Karras, qui con noi c’è anche tua madre. Vuoi lasciarle un messaggio? Mi accerterò io stesso che lo riceva». Poi di botto un getto di vomito fu scagliato contro l’uomo. Si mosse di scatto per evitarlo. Alcune gocce lo colpirono sul maglione e su una mano. Il viso del prete perse ogni colore. Guardò verso il letto. Regan rideva, soddisfatta. Dalla mano di Karras gocce di vomito scivolavano sul tappeto. «Se quello che dici è vero», disse in tono secco, «allora devi conoscere il nome di battesimo di mia madre. Dimmelo». La cosa-Regan sibilò verso di lui, gli occhi spiritati e fiammeggianti, il capo che oscillava come quello di un serpente.
«Qual è? Dimmelo». Regan si contorse e dalla sua bocca uscì come un muggito, profondo e basso, che penetrò attraverso le imposte fino a far tremare il vetro della finestra. Gli occhi scomparvero, rovesciati nelle palpebre. Per qualche minuto, Karras continuò a fissarla. Il muggito non accennava a smettere. Poi il prete posò lo sguardo sulla sua mano e uscì dalla stanza. Nel vederlo Chris si staccò rapidamente dal muro, fissando sconvolta le tracce di vomito sul maglione del sacerdote. «Cosa è successo? Ha vomitato?». «Ha un asciugamano?». «Il bagno è da questa parte», rispose lei in fretta, indicando la porta in fondo al corridoio. «Karl, vai a dare un’occhiata a Regan», ordinò, poi seguì il prete. «Mi dispiace tantissimo!», esclamò in preda all’agitazione prendendo un asciugamano. Il gesuita andò al lavandino. «Le avete dato dei tranquillanti?», chiese. Chris aprì il rubinetto. «Sì, il Librium. Si tolga il maglione per lavarsi, padre». «Che dosaggio?», chiese lui, cercando di sfilarsi il maglione con la mano pulita. «Aspetti, l’aiuto». Prese il maglione da sotto. «Allora, oggi ne ha preso quattrocento milligrammi». «Quattrocento?». Chris aveva sollevato il maglione fino al petto. «Sì, solo così siamo riusciti a legarla con le cinghie. Ci siamo dovuti mettere tutti insieme per tenerla ferma e…». «Ha dato a sua figlia quattrocento milligrammi di Librium tutti in una volta?». «Forza, alzi le braccia, padre». Lui le sollevò e con delicatezza Chris gli sfilò l’indumento. «Ha una forza che non immagina nemmeno». Scostò la tenda della doccia e gettò il maglione nella vasca. «Lo farò pulire da Willie, padre. Sono davvero dispiaciuta». «Lasci perdere, non importa». Sbottonò il polsino destro della sua camicia bianca e arrotolò la manica, scoprendo la leggera peluria scura che copriva il suo avambraccio forte e muscoloso. «Mi dispiace», ripeté piano Chris, sedendosi con movimenti lenti sul bordo della vasca. «La bambina sta prendendo delle flebo per nutrirsi, almeno questo?», chiese Karras. Teneva la mano sotto un getto di acqua calda per cercare di eliminare le tracce di vomito. Le mani nervose di Chris piegavano e dispiegavano l’asciugamano. Un asciugamano rosa con la scritta Regan ricamata in blu. «No, padre. Assume soltanto il Sustagen, quando dorme. Ma ha strappato il tubicino». «L’ha strappato?». «Sì, oggi». Karras era visibilmente turbato. S’insaponò le mani strofinandole con energia, poi le risciacquò. Dopo una pausa, aggiunse in tono grave: «Non dovrebbe essere qui, ma in un ospedale». «Non posso farlo, non posso portarla in ospedale», rispose Chris. La sua voce era inespressiva. «Perché non può?». «Semplicemente non posso!», ripeté Chris, la voce ora vibrante di angoscia. «Non posso permettermi che si venga a sapere! Lei è…». Abbandonò la testa sul petto. Prese una lunga boccata di ossigeno, poi lentamente risputò fuori l’aria. «Regan ha fatto qualcosa, padre. Non posso correre il rischio che qualcuno venga a saperlo. Non un dottore… non un’infermiera». Sollevò lo sguardo: «Nessuno deve saperlo». Karras aggrottò le sopracciglia e chiuse i rubinetti. «…che farebbe se una persona, diciamo un criminale…». Abbassò il capo, guardando verso il lavandino. «Chi le sta somministrando il Sustagen, il Librium e tutti gli altri farmaci?». «Lo facciamo noi. Il medico ci ha mostrato come fare». «Avete bisogno delle ricette». «Be’, potrebbe farcele lei, padre, no?». Il sacerdote si voltò verso la donna. Teneva le mani alzate a sgocciolare sopra il lavandino, come fa un chirurgo prima di operare. Per un istante incrociò quello sguardo tormentato, percepì la presenza di un segreto terribile, di qualcosa di spaventoso. Accennò col capo all’asciugamano che Chris stringeva tra le mani. Lei lo guardò attonita. «L’asciugamano, per favore», disse lui dolcemente. «Oh, mi scusi!». Con gesti rapidi glielo passò, senza smettere di guardarlo con occhi carichi di speranza. Il gesuita si asciugò le mani. «Allora, padre, che cosa ne pensa?», chiese Chris alla fine. «Crede che sia posseduta?». «Lei cosa pensa?». «Non lo so. L’esperto dovrebbe essere lei». «Cosa sa lei sull’argomento?». «Soltanto quel poco che ho letto, e qualche altra informazione che mi hanno dato i medici». «Quali medici?». «Quelli della clinica Barringer». Il sacerdote piegò con cura l’asciugamano e lo rimise a posto. «Lei è cattolica?». «No». «Sua figlia?». «No». «Pratica un’altra religione?». «No, nessuna, però io…». «Perché è venuta da me allora, signora MacNeil? Chi gliel’ha consigliato?». «Sono venuta da lei perché sono disperata!», sbottò Chris con enfasi. «Nessuno, capisce, nessuno mi ha consigliato nulla!». Lui era in piedi, le spalle rivolte alla donna. Tra le dita teneva ancora strette le frange dell’asciugamano. «Poco fa ha detto che è stato uno psichiatra a consigliarle di rivolgersi a me». «Oh, non so nemmeno io che cosa le ho detto! Sono davvero fuori di me!». «Senta, non m’importa affatto quale sia stato il motivo», rispose Karras cercando di controllare la sua reazione. «Tutto quello che m’interessa è trovare il modo migliore per aiutare sua figlia. Ma glielo dico subito e chiaramente: se quello che cerca è un esorcismo come cura shock per un’autosuggestione, farebbe molto meglio a chiamare l’ufficio di collocamento per attori, signorina MacNeil, perché la chiesa cattolica non si presterebbe mai e lei avrebbe perso del tempo prezioso». Karras strinse forte l’asciugamano, nel tentativo di reprimere il tremito delle sue mani. Cosa c’è che non va? Che mi sta succedendo? «Sia detto per inciso, signora MacNeil», si sentì dire Karras dalla voce asciutta di Chris. L’uomo chinò ancora il capo e cercò d’ingentilire il tono della sua voce. «Mi ascolti, che sia un demone o un disturbo mentale, io farò il possibile per aiutarla. Però devo sapere tutta la verità. È importante per Regan. Al momento brancolo nel buio in mezzo a cose che non conosco, e non è che questo mi risulti strano o anormale, direi piuttosto che è la mia condizione abituale. Adesso, perché non usciamo da questo bagno e andiamo al piano di sotto, in una stanza dove possiamo parlare tranquillamente?». Si era voltato verso di lei, con un sorriso appena accennato ma sincero e caloroso, un sorriso che voleva rasserenarla. Le porse una mano per aiutarla ad alzarsi. «Una tazza di caffè mi aiuterebbe». «A me aiuterebbe qualcosa di più forte». Mentre Karl e Sharon si occupavano di Regan, sedettero nello studio. Chris prese posto sul divano, Karras su una poltrona accanto al camino. La donna cominciò a raccontare l’evoluzione della malattia di Regan, stando attenta a tralasciare qualunque particolare potesse essere messo in relazione con quanto era accaduto a Dennings. Il prete ascoltò con attenzione, intervenendo di rado: una domanda ogni tanto, un cenno del capo, un’aggrottare delle ciglia. Chris ammise che, all’inizio, aveva pensato all’esorcismo come terapia d’urto. «Ma ora non so più cosa pensare», aggiunse scuotendo la testa. Le dita disseminate di lentiggini continuavano a muoversi nervosamente, intrecciate in grembo. «Non so più nulla». Sollevò lo sguardo verso il viso pensieroso del sacerdote. «Lei invece cosa ne pensa, padre?». «Comportamento compulsivo originato dal senso di colpa, probabilmente, accompagnato a una dissociazione della personalità». «Padre, basta con tutte queste stronzate! Come può parlare così dopo quello che ha appena visto?». «Se lei avesse visto tanti pazienti di cliniche psichiatriche quanti ne ho visti io, le assicuro che le sarebbe altrettanto facile parlare così. Mi segua, adesso. Possessione demoniaca, va bene, facciamo conto che sia uno dei casi della vita, una cosa che esiste realmente. Il punto, però, è che sua figlia non dice di essere un demone. Insiste nel dire di essere il diavolo in persona, e questa è la stessa identica cosa di chi dice di essere Napoleone Bonaparte! Mi capisce?». «Allora mi spieghi tutti quei rumori e le cose strane che stanno succedendo». «Io non li ho sentiti». «Li hanno sentiti anche in clinica, padre, quindi non sono cose che succedono solo qui in casa». «Va bene, forse li hanno sentiti. Ma non c’è bisogno di chiamare in causa il diavolo per spiegare questi fenomeni». «Allora trovi lei una spiegazione». «Psicocinesi». «Cosa?». «Ecco, ha sentito parlare di presenze soprannaturali, di poltergeist, no?». «Fantasmi che lanciano piatti e fanno cadere oggetti?». Karras annuì. «Non è un fenomeno così raro, e normalmente è collegato a un disturbo emozionale tipico dell’adolescenza. Per quanto ne sappiamo, sembra che un’eccessiva pressione interna del cervello riesca a catalizzare una qualche forma di energia sconosciuta capace di spostare gli oggetti anche a distanza. Ma non c’è nulla di soprannaturale in questo. Lo stesso vale per la straordinaria forza di Regan che, ancora una volta, è piuttosto comune in simili patologie. Se vuole può chiamarlo dominio della mente sulla materia, come preferisce». «Io lo chiamo soprannaturale». «Okay, in ogni caso si verifica anche al di fuori della possessione». «Accidenti, che bella situazione», disse lei esasperata, «qui ci sono io, che sono atea, e lei che è un prete e sembra che…». «La miglior spiegazione per ogni fenomeno», la interruppe Karras, «è sempre la più semplice tra quelle che permettono di porre al loro posto tutti gli elementi». «Bene, forse allora sono io che sono una stupida», replicò Chris, «ma il fatto che lei mi dica che c’è un congegno sconosciuto nella testa di una persona in grado di lanciare i piatti contro il soffitto non mi spiega assolutamente nulla! Allora, di cosa si tratta? Per carità di Dio, sa dirmi che cosa ha mia figlia?». «Non posso, non sappiamo…». «Che diavolo è lo sdoppiamento della personalità, padre? È stato lei a usare questa definizione, l’ho sentita. Che cos’è? Oppure sono veramente io che sono stupida? Riesce a spiegarmelo in un modo che io possa comprendere e ficcarmelo in testa una volta per tutte?». Nei suoi occhi arrossati c’era una richiesta d’aiuto, la traccia di una disperata confusione. «Mi ascolti, non c’è nessuno al mondo che possa dire di averlo capito», le rispose il sacerdote con un tono gentile. «Tutto ciò che sappiamo è che lo sdoppiamento della personalità è una realtà; però quello che sta dietro il fenomeno ci è oscuro e le ipotesi sono soltanto e puramente speculative. Ma provi a vedere le cose in questo modo: nel cervello umano ci sono, diciamo, più di diciassette miliardi di cellule». Chris si spostò in avanti, il viso contratto per la concentrazione. «Ora, se esaminiamo queste cellule cerebrali», continuò Karras, «vediamo che gestiscono una media di cento milioni di messaggi al secondo, ossia il numero di sensazioni che in quel lasso di tempo bombardano il nostro corpo. Queste cellule non soltanto si occupano di organizzare tutta la mole di messaggi, ma lo fanno con incredibile efficienza, senza errori e senza sovrapporsi tra loro. Capisce che sarebbe impossibile operare in questo modo se non ci fosse una forma di comunicazione tra cellule, e infatti sembra proprio che questa comunicazione esista. Ecco, in apparenza ciascuna di queste cellule ha una coscienza, forse, una coscienza di sé. Adesso provi a figurarsi il corpo umano come un’immensa nave oceanica, va bene? Tutte le cellule del cervello sono l’equipaggio. Ora immagini che una di queste cellule si trovi sul ponte di comando, che sia il capitano. Però, trovandosi sul ponte, non è in grado di sapere cosa stia facendo ciascuno degli altri membri dell’equipaggio. Tutto quello che il capitano sa è che la nave procede regolarmente, che il lavoro viene svolto a dovere. Ma il capitano è lei, signora MacNeil, ovvero la sua coscienza vigile. E quello che accade nei casi di sdoppiamento della personalità, probabilmente, è che una di queste cellule dell’equipaggio che si trova sottocoperta improvvisamente si sposta sul ponte e prende il comando. Un ammutinamento, per dirla in altri termini. Questo l’aiuta? Riesce a capire meglio ora?». Lei continuava a fissarlo, un’espressione di sconcertante incredulità sul suo viso. «Padre, è talmente assurdo, talmente fuori dalla mia portata che credo davvero sia più facile credere nell’esistenza del diavolo!». «Ecco…». «Senta, io non me ne intendo di questa roba e di tutte queste teorie non ne so nulla», lo interruppe Chris con una voce bassa e piena di tensione. «Ma le garantisco una cosa, padre: lei può anche mostrarmi una bambina che sia identica a Regan, stesso viso, stessa voce, stesso odore, identica in tutto, anche nel modo di mettere i puntini sulle i quando scrive; ma io sarò sempre in grado di riconoscere in un attimo che non è lei! Lo saprei subito! Lo sentirei dentro, nella pancia, e le sto dicendo che quella cosa lassù non è mia figlia! Io lo sento, mi capisce, io lo so!». Si appoggiò allo schienale del divano, esausta, sfinita. «Adesso mi dica lei cosa dovrei fare», disse in tono di sfida. «Forza, mi dica che lei sa per certo che non c’è niente che non va in mia figlia se non nella sua testa, che lei sa per certo che non ha bisogno di un esorcismo, che lei sa per certo che questo non l’aiuterebbe per nulla. Avanti, forza! Me lo dica! Mi dica cosa devo fare!». Per lunghi, tormentati istanti il prete rimase immobile. Poi con voce bassa rispose: «C’è davvero poco in questo mondo che io so per certo». Rimase fermo a pensare, abbandonato sulla poltrona. Poi aggiunse: «Regan ha un tono di voce molto basso? Dico, normalmente?». «No, anzi, direi che ha una voce molto sottile». «La considera una bambina precoce per la sua età?». «No, assolutamente». «Conosce il suo quoziente intellettivo?». «Nella media». «E le sue letture abituali?». «Romanzi per ragazzi e fumetti, per la maggior parte». «E il suo modo di parlare, la forma? Trova che sia molto diverso rispetto a prima?». «Del tutto diverso. Almeno la metà di quelle parole non le ha mai pronunciate prima». «No, non intendevo il contenuto dei suoi discorsi, ma la forma». «La forma?». «Sì, lo stile, il modo di mettere insieme le parole?». «Maledizione, non sono sicura di capire la sua domanda». «Conserva per caso delle lettere scritte da Regan, qualche tema fatto a scuola? Una registrazione della sua voce sarebbe…». «Sì, ho una cassetta che aveva registrato per suo padre», lo interruppe Chris. «La stava preparando e voleva spedirgliela, ma non l’ha mai finita. Vuole ascoltarla?». «Sì, certamente, e ho bisogno anche dei suoi referti, soprattutto di quelli della clinica Barringer». «Mi ascolti, padre, ho già seguito quella strada a lungo…». «Sì, lo so, ma ho bisogno di vedere quelle cartelle per rendermi conto della situazione». «Quindi è ancora contrario all’esorcismo». «Sono soltanto contro la possibilità di arrecare a sua figlia più danni che benefici». «Adesso però sta parlando soltanto come psichiatra, giusto?». «No, parlo anche in quanto prete. Se devo recarmi presso la Cancelleria apostolica, o dovunque sia necessario andare per avere il nulla osta per praticare un esorcismo, la prima cosa che devo presentare è una sostanziosa documentazione che provi che la condizione di sua figlia non è dovuta a problemi esclusivamente psichiatrici. Più avanti dovrò raccogliere delle prove concrete che la curia possa accettare come segni evidenti di uno stato di possessione». «Quali per esempio?». «Non lo so, dovrò andare a controllare». «Sta scherzando? Pensavo che lei fosse un esperto di queste cose». «Probabilmente al momento lei è molto più preparata sulle possessioni demoniache di quanto non lo sia la maggior parte dei sacerdoti. Adesso mi dica, quando può consegnarmi le cartelle cliniche della Barringer?». «Se dovesse essere necessario sono pronta ad affittare un aereo per recuperarle!». «E la cassetta?». Chris si alzò dal divano. «Vado subito a vedere se riesco a trovarla». «Un’altra cosa, solo una», aggiunse Karras. «Quel libro di cui mi ha parlato, quello con un capitolo sulle possessioni. Si ricorda se Regan lo ha letto prima che la sua malattia iniziasse?». Lei si concentrò, mentre con le unghie si sfregava i denti. «Accidenti, mi sembra di ricordare di averla vista leggere qualcosa il giorno prima che questa merd… prima che i problemi si manifestassero davvero», si corresse. «Però non riesco a esserne del tutto certa. Ma lo ha fatto di sicuro, credo. Insomma, ne sono sicura. Abbastanza sicura». «Vorrei vederlo. Può darmelo?». «Certamente, appartiene alla biblioteca dell’università. Lo vado a prendere». Stava uscendo dallo studio. «Credo che quella cassetta sia al piano di sotto, vado a controllare. Faccio in un attimo». Karras annuì con aria assente, gli occhi fissi su un disegno del tappeto. Dopo pochi minuti si riprese, si alzò e camminò lentamente lungo il corridoio fino alla porta d’ingresso. Lì si fermò, immobile nella penombra, impassibile, quasi fosse in un’altra dimensione. Mani in tasca, lo sguardo perso nel vuoto, sentì il grugnito di un maiale provenire dal piano di sopra, poi il guaito di uno sciacallo, poi dei singhiozzi, poi il sibilare di un serpente. «Oh, eccola! La cercavo nello studio». Karras si voltò verso Chris nel momento in cui lei faceva scattare l’interruttore della luce. «Sta andando via?». Si avvicinò tenendo in mano il libro e la cassetta. «Mi dispiace, devo preparare una lezione per domattina». «Sì? Dove insegna?». «Alla facoltà di medicina». Prese il libro e la cassetta dalle mani della donna. «Cercherò di passare di qui domani nel pomeriggio o in serata. Nel mentre, se dovesse esserci qualche sviluppo o un’urgenza, non esiti a chiamarmi, non importa l’ora. Lascerò detto al centralino di passarmi le sue chiamate». Lei annuì. Il sacerdote aprì la porta per uscire. «Con le medicine siete a posto per il momento?», le chiese Karras. «Sì, sono tutte prescrizioni rinnovabili», rispose Chris. «Quindi non chiamerà di nuovo il suo medico?». L’attrice chiuse gli occhi, esausta, poi scosse il capo. «Sappia che io non sono un medico generico», l’avvertì Karras. «Non posso», disse Chris sospirando. «Non posso chiamare nessuno». Il sacerdote poteva sentire l’angoscia della donna farsi pulsante, come onde che si infrangono su una spiaggia sconosciuta. «Capisco. Tuttavia, prima o poi, sarò costretto a parlare di quello che succede con i miei superiori, soprattutto se dovrò venire qui così spesso e in orari insoliti, magari la notte». «Deve proprio?», chiese Chris, il volto segnato dalla preoccupazione. «Be’, in caso contrario potrebbe apparire un po’ strano, non crede?». Lei chinò il capo. «Certo, capisco cosa intende», mormorò. «È davvero un problema per lei? Non si preoccupi, dirò loro solo quello di cui non potrò proprio fare a meno», la rassicurò. «Non lo saprà nessuno». Lei sollevò il viso, quel viso tormentato e colmo di disperazione, verso gli occhi duri e tristi del sacerdote, e in quegli occhi vide la forza, vide il dolore. «Va bene», rispose senza energia. Del dolore riusciva a fidarsi. Karras annuì. «Ne riparleremo». Fece per uscire, ma poi si bloccò sulla soglia un istante, il viso pensieroso, le dita che accarezzavano le labbra. «Sua figlia sapeva che doveva venire un prete?». «No, nessuno a parte me lo sapeva». «Lei sa che mia madre è morta di recente?». «Sì, l’ho saputo. Mi dispiace tanto». «Regan ne è a conoscenza?». «Perché me lo chiede?». «La bambina lo sa?». «No, assolutamente». Il sacerdote annuì. «Perché me lo domanda?», insisté Chris, la fronte lievemente corrucciata mentre con impazienza aspettava una risposta. «Niente di importante», replicò Karras minimizzando. «Mi era soltanto venuto in mente, così…». Guardò attentamente il viso stanco della donna e assunse un’espressione preoccupata. «Riesce a dormire almeno qualche ora?». «Oh, molto poco». «Prenda qualche sonnifero, allora. Sta prendendo il Librium anche lei?». «Sì». «Quanto?». «Dieci milligrammi, due volte al giorno». «Provi con venti, due volte al giorno. Nel frattempo, cerchi di non passare troppo tempo con sua figlia. Più resta a contatto con lei in questo stato, maggiore è la possibilità che qualche danno irreparabile si produca nei suoi sentimenti verso Regan. Cerchi di rimanere lucida, e molto, molto calma. Non sarebbe di grande aiuto per la bambina, lo capisce bene, se dovesse avere un esaurimento nervoso». Chris abbassò gli occhi e annuì, mentre un’ombra di scoraggiamento le attraversava il volto. «Ora, per favore, vada a riposare», aggiunse Karras con tono calmo. «Lo farà? Andrà a dormire?». «Sì, va bene», disse lei in un sussurro. «Va bene, glielo prometto». Guardò il prete e accennò un sorriso. «Buonanotte, padre. E grazie, grazie mille». Il sacerdote la osservò per un istante, impassibile; poi, rapidamente, si allontanò. La donna rimase a guardarlo dalla soglia. Quando lo vide attraversare la strada, le venne in mente che probabilmente avrebbe saltato la cena. Per un istante si preoccupò che potesse aver freddo; si stava srotolando le maniche della camicia. All’angolo tra la Prospect Street e la trentaseiesima, il libro gli cadde dalle mani e si fermò a raccoglierlo; poi sparì dietro un palazzo. Quando non lo vide più, Chris improvvisamente si rese conto di avvertire dentro di sé una strana leggerezza. Non si accorse che poco più avanti, in una macchina parcheggiata in fondo alla strada, sedeva il tenente Kinderman. Chiuse la porta dietro di sé. Circa mezzora dopo, Damien Karras rientrò nella sua stanza. Portava con sé un gran numero di libri e diverse riviste specializzate prese dagli scaffali della biblioteca dell’università. Rapidamente gettò tutto sulla scrivania e si mise a rovistare in un cassetto in cerca delle sigarette. Trovò un vecchio pacchetto di Camel, ormai quasi vuoto. Accese una sigaretta, aspirò profondamente e trattenne il fumo nei polmoni. Si concentrò su quello che aveva visto, su Regan. Isteria. Sapeva che non poteva trattarsi di nient’altro che di isteria. Buttò fuori il fumo, poi infilò il pollice della mano destra nel passante della cintura e abbassò lo sguardo in direzione dei libri. Aveva preso Possessione di Oesterreich, I diavoli di Loudun e Paraprassia nel caso Haizman di Freud di Huxley, Possessione demoniaca ed esorcismi nella cristianità antica alla luce della moderna teoria della malattia mentale di McCasland, e alcuni estratti dalla rivista di psichiatria dedicati ai saggi di Freud “La neurosi nella possessione demoniaca nel diciassettesimo secolo” e “La demonologia nella psichiatria moderna”. «Un aiuto a un vecchio chierichetto, padre? Mi aiuterebbe?». Il gesuita si passò una mano sulla fronte, poi si osservò le dita, sporche di un sudore appiccicoso. Si accorse solo allora di aver lasciato la porta spalancata. Attraversò a grandi passi la stanza e la richiuse; poi da uno scaffale prese la sua copia, rilegata in rosso, del Rituale Romano, una summa di tutte le formule rituali e delle preghiere. Con la sigaretta stretta tra le labbra, le palpebre socchiuse per il fumo, sfogliava le pagine dedicate alle “Norme generali” per gli esorcismi. Cercava la lista dei segni che indicassero la possessione demoniaca. Prima fece una lettura veloce, poi si soffermò più attentamente su un passo: L’esorcista non dovrebbe essere troppo pronto a credere che la persona sia posseduta da uno spirito maligno; occorre che si accerti dei segni attraverso i quali una persona posseduta si può distinguere da una che soffre di qualche disturbo, specialmente di natura psichica. Segni evidenti dello stato di possessione possono essere i seguenti: capacità di esprimersi con facilità in una lingua straniera o di comprenderla quando è un’altra persona a parlarla; capacità di predire il futuro o conoscere eventi misteriosi; manifestazione di capacità non compatibili con l’età del soggetto e con le sue condizioni fisiche; e numerosi altri segnali che, se dovessero presentarsi contemporaneamente, renderebbero evidente il fenomeno di possessione. Si fermò un istante a meditare su quelle regole, si appoggiò poi con la schiena alla libreria e continuò a leggere le altre indicazioni. Quando ebbe terminato, si trovò a fissare attentamente la numero 8: Alcuni soggetti rivelano un delitto che è stato commesso e indicano i colpevoli… Alzò lo sguardo dal libro non appena sentì bussare alla porta. «Damien?». «Avanti». Era Dyer. «Ehi, Chris MacNeil ha cercato di contattarti, più volte. Sei riuscito a parlarci?». «Quando? Vuoi dire stasera?». «No, questo pomeriggio». «Oh, sì, ci ho parlato». «Bene», disse Dyer, «volevo solo essere sicuro che avessi ricevuto il messaggio». Il minuscolo prete si mise a gironzolare per la stanza, come fosse in cerca di qualcosa. Sembrava un folletto curioso in un negozio di cianfrusaglie. «Hai bisogno di qualcosa, Joe?». «Non è che hai delle caramelle al limone?». «Cosa?». «Ho cercato dovunque, ho chiesto a tutti; vorrei delle caramelle al limone, delle pastiglie al limone. Cavolo, sto morendo dalla voglia». Senza smettere di rovistare, mormorò: «Ho speso un anno della mia vita ad ascoltare le confessioni dei marmocchi di un collegio, e sono diventato un tossico di caramelle al limone. In preda al vizio. Quei piccoli bastardi respiravano contro la grata quella roba e tutti i loro peccatucci. Tra una cosa e l’altra, è diventata una droga, credo». Tolse il coperchio di una scatola di tabacco per pipa in cui Karras teneva dei pistacchi. «Cos’è questa roba? Fagioli messicani secchi?».
Karras si girò verso la libreria, cercando un titolo in particolare. «Senti, Joe, ho un po’ da fare…». «Non la trovi proprio carina, Chris?», lo interruppe Dyer, abbandonandosi sul letto. Si mise sdraiato, le mani comodamente incrociate dietro la testa. «Una donna veramente simpatica. L’hai incontrata?». «Sì, ci siamo fatti una chiacchierata», rispose Karras mentre sfilava dalla fila di libri un volume con la copertina verde. Il titolo era Satan, una selezione di articoli e di tesi elaborate da alcuni teologi francesi. Lo prese e lo portò verso tavolo. «Senti, davvero ho molto da…». «Schietta. Molto alla mano. Spontanea», proseguì Dyer. «Potrebbe darci una mano per quel progetto, per quando entrambi avremo chiuso col sacerdozio». «Chi chiuderà col sacerdozio?». «Sono tutti delle checche. Un branco di checche. Il nero ormai non va più come un tempo. Ora, io pensavo…». «Joe, devo preparare una lezione per domani», disse Karras poggiando il libro sulla scrivania. «Okay, messaggio ricevuto. Allora, senti, il mio piano è questo: andiamo da Chris MacNeil, immaginati la scena, andiamo lì e le presentiamo quella mia idea per una sceneggiatura sulla vita di sant’Ignazio di Loyola. Ho già il titolo: La marcia dei gesuiti coraggiosi, e poi…». «Senti Joe, alza il culo ed esci da questa stanza», sbottò Karras, mentre con un gesto nervoso schiacciava il mozzicone della sigaretta nel posacenere. «Lo trovi così noioso?». «Te l’ho detto, ho del lavoro da sbrigare». «Al diavolo, mica c’è qualcuno che ti trattiene!». «Andiamo, forza. Dico sul serio». Iniziò a sbottonarsi la camicia. «Mi faccio una doccia veloce, poi ho davvero da lavorare». «A proposito, non ti ho visto a cena», gli disse Dyer mentre controvoglia si alzava dal letto. «Dove hai mangiato?». «Non ho cenato». «È assurdo, perché dovresti seguire una dieta se tanto indossi sempre una tunica nera?». Si era avvicinato al tavolo e prese una sigaretta dal pacchetto. La portò al naso, annusandola. «Vecchia». «C’è un registratore per cassette qui nel nostro padiglione?». «Non c’è nemmeno un caramellina al limone qui, figurati. Però puoi provare al laboratorio di lingue». «Chi tiene le chiavi? Il padre rettore?». «No, il padre custode. Ne hai bisogno proprio stasera?». «Sì, stasera», rispose Karras mentre si sfilava la camicia e la poggiava sullo schienale della sedia. «Dove lo posso trovare?». «Vuoi che lo cerchi io?». «Lo faresti? Sono davvero impegnato adesso». «Non si affatichi, Grande e Venerabile Mastro Stregone Gesuita. Arrivo subito». Dyer aprì la porta e uscì dalla stanza. Dopo la doccia Karras indossò un paio di pantaloni e una T-shirt pulita. Quando prese posto alla scrivania, vi trovò un pacchetto immacolato di Camel senza filtro e accanto una chiave con un’etichetta: LABORATORIO DI LINGUA, insieme a un’altra: DISPENSA REFETTORIO. Attaccato a questa stava un bigliettino: Meglio a te che ai topi. Karras sorrise nel leggere la firma: Il ragazzino delle caramelle al limone. Mise via il foglietto, poi si sfilò dal polso l’orologio e lo poggiò sul tavolo, proprio di fronte a sé. Erano le 22 e 58. Cominciò a leggere. Freud, poi McCasland. Satan. L’esauriente e completo studio di Oesterreich. Poco dopo le 4 aveva terminato. Si strofinò la faccia, si passò le dita sugli occhi. Gli bruciavano. Buttò uno sguardo al posacenere, pieno di mozziconi schiacciati. Il fumo aleggiava denso a impregnare l’aria nella stanza. Si alzò ed esausto si diresse alla finestra. L’aprì. Inspirò a lungo l’aria fresca del primo mattino e rimase in piedi a riflettere. Regan aveva tutti i segni fisici della possessione, per quello che aveva potuto constatare. Su questo non aveva nessun dubbio. Caso dopo caso, indipendentemente dalla collocazione geografica o dal periodo storico, i sintomi della possessione restavano costanti. Alcuni erano assenti in Regan: le stigmate, il desiderio di cibi ripugnanti, l’insensibilità al dolore, il singhiozzo rumoroso e inestinguibile. Ma tutti gli altri si erano manifestati chiaramente: attività motoria involontaria e incontrollata, alito pestilenziale, lingua impastata, deperimento fisico, stomaco prominente, irritazione dell’epidermide e delle mucose. Inoltre, ancora più significativi, c’erano in Regan tutti i sintomi principali che Oesterreich annoverava tra le prove di “genuina” possessione nella gran parte dei casi studiati: l’impressionante mutazione della voce e dei lineamenti, accompagnata dal manifestarsi di una nuova personalità. Karras si riebbe e guardò giù, in fondo alla strada. Attraverso i rami degli alberi sul viale riusciva a scorgere la casa e l’ampia finestra a golfo della camera di Regan. Quando la possessione era un fenomeno autoprodotto, come nel caso dei medium, la nuova personalità era solitamente benevola. Come Tia, mormorò tra sé Karras. Lo spirito di una donna che si era impadronito del corpo di un uomo, uno scultore. Accadeva per periodi molto brevi, di circa un’ora. Fino a quando un amico dello scultore non se n’era perdutamente innamorato, e l’aveva pregato di trattenere Tia nel suo corpo per sempre. Ma nel corpo di Regan non c’è Tia, fu la cupa constatazione di Karras. La personalità che si era impossessata della bambina era maligna. Malevola. Tipico dei casi di possessione in cui la nuova personalità mirava a distruggere il corpo in cui era ospitata. E, spesso, raggiungeva il suo scopo. Abbattuto, il gesuita tornò alla scrivania, prese una sigaretta dal pacchetto e l’accese. Allora, va bene. La bambina ha una sindrome da possessione demoniaca. Adesso, vediamo, come si può curare? Con un movimento della mano spense il fiammifero. Tutto dipende da cosa c’è all’origine, dalle cause. Si appoggiò al bordo della scrivania, cercando di riflettere. Le suore del convento di Lille. Possedute. Era l’inizio del XVII secolo. Confessarono al loro esorcista che, disperate, perso il controllo di sé, durante gli stati di possessione avevano praticato con regolarità orge sataniche, combinando variamente i loro comportamenti erotici. Lunedì e martedì: accoppiamento eterosessuale; giovedì: sodomia, fellatio e cunnilingus in rapporti omosessuali; sabato: zoofilia con animali domestici e rapporti con dragoni. Con dragoni!… Il gesuita scosse la testa, perplesso. Come per Lille, era convinto che molti casi di possessione fossero generati da un miscuglio di truffa e mitomania. Altri, invece, sembravano derivare da disturbi di ordine psicologico: paranoia, schizofrenia, nevrastenia, psicastenia; ed era per questo motivo, lui lo sapeva bene, che la Chiesa per anni aveva ordinato che gli esorcismi fossero praticati in presenza di uno psichiatra o di un neurologo. Ma non per tutti i casi di possessione era possibile individuare chiaramente le cause. Molti di questi casi inspiegabili avevano spinto Oesterreich a collocare la possessione su un piano distinto e autonomo rispetto a tutti gli altri disturbi. L’intenzione era quella di rifiutare le spiegazioni troppo semplici di “sdoppiamento della personalità”, nozione che in sostanza rimaneva altrettanto oscura rispetto a concetti come “demone” o “spirito di un defunto”. Karras si accarezzò con un dito la fossetta tra il naso e la bocca. Le ipotesi dei medici della Barringer, a quanto le aveva detto Chris, vedevano come possibile causa del disturbo di Regan un processo di autosuggestione, in qualche modo collegato a una forma di isteria. Karras la pensava allo stesso modo. Era fermamente convinto che la maggior parte dei casi che aveva appena studiato fossero dovuti a questi due fattori. Sicuro. In primo luogo, il fenomeno colpisce soprattutto le donne. Inoltre, l’insorgere dei casi di possessione si diffonde in modo spesso epidemico. E poi gli esorcisti, insomma… Karras si fece scuro in volto. Molto spesso erano loro stessi a cadere vittima di possessione. Gli venne in mente il caso di Loudun, in Francia. Il convento delle suore Orsoline. Dei quattro esorcisti inviati dalla curia per contrastare un’epidemia di possessioni, tre (padre Lucas, padre Lactance e padre Tranquille) non soltanto divennero posseduti a loro volta, ma morirono poco dopo, a quanto pare per un improvviso shock. E il quarto, padre Surin, che aveva soltanto trentatré anni, impazzì e rimase in uno stato di follia per i restanti venticinque della sua vita. Annuì come per confermare i suoi stessi pensieri. Se il disturbo di Regan era legato all’isteria, se l’insorgere della possessione altro non era che il prodotto della sua suggestione, allora l’origine di tutto poteva essere soltanto in quel capitolo del libro sulla stregoneria. Il capitolo sulla possessione? La bambina l’ha letto oppure no? S’immerse di nuovo nella lettura. C’erano somiglianze strette tra i particolari descritti in quelle pagine e il comportamento di Regan? Questo potrebbe essere una prova decisiva. Potrebbe. Karras trovò delle somiglianze. …Il caso di una bambina di otto anni che così veniva descritta in quel capitolo: «muggiva come un toro con una voce tonante, profondamente bassa». (Quel verso cavernoso, quel muggire come un bue di Regan). …Il caso di Helene Smith, seguito dal grande psicologo Flournoy, che definì i mutamenti di voce e di lineamenti in diverse altre personalità «veloci come la luce». (La bambina l’ha fatto davanti ai miei occhi. La personalità che parlava con accento inglese. Un cambiamento veloce, istantaneo). …Un caso avvenuto in Sudafrica, di cui fu testimone oculare il famoso etnologo Junod; la sua descrizione di una donna che, scomparsa dalla propria casa una notte, fu ritrovata il giorno successivo «legata alla cima» di un enorme albero «con liane sottilissime», e che poi «era scivolata lungo il tronco, a testa in giù, mentre come un serpente sibilava e muoveva la lingua fuori e dentro la bocca. Rimase sospesa in quella posizione per diverso tempo, poi iniziò a parlare in una lingua che nessuno aveva mai sentito». (Regan che si muove strisciando come un serpente mentre insegue Sharon. Quel suo farfugliare. Forse proprio il tentativo di esprimersi in una lingua sconosciuta). …Il caso di Joseph e Thiebaut Burner, rispettivamente di otto e dieci anni, che «prima erano sdraiati supini e poi d’un tratto s’erano messi a girare come trottole a incredibile velocità». (Suona molto simile alle strane movenze di Regan, al suo girare su se stessa come un derviscio). C’erano diverse altre corrispondenze, altre ragioni ancora per sospettare che si trattasse di suggestione: una forza fisica straordinaria, volgarità nel lessico, episodi di possessione tratti dai Vangeli che molto probabilmente stavano alla base, giudicò Karras, degli insoliti deliri religiosi manifestati da Regan alla clinica Barringer. In aggiunta, il capitolo descriveva l’insorgere della possessione attraverso diversi stadi: «…il primo, infestazione, consiste in un attacco all’ambiente in cui la vittima vive (rumori, odori, spostamento di oggetti); il secondo, ossessione, in un’aggressione personale al soggetto in questione al fine di instillare in lui il terrore. Questo avviene attraverso le stesse strategie di offesa che un uomo userebbe contro un altro uomo: pugni, percosse, calci». (Quei colpi in soffitta. Gli scossoni del letto. Le aggressioni del capitano Howdy). Forse… forse la bambina lo aveva letto. Ma Karras non ne era convinto. Non del tutto… non del tutto. E poi Chris, anche lei era sembrata così dubbiosa. Andò nuovamente alla finestra. Insomma, qual è la soluzione? Possessione davvero? Un demone? Abbassò lo sguardo e scosse la testa. Non può essere. Non può essere. Fenomeni paranormali? Certo. Esistono, che c’è di strano? Troppi studiosi di chiara fama ne avevano parlato nei loro saggi. Medici. Psichiatri. Uomini del calibro di Junod. Ma il vero problema è come vengono interpretati. Ripensò al saggio di Oesterreich sullo sciamano di una comunità dei Monti Altai, in Siberia. Era entrato volontariamente in uno stato di possessione e aveva permesso di essere studiato clinicamente mentre gli accadeva un fenomeno apparentemente paranormale: la levitazione. Poco prima dell’evento, la sua frequenza cardiaca sfiorava i cento battiti al minuto, poi, dopo la levitazione, era sorprendentemente schizzata fino a raggiungere i duecento battiti. Sia la temperatura corporea che la respirazione avevano manifestato scompensi molto sensibili. Questo significava che l’attività paranormale del soggetto era legata a quella psichica. Originata da una qualche energia corporea o da una forza. Ma come prova di possessione la Chiesa pretendeva un chiaro e inequivocabile segnale esteriore che indicasse… Non riusciva a ricordare la formula esatta. Andò a cercarla sul libro, con l’indice che scorreva lungo la pagina. La trovò: «…fenomeni esteriori comprovabili che avvalorino l’idea di dipendere dall’interferenza straordinaria di un’intelligenza di natura non umana». Era questo il caso dello sciamano?, si chiese Karras. No, non era così. Ed era il caso di Regan? Passò a leggere un passo che aveva precedentemente sottolineato a matita: «L’esorcista deve in primo luogo prendere tutte le precauzioni affinché ogni manifestazione del paziente venga tenuta adeguatamente in conto…». Karras annuì. Okay, allora, vediamo di fare chiarezza. Camminando lentamente per la stanza, esaminò i sintomi della malattia di Regan e le relative possibili spiegazioni. Le selezionò mentalmente una a una. L’incredibile mutamento nei lineamenti del viso di Regan. In parte dovuto alla malattia. In parte alla denutrizione. Ancor di più, concluse, legato al fatto che la fisionomia altro non è che un’espressione della costituzione psichica. Qualunque cosa questa cazzata significhi!, aggiunse aspramente tra sé. L’incredibile mutamento nella voce di Regan. Non aveva mai sentito la sua voce prima. E anche se era acuta, come gli aveva detto sua madre, il continuo gridare avrebbe potuto mettere a dura prova l’integrità delle corde vocali, causando un abbassamento sensibile della voce. Il vero problema, considerò Karras, era il volume eccessivo di quella voce: anche con un ingrossamento delle corde vocali non sarebbe stato possibile sul piano fisiologico. C’era però da aggiungere che in condizioni di particolare ansia o in determinati stati patologici il manifestarsi di capacità fuori dall’ordinario, che andavano oltre le potenzialità della forza muscolare, era abbastanza comune. Non era possibile forse che anche le corde vocali e l’apparato fonatorio fossero soggetti a simili misteriosi effetti? L’improvviso arricchimento del vocabolario e delle conoscenze della bambina. Criptomnesia: un serbatoio nascosto di ricordi, di parole e informazioni con cui almeno una volta la bambina era entrata in contatto, probabilmente anche durante l’infanzia. Nei soggetti affetti da sonnambulismo, e spesso in persone sul punto di morte, queste informazioni sepolte nella memoria riaffioravano con fedeltà quasi fotografica. Il fatto che Regan lo avesse riconosciuto come prete. Un colpo di fortuna. Se veramente aveva letto il capitolo sulle possessioni, sicuramente si aspettava la visita di un sacerdote. Inoltre, secondo il parere di Jung, la sensibilità e la ricettività inconscia in pazienti affetti da isteria poteva acuirsi anche di cinquanta volte rispetto alla condizione normale. A questo si dovrebbe aggiungere anche l’apparentemente autentica capacità di “leggere il pensiero” mostrata dai medium attraverso i colpi sui tavolini. In realtà, ciò che l’inconscio dei medium effettivamente “legge” altro non sono che i tremori e le vibrazioni impressi sul tavolino dalle mani della persona i cui pensieri dovrebbero venir letti. Queste vibrazioni vanno a creare una combinazione di lettere e numeri. Allo stesso modo, era plausibile pensare che Regan avesse “letto” la sua identità attraverso il suo atteggiamento, l’aspetto delle sue mani curate, il profumo del vino consacrato. Il fatto che Regan fosse a conoscenza della morte di sua madre. Un colpo di fortuna. Del resto, lui aveva quarantasei anni. «Un aiuto a un vecchio chierichetto, padre?». I libri di testo adottati nei seminari cattolici accettavano la telepatia sia come dato di fatto che come fenomeno naturale. La precocità intellettuale di Regan. Durante l’osservazione diretta di un caso di personalità multipla con implicati fenomeni di presunta natura occulta, lo psichiatra Jung arrivò alla conclusione che in stati di sonnambulismo isterico, non solo le percezioni sensibili inconsce ma anche le funzioni intellettuali si potenziano. Nel caso clinico in questione la nuova personalità sembrava chiaramente possedere un quoziente intellettivo molto più alto. Già, si chiedeva Karras, ma il fatto di riportare semplicemente un evento poteva anche spiegarlo? D’un tratto smise di camminare e si fermò vicino alla scrivania: all’improvviso gli era tornato in mente il gioco di parole che Regan aveva fatto quel pomeriggio riguardo a Erode. In realtà si trattava di qualcosa di molto più complicato di quanto avesse pensato in un primo tempo. Quando i farisei avevano riferito a Gesù delle minacce di Erode, ricostruì Karras, Cristo aveva risposto loro: «Andate e dite a quella volpe: ecco, io sono colui che scaccia i demoni…». Lo sguardo andò alla cassetta con la voce registrata di Regan. Karras si sedette stancamente alla scrivania. Accese un’altra sigaretta… soffiò via il fumo della prima boccata… ripensò ancora ai due fratellini, i Burner; al caso di quella bambina di otto anni che aveva manifestato tutti i sintomi di una completa possessione. Che libro poteva aver letto quella bambina, quale libro che avesse reso la sua mente capace di simulare i sintomi con una tale precisione? E come poteva l’inconscio delle vittime possedute cinesi comunicare i sintomi con l’inconscio dei posseduti in Siberia, in Germania, in Africa visto che i sintomi erano sempre gli stessi? «A proposito, tua madre è qui con noi, Karras …». Senza riuscire più a vedere, guardò il fumo della sua sigaretta salire, attorcigliarsi come i flebili fili della memoria. Il prete si abbandonò sulla sedia, osservando il cassetto in basso a sinistra della sua scrivania. Lo fissò per qualche istante. Poi, lentamente, si chinò per aprirlo e ne estrasse un quaderno sgualcito, un vecchio quaderno di scuola. Un corso per adulti. Era di sua madre. Lo posò sulla scrivania e prese a sfogliare le pagine con delicatezza. Lettere dall’alfabeto, solo lettere, ancora e ancora. Poi esercizi molto semplici: LEZIONE NUMERO VI IL MIO INDIRIZZO Nascosto tra le pagine, un tentativo di lettera:
CARO DIMMY, TI HO ASPETTATO.
Poi ancora un altro inizio. Incompleto. Karras distolse lo sguardo. Vide gli occhi di sua madre alla finestra, in attesa… «Domine, non sum dignus…». Poi quegli occhi divennero gli occhi di Regan… occhi urlanti… occhi in attesa… «Ma di’ soltanto una parola …». Guardò nuovamente la cassetta con la voce di Regan. Lasciò la sua stanza, portandola con sé. Raggiunse il laboratorio linguistico. Trovò il registratore. Si sedette e inserì il nastro su una bobina libera. Indossò le cuffie. Fece partire il lettore. Si chinò in avanti e ascoltò. Esausto. Concentrato. Per qualche istante ci fu solo un prolungato fruscio. Il crepitio del meccanismo. Poi, all’improvviso, il colpo sordo dell’inizio della registrazione. Rumori di fondo. «Ciao…». Un commento in tono lamentoso. La voce di Chris MacNeil, sommessa, in sottofondo. «Non così vicina al microfono, tesoro. Tienilo un po’ più lontano». «Così?». «No, ancora di più». «Così?». «Sì, ecco. Ora vai avanti, parla». Una risatina d’imbarazzo. Il microfono che sbatte sul tavolo. Poi la vocina dolce e delicata di Regan MacNeil: «Ciao papà! Sono io, mmh…». Ancora una risatina, poi un sussurro: «Non mi viene niente, mamma!». «Oh, digli solo come stai, piccola. Raccontagli tutte le cose belle che stai facendo». Un’altra risatina, poi: «Mmh, papà… allora, vediamo… Ecco, spero che riesci a sentirmi, bene, e mmh… allora… Ecco, per prima cosa, siamo… no, aspetta, adesso… sì, ecco, adesso siamo a Washington, lo sapevi? Insomma, dove vive il presidente e c’è quella casa, lo sai papà?, la casa… no, aspetta, forse è meglio che ricomincio. Ecco, papà, ci sono tante cose…». Karras ascoltò il resto distrattamente, come da lontano, confuso dal fluire del sangue che poteva sentire nelle orecchie, lo stesso rumore del mare in tempesta, mentre un’intuizione gli s’infrangeva come un’onda nella testa e nel petto: la cosa che ho visto in quella stanza non era Regan MacNeil! Tornò alla palazzina. Trovò libera una piccola cappella e disse messa prima che cominciasse il via vai dei confratelli. Quando sollevò l’ostia per la consacrazione, le tremò tra le dita con un moto di speranza che non osava sperare, che rifuggiva con ogni singola particella della sua volontà. «Questo è il mio corpo, fate questo…», mormorò con voce tremante. No, questo è pane! Nient’altro che pane, acqua e farina! Non osava più amare, non osava più amare col rischio di perdere quell’amore. La perdita era troppo grande, il dolore troppo acuto, vivo, feroce. Chinò il capo e ingoiò l’ostia, senza masticare, come fosse un’illusione perduta. Per un istante, rimase incastrata nell’aridità della gola. Dopo la messa saltò la colazione. Preparò alcune note per la lezione. Andò nella sua aula alla facoltà di medicina della Georgetown. Imbastì un discorso, seguendo con voce rauca la scaletta dei suoi appunti: «…osservando i sintomi dei disturbi maniacali, potete riscontrare…». «Papà, sono io… sono io». Ma chi era “Io”? Karras licenziò i suoi studenti in anticipo e tornò nella sua stanza. Subito si raccolse alla sua scrivania e, i palmi delle mani premuti sul tavolo, cominciò a riesaminare con attenzione le indicazione della Chiesa sui segni paranormali della possessione demoniaca. Non sarò stato troppo cocciuto?, si chiese. Ricontrollò i passaggi più importanti di Satan: «telepatia… fenomeni naturali… il movimento a distanza di oggetti… dal corpo possono essere emanati o secreti diversi tipi di liquidi… i nostri antenati… la scienza… attualmente occorre essere molto più cauti. Anche in presenza di fenomeni paranormali, comunque…». Prese a leggere più lentamente. «…tutte le conversazioni intrattenute col paziente devono essere attentamente analizzate, per verificare che presentino lo stesso modello di associazione di idee e le abitudini logico-grammaticali manifestate dal paziente in condizioni normali. Se ciò dovesse verificarsi, la possessione può ritenersi sospetta». Karras fece un lungo respiro. Era esausto. Mandò fuori l’aria. Inclinò la testa. Niente da fare. Non quadra. Fissò l’immagine sulla pagina che aveva davanti. Un demone. Il suo sguardo si spostò lentamente sulla didascalia: Pazuzu. Il sacerdote chiuse gli occhi. C’era qualcosa che non andava. Padre Tranquille… Si figurò la scena della morte dell’esorcista, la sua lenta agonia… quel muggire violento… il sibilare del serpente… il vomito continuo… i suoi “demoni”, che dal letto lo avevano gettato sul pavimento, furiosi perché tra poco sarebbe morto e perciò non avrebbero più potuto tormentarlo. E Lucas! Lucas. In ginocchio accanto al letto. In preghiera. Ma non appena Tranquille ebbe esalato l’ultimo respiro, Lucas assunse all’istante l’identità dei suoi demoni, cominciò a scalciare violentemente contro il corpo ancora caldo del morto. Quel corpo distrutto, imbrattato di vomito ed escrementi. Sei uomini cercavano di trattenerlo, ma lui non cessò di agitarsi fino a quando il cadavere non venne trasportato fuori dalla stanza. Karras vide tutto. Vide tutta la scena, la vide chiaramente. Possibile? Davvero una cosa del genere è potuta accadere? Davvero l’unica speranza per Regan era un esorcismo? Sarebbe toccato a lui aprire questo scrigno di dolore? Non riusciva a liberarsi di quel pensiero. Non poteva lasciare la cosa intentata. Doveva sapere, capire. Ma come? Riaprì gli occhi. «…le conversazioni intrattenute con il paziente devono essere attentamente analizzate…». Sì, sì, perché non avrebbe dovuto tentare? Se avesse scoperto che le strutture dei discorsi di Regan e quelle del “demone” erano le stesse, questo avrebbe escluso la possessione nonostante i fenomeni paranormali, quindi allora… Certo… forti differenze avrebbero invece indicato una possibile possessione! Riprese a camminare su e giù per la stanza. Che altro? Che altro? Rapidamente, qualcos’altro. Lei… aspetta! Si fermò, lo sguardo fisso sul pavimento, le mani incrociate dietro la schiena. Quella sezione, quel capitolo nel libro sulla stregoneria. C’era qualcosa in quelle pagine, un accenno…? Sì, c’era: i demoni reagiscono invariabilmente con furia e rabbia se messi di fronte a un’ostia consacrata, a oggetti sacri… a… Acqua benedetta! Certo! Ecco cosa cercavo! Andrò in quella stanza e cospargerò la bambina di acqua del rubinetto, ma le dirò che è acqua benedetta! Sicuro! Se reagirà nel modo in cui dovrebbe reagire un demone, avrò la certezza che non è posseduta… che i sintomi sono soltanto una forma di autosuggestione… che ha trovato tutto nel libro! Ma se la bambina non reagisce così, allora vorrebbe dire… Autentica possessione? Forse… Con un’ansia febbricitante prese a rovistare tra le sue cose. Cercava la fiala per l’acqua benedetta. Willie lo fece entrare in casa. Già all’ingresso, il sacerdote sollevò lo sguardo verso la camera di Regan. Grida. Parole oscene. Ora però non venivano pronunciate con la voce profonda, cavernosa del demone. Una voce acuta, stridula, più leggera. Marcato accento inglese… Sì!… La personalità che si era manifestata solo per un attimo l’ultima volta che aveva visto Regan. Karras riportò lo sguardo sulla domestica, in attesa davanti a lui. Willie fissava confusa la collarina del sacerdote, i suoi abiti da prete. «Dov’è la signora MacNeil, per favore?», le chiese Karras. Willie, con un cenno della testa, indicò le scale. «Grazie». Karras salì al piano di sopra. Trovò Chris nel corridoio. Sedeva su una sedia accanto alla porta della stanza di Regan, a capo chino, le braccia incrociate sul petto. Mentre il prete si avvicinava a lei, Chris sentì il frusciare della sua tonaca. Sollevò il viso e si alzò di scatto dalla sedia. «Salve, padre». Profonde occhiaie blu cerchiavano i suoi occhi. Karras la guardò costernato. «Ha dormito?». «Oh, solo un po’». Lui scosse la testa in un gesto di disapprovazione. «Non ce l’ho fatta», gli disse Chris sospirando e accennando con la testa alla stanza della bambina. «Ha gridato così per tutta la notte». «Ha vomitato?». «No». Lo afferrò per una manica, come per allontanarlo da lì. «Venga, andiamo in cucina così possiamo parlare…». «No, preferirei vedere Regan», la interrupe lui con gentilezza. Cercò di resistere alla tenace insistenza di quella mano che cercava di portarlo via da lì.
«Proprio ora?». Qualcosa non andava, pensò Karras. Avvertiva la tensione della donna. La paura. «Perché non ora?», chiese. Chris lanciò uno sguardo sfuggente verso la porta della stanza. Dall’interno giungeva quella folle voce aspra: «Nazista del cazzo! Puttana nazista!». Chris distolse lo sguardo, poi con angoscia annuì. «Avanti. Entri pure». «Ha un registratore in casa?». Gli occhi di Chris cercavano quelli del sacerdote con movimenti rapidissimi, con piccoli scatti. «Potrebbe farlo portare nella stanza insieme a una cassetta nuova, per favore?». Chris aggrottò le sopracciglia, sospettosa. «Per fare cosa?». Poi ci fu allarme nei suoi occhi. «Mi sta dicendo che vuole registrare…?». «Sì. È molto imp…». «Padre, non posso lasciarle fare…!». «Ho bisogno di mettere a confronto le strutture dei discorsi», la interruppe con decisione Karras. «Adesso, per favore, si calmi! Deve soltanto fidarsi di me!». Si girarono entrambi verso la porta quando un feroce torrente di volgarità sembrò letteralmente spingere Karl fuori dalla stanza. Col volto pallido come cenere, sconvolto, il domestico stava portando fuori lenzuola e biancheria sporche. «Gliele hai messe, Karl?», chiese Chris quando lo svizzero ebbe chiuso la porta dietro di sé. Karl lanciò uno sguardo fugace a Karras, poi a Chris. «Ci sono riuscito», rispose secco, e rapidamente attraversò il corridoio diretto alle scale. Chris lo guardò allontanarsi. Poi si voltò nuovamente verso Karras. «Va bene», disse stancamente. «Va bene. Lo farò portare in camera». D’un tratto si diresse al piano di sotto. Per un istante, Karras la osservò. Era confuso. Cosa c’era che non andava? Allora si accorse dell’improvviso silenzio nella stanza. Durò un momento. Poi il guaire di una risata diabolica. Karras si avvicinò. Tastò la boccetta di acqua benedetta che teneva in tasca. Aprì la porta ed entrò nella camera. La puzza era tremenda, molto più forte della sera prima. Il sacerdote chiuse la porta. Rimase immobile a guardare il letto. L’orrore. Quella cosa. Mentre Karras si faceva avanti, la cosa lo osservava con occhi beffardi. Pieni di astuzia. Pieni di odio. Pieni di potenza. «Ciao, Karras». Il prete udì il rumore di una scarica di diarrea nel pannolone di plastica. Parlò lentamente dal fondo del letto. «Ciao, diavolo. Come stai oggi?». «Al momento, davvero felice di vederti. Molto contento». La lingua schizzò fuori dalla bocca sibilando, gli occhi osservavano con insolenza la figura del sacerdote. «Vedo che sei venuto in uniforme. Molto bene». Ancora un rimbombo dallo stomaco. «Non ti crea problema un po’ di puzza, vero, Karras?». «No, per niente». «Sei un bugiardo!». «Ti disturba che lo sia?». «Moderatamente». «Ma al diavolo piacciono tanto i bugiardi». «Solo quelli veramente in gamba, caro Karras, solo quelli in gamba», rispose ridendo. «E poi, chi ti ha detto che sono il diavolo?». «Non l’hai detto tu?». «Oh, potrei averlo fatto. Potrei. Non mi sento troppo bene. Mi hai creduto?». «Certo». «Ti porgo le mie scuse». «Mi stai dicendo che non sei il diavolo?». «Solo un povero demone, un principiante. Un diavolo. Una differenza molto sottile, ma di quelle non trascurabili per il Nostro Padrone lassù all’inferno. A proposito, non gli racconterai di questo mio lapsus, eh, Karras, quando lo incontrerai? Non lo farai, vero?». «Incontrarlo? Perché, è qui?», chiese il prete. «Dentro la troietta? No, no davvero. Qui c’è solo una povera famigliola di anime vaganti, niente di più, amico. Non ce ne fai una colpa, vero, di essere qui? Dopo tutto, non abbiamo un posto dove andare. Siamo senza casa». «E quanto avete progettato di trattenervi da queste parti?». La testa si sollevò improvvisamente dal cuscino, la rabbia contorceva i lineamenti del volto, poi un ruggito: «Fino a quando la troietta non sarà morta!». Con la stessa fulminea rapidità sul volto della bambina tornò quell’espressione di scherno, le labbra gonfie serrate in un ghigno beffardo. «E poi, detto tra noi, che giorno meraviglioso per un esorcismo, Karras». Il libro! Sicuro, doveva averlo letto nel libro! Quegli occhi maliziosi lo fissavano con sarcasmo. «Comincia al più presto. Molto presto». Troppe incongruenze. Qualcosa che non va. «Ti farebbe piacere?». «Un piacere intenso». «Però un esorcismo ti scaccerebbe dal corpo di Regan, o sbaglio?». Il demone rovesciò la testa all’indietro esplodendo in una risata folle, poi all’improvviso cessò. «Ci farebbe tornare insieme, piuttosto». «Tu e Regan?». «Tu e noi, mio caro amico», gracchiò. «Tu e noi». Un’altra risata rimbombò dalle profondità della gola. Karras rimase immobile a osservare. Sentì delle mani che gli sfioravano la base del collo. Fredde come il ghiaccio. Un tocco leggero, delicato. Dopo un istante più nulla. È la paura, si disse infine. Paura. Paura di cosa? «Sì, verrai a far parte della nostra allegra famiglia, Karras. Vedi, bel bocconcino, il problema con i segni del cielo è che, una volta che li hai visti, non ci sono più scuse o vie d’uscita. Ti sei accorto che negli ultimi tempi si sente sempre meno parlare di miracoli? Non è colpa nostra, Karras! Non prendertela con noi! Noi ci proviamo, facciamo del nostro meglio!». Karras si voltò di scatto udendo un fortissimo colpo sordo alle sue spalle. Un cassetto della scrivania si era aperto da solo, di botto, per tutta la sua lunghezza. Un brivido veloce percorse la schiena del sacerdote quando vide il cassetto rientrare, richiudersi rumorosamente. Ecco! Una prova! In un istante però la sua eccitazione svanì, cadendo come da un albero un pezzo di corteccia marcita. Psicocinesi. Karras sentì ridacchiare. Si voltò nuovamente verso il letto. «Davvero un piacere chiacchierare con te, Karras», disse il demone, quel sorriso sempre stampato sul viso. «Mi sento libero. Come fossi senza freni, riesco a spalancare le mie enormi ali. A dire il vero, anche il mio parlarti così servirà soltanto a rendere più grande la tua dannazione, caro professore, caro il mio piccolo e sfortunato dottore». «Sei stato tu? Sei stato tu a far muovere il cassetto?». Il demone non ascoltava. Stava guardando fisso in direzione della porta, in direzione di un rumore di passi, qualcuno che si avvicinava velocemente attraverso il corridoio. D’un tratto i lineamenti mutarono, diventando quelli di un’altra personalità. «Macellaio! Bastardo! Dannato bastardo!». Gridò con la stessa voce aspra di prima, con quel forte, marcato accento inglese. «Barbaro del cazzo, crucco di merda!». Dalla porta si fece avanti Karl, a passi rapidi, portando il registratore. Lo posò accanto al letto, evitando di sollevare lo sguardo; poi indietreggiò velocemente, riguadagnando l’uscita. «Fuori da qui, Himmler! Levati di mezzo, sparisci! Vattene, vai a trovare tua figlia, quella col piede equino! Portale dei sauerkraut! Sauerkraut ed eroina, che ne dici, Thorndike! Sarà felicissima! Sarà…». Andato. Karl se ne era andato. E, all’improvviso, la cosa che abitava Regan divenne cortese, gentile; continuava a fissare Karras mentre il prete con movimenti rapidi prendeva il registratore, cercava una presa elettrica, lo collegava, infilava la cassetta vergine. «Oh, sì, ecco ecco ecco… che combini?», disse giocosamente. «Ci mettiamo a registrare qualcosa, padre6? Carino, ci divertiremo! Oh, io poi adoro recitare, lo sai! Oh, da morire! Immensamente!». «Io sono Damien Karras», disse il sacerdote dopo aver acceso l’appareccchio. «E tu chi sei?». «Mi chiedi le referenze, dottorino? Quanta impertinenza da parte tua, non trovi?». Una risatina. «Facevo Puck alla recita delle elementari». Si guardò intorno. «Ehi, a proposito, dove trovo qualcosa da bere? Ho la gola secca». Karras si avvicinò e delicatamente poggiò il microfono sul comodino. «Se mi dici il tuo nome, proverò a rimediarti un bicchierino». «Sì, certo», rispose ridacchiando. «E poi te lo berrai tu, immagino». Karras premette il tasto della registrazione, poi continuò: «Dimmi il tuo nome». «Sei un imbroglione del cazzo, Karras!», disse con voce stridula. Di colpo quella personalità sparì e di nuovo tornò il demone. «E ora cosa facciamo, Karras? Registriamo la nostra piccola discussione?». Karras si alzò, gli occhi fissi sulla cosa. Poi prese una sedia, la portò vicino al letto e sedette. «Ti dispiace se lo faccio?», chiese. «Per nulla», gracchiò il demone. «Mi sono sempre piaciute tanto, queste macchinette infernali». Di colpo una puzza nuova, intensa, penetrante investì Karras. Era un odore come di… «Sauerkraut, Karras. Lo senti?». È davvero odore di sauerkraut, si meravigliò il sacerdote. Sembrava provenire dal letto. Dal corpo di Regan. Poi sparì, sostituito dalla puzza precedente. Karras si accigliò. Me la sono soltanto immaginata? Autosuggestione? Gli tornò in mente l’acqua benedetta che teneva nel tasca. Ora? No, conservala per dopo. Cerca di avere un campione più consistente di discorso. «Con chi stavo parlando poco fa?», chiese. «Uno della famiglia, Karras, niente di più». «Un demone». «Gli dai troppa importanza». «Come sarebbe?». «La parola “demone” significa ‘saggio’. Lui invece è un idiota». Il gesuita sentì la tensione aumentare. «In che lingua “demone” significa ‘saggio’?». «In greco». «Parli il greco?». «Abbastanza bene». Un’altra prova!, pensò Karras in preda all’eccitazione. Comunicare in una lingua sconosciuta! Era più di quanto avesse sperato. «Pos egnokas hoti presbyteros eimi?», chiese prontamente in greco antico. «Non sono dell’umore adatto, Karras». «Oh, capisco. Insomma non sai…». «Non sono dell’umore adatto!». Delusione. Karras si fece pensieroso. «Sei stato tu a far muovere il cassetto della scrivania?», chiese. «Senza ombra di dubbio». «Davvero di grande effetto», annuì Karras. «Sicuramente devi essere un demone molto, molto potente». «Sì che lo sono». «Mi chiedevo se potevi farlo di nuovo». «Certo, a tempo debito». «Fallo ora, per favore, mi piacerebbe davvero tanto vederlo di nuovo». «A tempo debito». «Perché non ora?». «Dobbiamo darti qualche motivo per dubitare ancora», disse il demone con voce stridula. «Qualche motivo. Quello che basta per garantire il successo finale». Gettò la testa all’indietro ridendo maliziosamente. «Che novità attaccarti dicendoti la verità! Oh, che soddisfazione!». Sentì delle mani gelide sfiorargli la base del collo. Lo sguardo di Karras rimase immobile. Perché di nuovo la paura? Paura? Era davvero paura? «No, non era la paura», disse il demone. Adesso sorrideva. «Sono stato io». Le mani non c’erano più. Un brivido percorse la schiena del prete. Uno stupore del tutto nuovo s’impadronì di lui. Cercò di riprendersi. Telepatia? O è lei? Scoprilo. Devi scoprirlo subito. «Sai dirmi cosa sto pensando in questo momento?». «I tuoi pensieri sono troppo monotoni per divertirmi». «Allora non sei in grado di leggere la mia mente». «Se preferisci pensala pure così… se proprio vuoi». Provare con l’acqua benedetta? Adesso? Sentì il fruscio del registratore. Non ancora. Continua a scavare, vai in profondità. Prendi qualche altro esempio di discorso. «Sei una persona davvero affascinante», disse Karras. Regan sogghignava. «Oh, no, dico davvero», aggiunse Karras. «Vorrei solo sapere qualcosa in più sul tuo conto. Per esempio, non mi hai mai detto chi sei». «Un diavolo», tuonò il demone. «Sì, questo lo so, ma quale diavolo? Qual è il tuo nome?». «Andiamo, Karras, che importanza ha un nome? Non preoccuparti di come mi chiamo. Chiamami Howdy, se questo ti fa sentire a tuo agio». «Oh, sì, certo. Il capitano Howdy», disse Karras annuendo. «L’amico di Regan». «Un amico molto molto stretto». «Ah, davvero?». «Sicuro». «Ma allora perché la tormenti così?». «Perché sono suo amico, e alla troietta piace molto!». «Le piace?». «Lo adora». «Dimmi perché». «Chiedilo a lei!». «Le permetterai di rispondermi?». «No». «Allora quale sarebbe il vantaggio nel chiederlo direttamente a lei?». «Nessuno!». Gli occhi del demone erano colmi di cattiveria. «Chi è la persona con cui parlavo prima?», chiese Karras. «Me l’hai già chiesto». «Lo so, ma tu non mi hai dato nessuna risposta». «Soltanto un altro amichetto della piccola, dolcissima troietta, caro Karras». «Posso parlare nuovamente con lui?». «No. Ha da fare con tua madre. Lei gli sta succhiando il cazzo, Karras, tutto il cazzo fino ai coglioni!». Rise piano, un riso sommesso; poi aggiunse: «Lingua fantastica, tua madre, davvero una boccuccia deliziosa». Continuava a fissare Karras con un sorriso beffardo. Il sacerdote sentì la rabbia montare dentro di sé, una scossa di odio che, realizzò subito, era diretta non verso Regan ma verso il demone. Il demone? Che cazzo ti prende, Karras? Riuscì a fatica a ritrovare la calma, fece un lungo respiro, poi si alzò per prendere la boccetta di acqua benedetta dalla tasca. Svitò il tappo. Il demone lo guardò con diffidenza. «Cos’è?». «Non lo sai?», chiese Karras. Il suo pollice copriva per metà l’imboccatura della bottiglietta. Cominciò a spargere il contenuto sul corpo di Regan. «Acqua benedetta, diavolo». Immediatamente il demone prese a contorcersi, agitarsi, urlare in preda al terrore, percorso dal dolore: «Brucia! Brucia! Ah, smettila, finiscila, bastardo d’un prete! Finiscila!». Impassibile, Karras smise. Isteria. Suggestione. Aveva di sicuro letto il libro. Spostò lo sguardo in direzione del registratore. Perché insistere? Si accorse all’improvviso del silenzio calato nella stanza. Guardò Regan. Aggrottò la fronte. Che cos’era? Che stava succedendo? La personalità demoniaca era scomparsa e al suo posto c’erano altre fattezze, piuttosto simili. Eppure differenti. Gli occhi rovesciati all’indietro, lasciavano vedere tutto il bianco. Stava mormorando qualcosa, con un tono morbido, un filo di voce. Un delirio, frasi senza senso. Karras si spostò verso il lato del letto, facendosi avanti per ascoltare. Cos’era? Forse niente. Eppure… C’è un ritmo, una cadenza. Sembra un linguaggio. Potrebbe essere così? Sentì nello stomaco come un frullio di ali, cercò di fermarle, le afferò strette, le immobilizzò. Andiamo, non essere stupido! Eppure… Controllò l’indicatore del volume sul registratore. Non lampeggiava. Schiacciò il pulsante dell’amplificazione e provò a concentrarsi per ascoltare, avvicinando l’orecchio alle labbra di Regan. Quel borbottio confuso terminò e al suo posto cominciò un respiro pesante, stridulo e profondo. Karras si drizzò in piedi. «Chi sei?», domandò. «Onussenonos», rispose la creatura. Un lamento biascicato. Un lamento di dolore. Il bianco degli occhi. Le palpebre che sbattono freneticamente. «Onussenonos». La voce rotta, strascicata, ansimante, simile all’anima della sua proprietaria, sembrava provenire da una prigione di ombra, da uno spazio nascosto che si trovava oltre il tempo. «È questo il tuo nome?», domandò Karras aggrottando la fronte. Le labbra si mossero appena, sillabarono febbricitanti qualcosa, lentamente. Qualcosa di incomprensibile. In breve furono di nuovo immobili. «Riesci a capire quello che dico?». Silenzio. Solo il respiro profondo. Un suono attutito, strano, inquietante, quasi provenisse da una persona addormentata sotto una tenda per l’ossigeno. Il gesuita rimase in attesa. Sperava in qualcosa di più. Non arrivò nulla. Riavvolse la cassetta, la estrasse, poi rimise il registratore nella custodia e lo prese con sé. Rivolse un ultimo sguardo a Regan. Troppe questioni in sospeso, non era convinto di nulla. Uscì dalla camera e raggiunse il piano di sotto. Trovò Chris in cucina. Sedeva al tavolo con Sharon, sorseggiando del caffè. Entrambe erano scure in volto. Quando lo videro entrare, sollevarono gli occhi verso di lui con un atteggiamento insieme interrogativo e speranzoso. Chris disse con calma a Sharon: «Meglio andare a controllare Regan. Va bene?». La ragazza bevve un ultimo sorso di caffè, annuì in direzione di Karras e si avviò. Esausto, il sacerdote prese posto al tavolo. «Allora, che succede?», gli chiese Chris cercando di incontrare i suoi occhi. Sul punto di risponderle, Karras si fermò quando Karl entrò lentamente dalla dispensa e si avvicinò al lavandino per lavare i piatti. Chris seguì lo sguardo del sacerdote. «Va bene», gli disse dolcemente. «Parli pure. Ha scoperto qualcosa?». «Si sono manifestate due personalità che ancora non avevo visto. Ecco, in realtà una credo di averla già vista in precedenza, ma solo per un istante. Quella che parla con un forte accento inglese. È qualcuno che conosce?». «È importante?», domandò Chris. Di nuovo quella strana tensione, Karras poteva leggergliela nel viso. «Sì, è importante». Chris abbassò lo sguardo e annuì. «Sì, è qualcuno che conoscevo». «Chi?». Sollevò lo sguardo. «Burke Dennings». «Il regista?». «Sì». «Il regista che…». «Sì», lo interruppe. Il gesuita rimase un momento in silenzio, riflettendo sulla sua risposta. Vide le dita della donna contrarsi, irrigidirsi. «Le posso offrire qualcosa, padre, del caffè?». Il sacerdote scosse la testa. «No, la ringrazio». I gomiti poggiati sul tavolo, si sporse in avanti. «Regan lo conosceva?». «Sì». «E…». Un frastuono. Sorpresa, Chris ebbe un sussulto. Poi si voltò e vide che Karl aveva fatto cadere una pentola e ora si era chinato per raccoglierla. Come si alzò, gli sfuggì di mano ancora una volta. «Dio santissimo, Karl!». «Chiedo scusa, signora». «Forza, Karl, esci da qui! Vai a vederti un film, vai a farti un giro! Non possiamo stare tutti qui rinchiusi in casa!». Di nuovo si girò verso Karras, poi prese un pacchetto di sigarette e lo sbatté con furia sul tavolo quando Karl si mise a protestare: «No, io devo…». «No, Karl, fuori di qui adesso, dico sul serio!», sbottò Chris nervosa, alzando la voce senza neanche guardarlo. «Fuori! Ti chiedo soltanto di stare fuori da questa casa per un po’! Dobbiamo cominciare tutti a stare un po’ fuori casa! Adesso però vai!». «Sì, adesso vai», le fece eco Willie entrando e prendendo dalle mani di Karl la pentola. Irritata, lo spinse contro la porta della dispensa. Karl lanciò una rapida occhiata a Karras, poi a Chris; infine uscì dalla stanza. «Mi dispiace, padre», mormorò Chris per scusarsi. «Negli ultimi giorni ha passato dei brutti momenti». «Aveva ragione lei», rispose Karras comprensivo. Prese i fiammiferi e le accese la sigaretta. «Dovete fare tutti uno sforzo per uscire un po’ di casa. Anche lei, soprattutto lei». «Allora, cos’ha detto Burke?», chiese Chris. «Solo volgarità», rispose Karras scrollando le spalle. «Tutto qui?». Colse una nota di paura nella sua voce. «Be’, ne ha dette davvero tante», rispose. Poi abbassò la voce e proseguì: «A proposito, Karl ha una figlia?». «Una figlia? No, o almeno non che io sappia. O se dovesse averla, sono certa che non ne abbia mai parlato». «Ne è sicura?». Willie stava ripulendo il lavandino. Chris si rivolse a lei. «Non avete una figlia, vero, Willie?». «È morta, signora, tanto tempo fa». «Oh, mi dispiace, non lo sapevo». Chris si girò di nuovo verso Karras. «Questa è la prima volta che ne sento parlare», mormorò. «Ma perché mi fa questa domanda? Lei come faceva a saperlo?». «Regan. Ne ha parlato lei», disse Karras. Chris sgranò gli occhi. «La bambina ha mai dato segni di possedere capacità extrasensoriali?», chiese. «Intendo dire prima di adesso». «Ecco…». Chris esitò un istante. «Ecco, non lo so, non ne sono sicura. Insomma, tante volte sembra che lei stia pensando esattamente quello che penso io, ma in fondo non è una cosa abbastanza comune tra persone molto legate tra loro?». Karras annuì, pensieroso. «Allora, l’altra personalità di cui parlavo», cominciò, «è la stessa che si è manifestata durante la seduta di ipnosi?». «Borbotta cosa incomprensibili?». «Sì. Di chi si tratta?». «Non lo so». «Non le è per nulla familiare?». «Per nulla». «Ha richiesto le cartelle cliniche alla Barringer?». «Sì, arriveranno nel pomeriggio. Le hanno spedite per posta aerea direttamente al suo indirizzo, padre». Chris prese un lungo sorso di caffè. «È stato l’unico modo per averle, non volevano lasciarmele. E anche così, è stato un casino». «Sì, avevo immaginato che le avrebbero fatto dei problemi». «Infatti, è stato difficile. Ma le arriveranno presto». Ancora un sorso di caffè. «Adesso, padre, mi parli della questione dell’esorcismo». Karras chinò il capo, poi sospirò profondamente. «Ecco, non sono così fiducioso di poterlo far accettare dal vescovo». «Cosa vuol dire “non così fiducioso”?». Poggiò la tazza e un’espressione di ansia le comparve sul viso. Il sacerdote infilò la mano nella tasca ed estrasse la boccetta, tenendola tra le dita per mostrarla a Chris. «Vede questa bottiglietta?». Lei annuì. «Ho detto a Regan che si trattava di acqua benedetta», le spiegò Karras. «E quando ho cominciato a spargerla sul suo corpo, ha reagito in maniera incredibilmente violenta». «Quindi? Che significa?». «Questa non è acqua benedetta. E normalissima acqua di rubinetto». «Forse alcuni demoni non conoscono la differenza». «Lei crede davvero che ci sia un demone dentro sua figlia?». «Io credo che ci sia qualcosa dentro Regan e che questo qualcosa stia cercando di ucciderla, padre Karras, e il fatto che riesca o meno a distinguere il piscio dall’acqua non sembra aggiungere molto a tutto questo, non pensa? Insomma, mi dispiace, ma è stato lei a chiedere la mia opinione!». Chris spense con un gesto nervoso la sigaretta. «In ogni caso, mi dica, che differenza c’è tra l’acqua benedetta e l’acqua normale?». «Che per l’appunto è stata benedetta». «Mazel tov7, padre, bella scoperta! Allora, cosa sta cercando di dirmi: niente esorcismo?». «Mi ascolti, ho appena cominciato a occuparmi di questa cosa», rispose Karras in tono acceso. «Lei però deve tenere presente che la Chiesa pone delle condizioni che devono essere soddisfatte, e lo fa per una buona ragione: tenersi lontano da tutta quella spazzatura di superstizioni popolari che la gente continua a produrre e ad appiccicare alla religione! Le posso citare i “preti che levitano” o le statue della madonna che piangono lacrime di sangue o che gridano di dolore il venerdì santo. Ecco, credo di poter continuare a vivere la mia vita senza contribuire a tutto questo circo!». «Vuole un po’ di Librium, padre?». «Mi dispiace, ma è stata lei a chiedere la mia opinione». «L’ho avuta eccome, la sua opinione». Karras allungò un braccio per prendere le sigarette. «Una anche a me», disse Chris. Il sacerdote le porse il pacchetto. L’attrice ne prese una. Karras se ne infilò una tra le labbra, poi le accese entrambe. Buttarono fuori la prima boccata di fumo, rumorosamente, poi sospirando si accasciarono sul tavolo. «Mi dispiace», disse il sacerdote a voce bassa. «Queste sigarette senza filtro finiranno per ucciderla». Il gesuita prese a giocherellare con il pacchetto, stropicciando il cellophane. «Ecco quali sono i segni che la Chiesa potrebbe accettare come prove evidenti di possessione. Uno è la capacità del soggetto di parlare lingue straniere, che non ha mai praticato. Sto cercando di lavorare su questo punto, con le registrazioni. Vedremo a cosa porterà. Poi ci sarebbe la chiaroveggenza, anche se, allo stato attuale degli studi riguardo la telepatia o i poteri parapsicologici, questa evidenza potrebbe essere invalidata». «Lei crede davvero in questa robaccia?», chiese lei disapprovando con aria scettica. Il sacerdote la guardò in viso. Parlava sul serio, concluse. Continuò il suo discorso. «E infine ci sono certe facoltà incompatibili con le sue capacità e con la sua età. Questo però è un discorso più complesso, polivalente. Niente di occulto». «Va bene, allora che mi dice delle martellate, di quei colpi sul muro?». «Di per sé, non significano nulla». «E quel suo sollevarsi e abbassarsi sul letto?». «Non è abbastanza». «Allora, che mi dice di quei segni sulla pelle?». «Quali segni?». «Non gliene ho parlato?». «Parlato di cosa?». «Oh, è accaduto in clinica», raccontò Chris. «C’erano… insomma». Col dito tracciò delle linee sul suo petto. «Capisce, come una scritta, delle lettere. Sono comparse sul petto di Regan, poi sono sparite. Proprio così». Karras aggrottò la fronte. «Ha detto lettere? Non delle parole?». «No, nessuna parola completa. Soltanto una M, una o due volte. Poi una L». «E lo ha visto con i suoi occhi?», le chiese. «Be’, no, ma me lo hanno detto». «Chi?». «I medici della Barringer. Insomma, lo vedrà nella cartella della clinica. È successo davvero». «Sì, ne sono certo. Ma ancora una volta, questo fenomeno può avere cause naturali». «Dove? In Transilvania?», disse Chris, incredula. Karras scosse la testa. «No, ho avuto modo di leggere di casi simili sulle riviste specializzate. Ne ricordo uno, per esempio, in cui lo psichiatra del carcere raccontava di un paziente, un detenuto, che riusciva a entrare volontariamente in trance. E in questo stato faceva apparire sulla sua pelle i segni dello zodiaco». Anche lui fece un gesto intorno al petto. «In rilievo sulla pelle». «Però, mi sembra che i miracoli non abbiano vita facile con lei, eh?». «C’è stato un esperimento», cercò di spiegare con gentilezza Karras, «nel quale il soggetto fu ipnotizzato e indotto in un uno stato di trance. In seguito furono praticate delle incisioni chirurgiche su ognuna delle braccia. Fu comunicato al soggetto che il braccio sinistro avrebbe sanguinato, mentre il destro no. Bene, il braccio sinistro sanguinò e il braccio destro no. Il potere della mente aveva controllato il flusso del sangue. Non sappiamo come questo avvenga, certo, ma è quello che è accaduto. Lo stesso vale per le stigmate, come nel caso del detenuto di cui parlavo o nel caso di Regan: l’inconscio controlla la circolazione del sangue verso l’epidermide, inviando quantitativi maggiori nelle zone che vuole appaiano in rilievo. E così ci possono essere disegni, o lettere o qualunque altra figura. Certo, un fenomeno misterioso, ma difficile da definire soprannaturale». «Lei è proprio un caso disperato, padre Karras, lo sa?». Con l’unghia del pollice Karras si sfiorò i denti. «Mi ascolti, forse questo l’aiuterà a capire», disse infine. «La Chiesa, non io, la Chiesa, ha pubblicato una volta un documento, un avviso per gli esorcisti. L’ho letto la notte scorsa. E quello che diceva è che la maggior parte delle persone che pensano di essere possedute, o che tali sono ritenute da altri, e ora cito a memoria, “hanno molto più bisogno di un medico che di un esorcista”». Sollevò lo sguardo per incontrare gli occhi di Chris. «Ha un’idea di quando questo avviso sia stato emesso?». «No, me lo dica». «Nell’anno del Signore 1583». Chris rimase immobile, sorpresa e pensierosa. «Sì, certo, quello è stato proprio un anno del cavolo», mormorò. Si accorse che il prete stava alzandosi dalla sedia, aggiungendo: «Aspetti che veda la documentazione della clinica, poi ne riparleremo». L’attrice annuì. «Nel frattempo», continuò il gesuita, «riascolterò le cassette e le porterò all’Istituto di Scienze Linguistiche dell’università per un controllo. Potrebbe venir fuori che quel parlottare è in realtà una qualche lingua, anche se ne dubito. Poi raffrontando le strutture del discorso… Be’, lo sa anche lei, se le strutture coincidono, sapremo per certo che Regan non è posseduta». «E quindi che facciamo?», domandò Chris ansiosa. Il sacerdote la guardò fisso negli occhi. Vi si leggeva tutto il turbamento. È preoccupata che sua figlia non sia posseduta! Ripensò a Dennings. C’era qualcosa di strano. Qualcosa di grave. «Detesto chiederglielo, ma potrebbe prestarmi la macchina per un po’?». Chris spostò lo sguardo, cupo, sul pavimento. «Può prendersi anche tutta la mia vita», mormorò in risposta. «Le chiedo solo di riportarmela per giovedì. Non si sa mai, potrei averne bisogno». Con una fitta di dolore, Karras osservò quel capo chino, la testa indifesa della donna. Avrebbe voluto poterle stringere la mano e assicurarle che tutto sarebbe andato bene. Già, ma come? «Un attimo solo, le porto le chiavi», disse lei. Il sacerdote guardò l’incedere lento di Chris, quella muta e disperata preghiera. Una volta avute le chiavi, Karras si recò a piedi fino alla sua stanza nella residenza. Lasciò lì il registratore e prese con sé la cassetta con la lettera di Regan al padre. Poi tornò indietro fino alla macchina di Chris, parcheggiata dall’altra parte della strada. Mentre saliva, sentì la voce di Karl che lo chiamava dalla veranda. «Padre Karras! Padre Karras!». Si voltò. L’uomo stava correndo lungo il vialetto, una giacca sotto un braccio, mentre con l’altro faceva dei cenni. «Padre Karras! Un momento!». Karras si allungò sul sedile e aprì il finestrino dal lato del passeggero. Karl si sporse all’interno. «Da che parte va, padre?». «Pont du Circle?». «Perfetto! Mi darebbe uno strappo, per favore? È un problema?». «No, mi fa piacere. Salga». Karl annuì. «Le sono grato, padre». Il sacerdote avviò il motore. «Fa bene a uscire un po’». «Sì, vado a vedere un bel film». Karras ingranò la marcia e partì. Per qualche minuto viaggiarono in silenzio. Karras era preoccupato, cercava delle risposte. Possessione. Impossibile. L’acqua benedetta. Eppure… «Karl, lei conosceva il signor Dennings abbastanza bene, non è vero?». Il domestico continuava a guardare fisso fuori dal finestrino. Annuì appena. «Sì, lo conoscevo». «Quando Regan… quando sembra essere Dennings, quando assume quelle sembianze, lei ha l’impressione che veramente si tratti di lui?». Una lunga pausa. Poi una risposta secca e priva di intonazione. «Sì». Karras annuì, tormentato. Non dissero nient’altro fino a quando arrivarono a Pont du Circle e si fermarono a un semaforo. «Scendo qui, padre Karras», disse Karl aprendo la portiera. «Da qui posso prendere il bus». Uscì dall’auto, poi si sporse dal finestrino lasciato aperto. «Grazie ancora, padre, grazie mille. Le sono grato, grazie davvero». Rimase in piedi sullo spartitraffico in attesa che il semaforo scattasse. Sorrise e salutò con la mano quando il sacerdote ripartì. Guardò la macchina allontanarsi, fino a vederla sparire dietro la curva all’imboccatura di Massachussets Avenue. Poi corse a prendere l’autobus. Salì a bordo, poi dopo un po’ scese per cambiare bus. Viaggiò in silenzio fino a un quartiere periferico a nord-est della città, tutto casamenti, edifici grigi, poi proseguì a piedi fino a un palazzo fatiscente.
Karl si fermò davanti alle scale d’ingresso mal illuminate, respirando l’odore acre e penetrante di cucina. Da qualche parte giungeva il pianto di un bambino. Chinò il capo. Un grosso scarafaggio uscì da una fessura sul muro e attraversò un gradino, muovendosi veloce come un fulmine nella sua corsa irregolare. L’uomo si poggiò alla ringhiera e per un istante sembrò sul punto di voltarsi e andare via. Poi scosse la testa e prese a salire lentamente le scale. A ogni passo gli scalini di legno gemevano. Come un rimprovero. Arrivato al secondo piano, si diresse verso una porta incassata in una nicchia scura. Stette un istante in attesa, una mano poggiata allo stipite. Guardò la parete: la vernice era scrostata. Una scritta campeggiava sul muro, Nicky e Ellen, e sotto una data e un cuore al centro del quale l’intonaco era quasi del tutto sgretolato. Karl suonò il campanello e attese ancora, il capo chino. Dall’interno arrivò il cigolio delle molle di un letto. Un parlottare irritato. Poi qualcuno che si avvicinava, un rumore irregolare di passi, i colpi fitti di una scarpa ortopedica che veniva trascinata. D’improvviso la porta si aprì, solo però uno spiraglio, la catena di sicurezza tesa fino al limite. Una donna in slip si affacciò, la sigaretta che le pendeva a un angolo della bocca. «Ah, sei tu», disse con voce roca. Tolse la catena. Karl incontrò quegli occhi, duri come pietra, pozzi ormai asciutti di dolore e di colpa. Il suo sguardo accarezzò la forma disfatta delle labbra e il viso devastato di una giovinezza e di una bellezza sepolte in centinaia di stanze di luridi hotel, in centinaia di risvegli da un sonno senza riposo, nel grido soffocato di una grazia ormai passata. «Muoviti, mandalo a fare in culo e torna qui!». Una voce d’uomo dura, da dentro l’appartamento. Il suo ragazzo. La ragazza si voltò e rispose seccata e veloce: «Oh, chiudi il becco, coglione, è papi!». Si girò di nuovo verso Karl. «È ubriaco, papà, è meglio che non entri». Karl annuì. Gli occhi infossati della ragazza guardarono in basso, verso la mano di Karl che già si era mossa per prendere dalla tasca posteriore dei pantaloni il portafogli. «Mamma? Come sta?», gli chiese, scrollando la cenere dalla sigaretta, fissando le mani che cercavano nel portafogli, che estraevano pezzi da dieci dollari. «Sta bene», disse Karl conciso, «La mamma sta bene». Mentre l’uomo le porgeva i soldi, la ragazza cominciò a tossire forte. Si coprì la bocca con la mano. «Queste cazzo di sigarette!», disse con la voce spezzata. Karl fissò i segni delle punture sulle braccia. «Grazie, pa’». Lasciò che gli sfilasse i soldi di mano. «Cristo santo, muoviti!», ringhiò da dentro l’uomo. «Senti, pa’, è meglio che facciamo in fretta. Va bene? Sai come gli prende a lui…». «Elvira…!», Karl aveva fatto un passo avanti e le aveva afferrato il polso. «C’è una clinica a New York!», le disse con un filo di voce, supplicandola. La ragazza fece una smorfia cercando di liberarsi da quella stretta. «Oh, andiamo, lasciami perdere». «Ti ci porto io! Ti aiuteranno, non andrai in prigione! È solo una clinica…». «Cristo, pa’, lasciami», strillò lei, liberandosi con uno scatto. «No, aspetta, ti prego! È…». Gli chiuse la porta in faccia. Nel corridoio buio, nel sepolcro delle sue speranze, Karl rimase immobile, in silenzio di fronte alla porta. Chinò il capo, chiuso nel suo muto dolore. Da dentro l’appartamento giungevano delle voci ovattate. Poi una risata di donna, cinica e squillante, seguita da forti e ripetuti colpi di tosse. Karl si girò per andare via. Avvertì un colpo al cuore quando si trovò la strada bloccata dal tenente Kinderman. «Forse ora dovremmo parlare, signor Engstrom», disse ansimando il detective, le mani nascoste nelle tasche dell’impermeabile. Un velo di tristezza negli occhi. «Forse adesso dovremmo proprio parlare…».
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L'Esorcista
TerrorTutti i diritti sono esclusivamente riservati all'autore (William Peter Blatty) di quest'opera. Cosa accade alla piccola Regan? Cosa c'è che non va? Sua madre non riesce a spiegarsi il suo comportamento e i medici non trovano problemi nella sua test...