Parte Prima. Cap. I

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Come l’effimera e fulminea fiamma di un’esplosione di soli lascia soltanto bagliori indistinti sulla retina di un cieco, così il momento in cui l’orrore ebbe inizio passò quasi inosservato. Fu dimenticato, infatti, perduto nel frastuono di ciò che seguì, e forse non fu affatto messo in relazione con l’orrore. Era difficile da valutare. La casa era in affitto. Sinistra. Opprimente. Un edificio in stile coloniale, di mattoni, stretto da una pianta d’edera, nel quartiere di Georgetown a Washington. Dall’altro lato della strada c’erano le aree periferiche del campus della Georgetown University; sul retro un terrapieno a picco, che si lanciava ripido verso la trafficatissima M Street. Subito oltre scorreva il fiume Potomac, fangoso e sporco. La notte del primo aprile, molto tardi, la casa era immersa nel silenzio. Chris MacNeil, distesa sul suo letto, ripassava le battute della scena che avrebbe dovuto girare il giorno seguente. Sua figlia Regan dormiva nella stanza in fondo al corridoio; al piano di sotto, nella camera adiacente alla dispensa, riposavano Willie e Karl, i due domestici, ormai già avanti con gli anni. Era circa mezzanotte e venticinque quando, con aria interrogativa, Chris distolse lo sguardo dai suoi fogli. Sentiva dei piccoli colpi sordi. Rumori insoliti. Smorzati. Profondi. Ritmati. Un codice alieno, battuto dalla mano di un cadavere. Strano. Rimase in ascolto ancora per un istante, poi non se ne preoccupò più. Ma i colpi continuavano e lei non riusciva a concentrarsi. Lanciò il copione sul letto. Gesù, che rottura! Salì le scale per controllare. Uscì in corridoio e diede un’occhiata in giro. Sembravano venire dalla stanza di Regan. Ma che combina? Con passo leggero percorse il corridoio e all’improvviso i colpi si fecero più forti, molto più rapidi; ma quando fece pressione sulla maniglia della porta ed entrò nella stanza, cessarono di botto. Ma che diavolo sta succedendo? Sua figlia dormiva, dolcissima nei suoi undici anni. Teneva stretto a sé un panda di peluche con due occhi enormi e perfettamente rotondi. Il suo piccolo tesoro, scolorito da anni di appassionati abbracci e di baci caldi e bagnati. Chris si avvicinò al letto, silenziosa, e si appoggiò alla spalliera per sussurrare: «Regan? Sei sveglia?». Il respiro era regolare, profondo, pesante. Con lo sguardo Chris ispezionò la stanza. La luce fioca del corridoio accarezzava pallida i disegni di Regan, le sue piccole sculture, i tanti peluche. Va bene, Rags. Mi hai fregato, hai preso per i fondelli la tua vecchia mamma. Avanti, dillo: «Pesce d’aprile!». Ma Chris sapeva bene che le cose non stavano così. La bambina era molto timida, diffidente per natura. Allora chi si stava prendendo gioco di lei? Forse la sua mente insonnolita aveva semplicemente dato un ordine al rumore dei tubi del riscaldamento e delle grondaie? Una volta, nelle montagne del Bhutan, era rimasta per ore a osservare un monaco buddista assorto in meditazione, accovacciato sul pavimento. Alla fine, era certa di averlo visto levitare. Forse. Quando raccontava ad altri questa storia, irrimediabilmente aggiungeva un forse. E forse la sua mente, quell’instancabile creatrice d’illusioni, aveva fantasticato su quei piccoli colpi, tramutandoli in qualcosa d’altro. Cazzate! Io li ho sentiti! D’un tratto alzò lo sguardo al soffitto. Eccoli! Piccoli graffi, lievi e indistinti. Topi! Santo cielo, topi in solaio! Sospirò. Certo, con quelle grosse code, tum tum… Si sentì sollevata. Solo allora si rese conto del gelo nella stanza. Ghiacciata. Si avvicinò alla finestra con passi lievi. La controllò: chiusa. Toccò il termosifone: bollente. Ma come è possibile? Perplessa, confusa, si accostò al letto e posò una mano sulla guancia di Regan. Delicata e liscia come la conosceva, umida perché leggermente sudata. Tutto normale. Forse sono io che non sto troppo bene. Osservò sua figlia, il naso all’insù, le lentiggini sul viso. In un moto di affetto, si chinò rapida su di lei e le baciò la fronte. «Ti voglio bene», disse piano; poi fece ritorno alla sua stanza, al suo letto, al suo copione. Per un po’ Chris continuò a studiare la sua parte. Si trattava di un musical, un remake di Mr Smith goes to Washington. La trama era stata rimaneggiata, così da inserire nella storia la rivolta studentesca. Chris aveva la parte principale: un’insegnante di psicologia vicina alle posizioni degli studenti. E odiava questo ruolo. È idiota! Questa scena è totalmente idiota! Chris non era molto istruita, ma non scambiava gli slogan con la verità. Come una gazza, era abituata a scandagliare col becco la crosta dell’apparenza fino a giungere al fatto concreto, anche se nascosto. Ecco, la rivolta di quei giovani le sembrava “idiota”. Non aveva alcun senso. Ma perché la vedo così?, si chiedeva ora. Forse il gap generazionale? Stronzate, ho solo trentadue anni. È una stupidaggine e basta, ecco tutto, è… Okay, calma. Devi resistere solo un’altra settimana. Avevano portato a termine le scene d’interni a Hollywood. Restavano da girare pochi ciak in esterna nel campus della Georgetown University, avrebbero cominciato l’indomani. Gli studenti erano via per le vacanze di Pasqua. Sempre più assonnata, Chris sentiva le palpebre farsi man mano più pesanti. Voltando pagina, si accorse di un foglio strappato in modo strano. Esitò un istante, poi si sciolse in un sorriso. Il suo regista, l’inglese. Quando era teso staccava con le mani tremanti, malferme, una strisciolina di carta dal fondo della pagina e poi la masticava, centimetro dopo centimetro, fino a farne una pallina da tenere in bocca. Il caro Burke. Sbadigliò, poi diede un’ultima occhiata, quasi affettuosa, al copione. I fogli sembravano rosicchiati, rovinati da piccoli morsi. Si ricordò dei topi. Quei piccoli bastardi, certo che non hanno perso tempo! Prese un appunto mentale: domattina, dire a Karl di sistemare le trappole. Le dita perdevano lentamente la loro presa. Il copione le scivolava di mano. Lo lasciò cadere. Idiota. È proprio idiota. La mano cercò a tentoni l’interruttore della luce. Trovato. Un respiro profondo. Per un istante rimase immobile, quasi addormentata. Poi, con un movimento pigro della gamba, scostò le coperte. Che caldo bestiale. Una nebbiolina di rugiada copriva, morbida e delicata, i vetri della finestra. Chris si era addormentata. E sognava la morte in un modo del tutto nuovo, come se della morte non si fosse mai sentito parlare prima, e intanto qualcosa squillava e lei, il fiato mozzato, stava dissolvendosi, scivolava nel vuoto, senza riuscire a smettere di pensare, non ci sarò più, morirò, è finita, per sempre, oh, papà, fermali, impediscilo, non lasciarmi scivolare nel nulla eterno, e ancora si sentiva dissolvere, spariva, e qualcosa squillava e continuava a squillare… Il telefono! Si tirò su di scatto, il cuore che batteva all’impazzata. Allungò una mano verso l’apparecchio. Solo una sensazione di vuoto nello stomaco, un vuoto totale dentro di sé, e il telefono che ancora squillava. Rispose. Era l’aiuto regista. «Tesoro, per le sei ti voglio al trucco». «Va bene». «Tutto a posto?». «Devo solo cercare di arrivare al bagno e il più è fatto». «Allora, a dopo», rispose lui in una risata. «Va bene. E grazie». Riattaccò. Per un momento rimase seduta, immobile, pensando al sogno. Più che un sogno, un momento tra la veglia e il sonno, qualcosa a metà tra i due stati. Quella nitidezza terribile. Il luccicare di un teschio. Il non essere. Irreversibile. Non riusciva a immaginarlo. Dio, non è possibile! Si fermò a riflettere. Alla fine scosse la testa. Eppure è così. Andò in bagno, indossò una vestaglia e con passo svelto ma leggero raggiunse la cucina al piano inferiore, giù dove la vita l’accoglieva con lo sfrigolio gioioso della pancetta. «Buongiorno, signora MacNeil». Willie, curva, spremeva delle arance. I suoi capelli erano grigi, il viso segnato da profonde occhiaie di un blu livido. Svizzera, come Karl. Si asciugò le mani con un canovaccio e subito si diresse verso i fornelli. «Faccio da sola, Willie». Chris, sempre attenta a queste cose, aveva notato il suo aspetto stanco e affaticato, e quando Willie brontolando tornò al lavandino, si versò il caffè e prese posto al tavolo della colazione. Un sorriso le illuminò il volto appena posò lo sguardo sul piatto. Una rosa rossa, di un rosso acceso. Regan. Angioletto. Spesso al mattino, quando Chris era sul set, Regan lasciava piano piano il suo letto, raggiungeva la cucina e metteva un fiore accanto al piatto. Poi a tentoni, gli occhi ancora cisposi, tornava a letto e dormiva un altro po’. Chris scosse la testa, quasi afflitta al ricordo: pensare che stava per chiamarla Goneril! Certo, avanti così. Tieniti pronta al peggio. Sorrise a ripensarci, poi prese un altro sorso di caffè. Quando il suo sguardo si posò nuovamente sulla rosa s’intristì per un istante, i larghi occhi verdi sofferenti come quelli sconsolati di un orfano. Si ricordò di un altro fiore. Un figlio. Jamie. Era morto tanto tempo fa, aveva solo tre anni. Chris era ancora molto giovane, soltanto una sconosciuta corista di Broadway. Aveva giurato di non dedicarsi interamente mai più a nessuno, mai più, come aveva fatto con Jamie, come aveva fatto con Howard MacNeil, il padre del bambino. Distolse di scatto lo sguardo dalla rosa, e mentre i suoi pensieri di morte sembravano unirsi al fumo del caffè caldo, accese prontamente una sigaretta. Willie arrivò con la spremuta e Chris si ricordò dei topi. «Dov’è Karl?», domandò alla domestica. «Eccomi, signora!». Con movimenti flessuosi, quasi felini, l’uomo stava entrando dalla porta accanto alla dispensa. Imponente. Rispettoso. Energico. Sottomesso. L’angolo di un fazzoletto premuto forte sul mento a coprire un piccolo taglio da rasatura. «Si?», chiese avvicinandosi al tavolo. Muscolatura possente, occhi lucidi. Naso aquilino. Completamente calvo. «Senti, Karl, abbiamo i topi in soffitta. È meglio procurarsi delle trappole». «Ha detto topi?». «Sì, è quello che ho detto». «La soffitta è stata ripulita». «Bene, vuol dire che i nostri topi sono molto ordinati!». «Niente topi in soffitta». «Karl, li ho sentiti io stessa stanotte», rispose Chris controllandosi, con tutta la pazienza di cui era capace. «Le tubature, forse», ipotizzò Karl, «o forse le assi del pavimento». «I topi, forse! Potresti andare a comprare queste maledette trappole e smetterla di polemizzare?». «Certamente, signora», rispose Karl, muovendosi rapidamente. «Vado subito, immediatamente!». «Non subito, Karl! I negozi sono tutti chiusi a quest’ora!». «Tutti chiusi», fece eco Willie, con un’aria di rimprovero. «Andrò a vedere», e un attimo dopo era già sparito. Chris e Willie si scambiarono un’occhiata; poi la domestica scosse la testa e rivolse nuovamente la sua attenzione alla pancetta che friggeva. Chris prese un altro sorso di caffè. Davvero un uomo strano. Come Willie, era un gran lavoratore, senza dubbio leale, onesto e molto discreto. E tuttavia c’era qualcosa in lui che la metteva a disagio. Ma cosa? Quella sottile supponenza, quella velata arroganza? Quell’atteggiamento come di sfida? No. Non era questo. Qualcosa di più difficile da identificare. La coppia di domestici stava con lei da quasi sei anni, e ancora Karl ai suoi occhi era una maschera, un geroglifico non tradotto che respirava e parlava e si muoveva su quelle lunghe gambe da trampoliere, pronto a sbrigare le sue commissioni. Dietro quella maschera, però, c’era qualcosa in movimento; Chris poteva sentire il rumore cadenzato di un ingranaggio, come di una coscienza. Mentre spegneva la sigaretta, sentì la porta dell’ingresso aprirsi e richiudersi subito dopo. «Sono ancora tutti chiusi», borbottò Willie. Chris prese qualche boccone di pancetta, poi tornò nella sua stanza al piano di sopra e si vestì. Un maglioncino e una gonna. Si guardò allo specchio e osservò con solennità i suoi capelli, rossi e corti, perennemente arruffati. Osservò le sue lentiggini, minuscole esplosioni sul piccolo ovale del viso, ancora senza trucco. Poi fece gli occhi storti, sorridendo stupidamente alla sua immagine. Ciao, piccolina, ragazzina acqua e sapone! Posso parlare con tuo marito? Col tuo amante? Col tuo pappone? Ah, il tuo pappone è finito all’ospizio? Forza, un po’ di make-up! Fece la linguaccia a se stessa. Oh, Cristo, che vita! Prese la scatola con il set di parrucche, si trascinò al piano di sotto, uscì e si ritrovò sul viale alberato, già animato e pieno di traffico. Si fermò un istante di fronte alla casa e quasi addentò l’aria del primo mattino. Guardò alla sua destra. Accanto all’edificio una ripida cascata di scalini in pietra si lanciava verso la lontana M Street. Poco più in là, l’ingresso principale della vecchia rimessa, un tempo deposito dei mezzi pubblici. Un edificio in stile mediterraneo, con gli spioventi di tegole, piccole torri decorate, vecchi mattoni a vista. Osservò la scena con partecipazione. Mi piace. È davvero una strada carina. Dannazione, allora perché non fermarsi qui? Perché non comprare la casa, iniziare a vivere? Da qualche parte una campana prese a suonare. Chris volse lo sguardo nella direzione da cui proveniva il suono. La torre dell’orologio dell’università. L’eco di quella voce malinconica risuonò fino al fiume, le vibrazioni assorbite infine dal suo cuore stanco. S’incamminò verso il set, verso quell’orribile farsa, quella rivolta-fantoccio, quell’imitazione malriuscita. Entrò dal cancello principale del campus, e lentamente la sua tristezza si affievolì, facendosi ancora più vaga non appena vide la fila di roulotte-camerini allineata lungo la strada, vicino al grosso muro che segnava il perimetro sud dell’università. Erano quasi le otto del primo giorno di riprese e Chris era tornata se stessa: ebbe subito qualcosa da ridire sul copione. «Ehi, Burke! Che ne dici, perché non butti un occhio a questa roba?». «Però, vedo che hai un copione in mano! Che carino!». Il regista, Burke Dennings, era già teso e animato. Aveva un tic all’occhio sinistro, dove però brillava ancora un che di minaccioso. Strappò con precisione quasi chirurgica una striscia di carta dalla pagina del copione, tenendola tra le dita tremanti. «Mi toccherà cominciare a masticare», disse ridendo. Erano in piedi nell’ampio cortile davanti all’edificio dell’amministrazione, circondati da attori, luci, tecnici, comparse, macchinisti. Qua e là alcuni spettatori, per lo più della facoltà dei gesuiti, punteggiavano il prato. Tanti bambini. L’operatore di ripresa, annoiato, sfogliava il «Daily Variety» mentre Dennings s’infilava la strisciolina di carta in bocca e cominciava a masticare. Il suo fiato era acre del primo gin mattutino. «Già, mi fa molto piacere che anche tu abbia ricevuto il copione». Era un uomo sulla cinquantina dall’aria furba, delicata. Parlava con un affascinante e marcato accento britannico, così acuto e preciso da dare anche alla più cruda volgarità un tono elegante. Quando aveva bevuto, sembrava sempre pronto a esplodere in una grassa risata, pur restando perennemente impegnato a non perdere la sua compostezza. «Allora dimmi, piccola mia, che c’è adesso? Qual è il problema?». Nella scena in questione, il preside dell’ipotetico college doveva, da copione, intervenire a un’assemblea di studenti per convincerli a non fare il programmato sit-in. Chris sarebbe dovuta correre attraverso il cortile fino in cima alla scalinata, togliere la parola al decano e gridare, indicando l’edificio dell’amministrazione: «Abbattiamolo!». «È una cosa senza senso», disse Chris. «Bene, a me invece sembra chiarissimo», mentì Dennings. «Perché diavolo dovrebbero buttar giù l’edificio, Burke? A che scopo?». «Mi stai prendendo in giro?». «No, ti sto chiedendo “a che scopo”». «Perché sta lì, tesoro». «Nel copione?». «No, nel cortile del campus!». «Bene, non ha senso, Burke. Semplicemente, lei non lo farebbe». «Lo farebbe». «No, non lo farebbe». «Vogliamo chiamare l’autore? Credo che si trovi a Parigi!». «Per nascondersi?». «No, per scopare!». Parlò con dizione impeccabile, scandendo bene le parole. I suoi occhi di volpe erano luminosi in quel viso immobile, la voce si elevava verso le guglie gotiche. Chris si appoggiò sfinita alla sua spalla, ridendo. «Burke, merda, non c’è niente da fare con te». «Vedo che hai capito». Lo affermò come Cesare quando rifiutò per la terza volta, con modestia, la corona imperiale. «Ora possiamo andare avanti?». Chris non lo ascoltava più. Lanciò uno sguardo furtivo e imbarazzato a un gesuita lì accanto, cercando di capire se avesse sentito l’espressione volgare appena pronunciata. Una faccia scura, dura, di pietra. Come quella di un pugile. Spigolosa. Era sulla quarantina e aveva un che di malinconico negli occhi afflitti, ma caldi e rassicuranti quando abbracciarono la sua figura. Senza dubbio aveva sentito: sorrideva. Sbirciò l’orologio e si allontanò. «Ripeto: possiamo andare avanti adesso?». Chris si voltò, confusa. «Sì, certo, Burke. Possiamo andare avanti». «Grazie a Dio». «No, aspetta!». «Oh, Cristo santo!». Ancora qualche critica sulle ultime inquadrature della scena. Riteneva che il punto di tensione drammatica si raggiungesse nella sua ultima battuta, non nella corsa attraverso la porta dell’edificio. «Non aggiunge nulla», disse Chris. «È inutile». «Sì, lo è, tesoro, lo so». Burke era sincero. «Ad ogni modo, il montatore insiste che si giri anche questa scena», continuò, «quindi eccoci qui. Chiaro?». «No, non è chiaro». «No, certo che non lo è. È stupido. Però, vedi, dato che la scena successiva», proseguì ridacchiando, «si apre con Jad che viene verso la camera superando la porta, sicuramente il montatore vorrà che la scena precedente si chiuda con te che ti dirigi verso quella porta». «È inutile». «Va bene, è del tutto inutile! Fa schifo! È una stronzata, fa vomitare! Però adesso perché non la giriamo? Tu fidati di me, verrà tagliata nel montaggio definitivo. Sarà davvero gustosa, da masticare…». Chris rise. Era d’accordo. Burke volse lo sguardo in direzione del montatore, noto per il suo temperamento rigido e le sue manie di protagonismo, irascibile e incline a far perdere tempo alla troupe con discussioni infinite. Era indaffarato col cameraman. Il regista tirò un sospiro di sollievo. Le luci non avevano ancora raggiunto la temperatura giusta e Chris aspettava sul prato ai piedi della scalinata. Vide Dennings rovesciare un fiume di volgarità su un povero macchinista. Era visibilmente raggiante. Sembrava godere della propria eccentricità. Ma a un certo stadio della sua ubriachezza, e Chris lo sapeva bene, era capace di esplodere in una rabbia furiosa, e se questo si verificava alle tre o alle quattro del mattino, non esitava a sollevare la cornetta del telefono per vomitare insulti e provocazioni finanche su persone influenti, così, per il solo gusto di farlo. Chris ricordava bene quel direttore di produzione, la cui colpa era stata di far notare, durante una proiezione ufficiale, che i polsini della camicia di Dennings erano logori e rovinati. Era stato sufficiente perché Dennings lo svegliasse alle tre di notte per apostrofarlo come un «cafone merdoso» il cui padre «altro non era che un cane rabbioso». Di solito il giorno seguente si nascondeva dietro un’amnesia, ma si illuminava di piacere quando i suoi bersagli gli illustravano nel dettaglio quanto aveva fatto. Se gli poteva tornare utile, ricordava tuttavia ogni cosa con chiarezza. Chris non riuscì a trattenere un sorriso quando ripensò alla notte in cui Dennings, strafatto di gin, fuori di sé dalla rabbia, aveva distrutto lo studio di rappresentanza che gli avevano assegnato, e come poi, quando gli fu presentato un inventario degli oggetti andati in pezzi con relative polaroid, aveva dichiarato, quasi con indignazione, che le foto erano «totalmente infedeli, perché i danni erano stati molto, ma molto più ingenti !». Chris non era per niente convinta che Dennings fosse un alcolizzato, né che il suo problema col bere fosse irrisolvibile. Il punto era che beveva perché gli altri si aspettavano che lo facesse: stava interpretando la sua stessa leggenda. Bene, pensò, credo che in fondo anche questa sia una forma di immortalità. Si voltò, cercando con lo sguardo il gesuita che poco prima le aveva sorriso. Lo vide camminare in lontananza, a capo chino, come turbato da qualcosa. Una nuvola nera e solitaria in attesa della pioggia. Non le erano mai piaciuti i preti. Così sicuri, così pieni delle loro certezze. Questo qui, invece… «Tutto pronto, Chris?». «Sì, eccomi». «Bene, silenzio per favore!», chiese l’aiuto regista. «Motore», ordinò Burke. «Partito». «Azione!». Chris salì di corsa gli scalini, acclamata dalle comparse. Dennings la osservava, chiedendosi cosa le stesse passando per la testa. Aveva abbandonato la discussione troppo, troppo in fretta. Lanciò un’occhiata significativa al responsabile dei dialoghi, che fedelmente si mosse verso il regista e gli porse il copione, già aperto alla pagina corrispondente. Tutto faceva pensare a una scena di chiesa: un chierichetto avanti con gli anni, un vangelo, un prete, una messa solenne. Lavorarono sotto un sole incerto. Per le quattro una cappa di nuvole in movimento si era fatta pesante nel cielo, e l’aiuto regista dichiarò per quel giorno la fine delle riprese. Chris si diresse a casa. Era molto stanca. All’angolo tra la trentaseiesima e la O Street firmò un autografo a un anziano droghiere italiano che l’aveva agganciata davanti al suo negozio. Scrisse il suo nome su un sacchetto di carta marrone e aggiunse «tanti affettuosi auguri». Attraversando l’incrocio, lanciò uno sguardo di traverso alla chiesa cattolica sul lato opposto del viale. Santo non-so-che. Vi prestavano servizio i gesuiti. Lì John Kennedy aveva sposato Jackie, e aveva sentito dire che frequentava spesso quella chiesa. Provò a immaginare la scena: John Kennedy tra le candele votive circondato da pie donne rugose, John Kennedy in ginocchio assorto nella preghiera; Io credo… una distensione delle relazioni con i russi; Io credo, io credo… l’Apollo IV, mentre tintinnano i grani del rosario; Io credo… nella resurrezione e nella vita eterna. Ecco. Proprio questo. Ecco cos’è che non mi va giù. Osservò un grosso camion carico di birra sfilarle davanti, vibrante di calde e liquide promesse dell’estate a venire. Attraversò ancora. Quando scese lungo la O Street e passò davanti all’auditorium della scuola elementare, un prete la superò quasi di corsa, le mani infilate nelle tasche di una giacca a vento di nylon, scura. Era giovane. Appariva molto agitato. E aveva davvero bisogno di un barbiere. Poco più avanti, il prete girò a destra in uno stretto vialetto, una scorciatoia che si apriva sul cortile dietro la chiesa. Chris indugiò per un attimo all’imbocco del vialetto, guardando curiosa il sacerdote. Sembrava fosse diretto verso un piccolo edificio dipinto di bianco. Uno dei due battenti della vecchia porta si aprì e un altro prete fece improvvisamente capolino. Aveva un aspetto tetro, turbato, molto nervoso. Con un brusco cenno del capo si rivolse al giovane, poi a occhi bassi si mosse rapido verso uno stretto accesso che conduceva direttamente alla chiesa. La porta del piccolo edificio si aprì di nuovo, dall’interno. Un altro prete. Sembrava proprio… Ehi, ma è lui! E quello che ha sorriso quando Burke parlava di scopate! Ora pareva assorto, aveva un’espressione seria mentre salutava in silenzio il nuovo arrivato, un braccio sulle spalle in un gesto che appariva cortese e in qualche modo paterno. Lo fece entrare e il battente si richiuse con un lento e faticoso cigolio. Chris aveva gli occhi fissi sulle sue scarpe. Era confusa, incuriosita. Cosa significa tutto questo movimento? Si chiese se anche i gesuiti avessero l’obbligo della confessione. Indistinto, le giunse il rombo di un tuono. Guardò il cielo. Verrà a piovere?… la resurrezione… Sì. Certamente. Il prossimo martedì. In lontananza già si vedevano i bagliori del temporale in arrivo. Non chiamarci, piccola, saremo noi a chiamare te. Chris si sollevò il bavero del cappotto, poi lentamente s’incamminò verso casa. Sperava davvero che cominciasse il diluvio. In un minuto fu nel suo appartamento. Di corsa andò in bagno, poi in cucina. «Ciao Chris, come va?». Bionda, carina, sui vent’anni, seduta al tavolo. Sharon Spencer. Fresca. Originaria dell’Oregon, negli ultimi tre anni si era occupata dell’istruzione di Regan e faceva da segretaria a Chris. «Le solite cazzate». Chris girò attorno al tavolo e cominciò a smistare i messaggi. «Niente di particolarmente interessante?». «Ti va di cenare alla Casa Bianca la prossima settimana?». «Oh, davvero non lo so. Tu che faresti?».
«Mi strafogherei di dolci fino ad ammalarmi». Chris scoppiò a ridere. «Ehi, a proposito: Rags?». «Di sotto, nella stanza dei giochi». «Che combina?». «Sta scolpendo qualcosa. Un uccellino, credo. È per te». «Sì, ne ho davvero bisogno», sussurrò Chris. Si avvicinò ai fornelli e si versò una tazza di caffè bollente. «Mi prendevi in giro con la storia di quella cena?», domandò. «No, certo che no», rispose Sharon. «È per giovedì». «Sarà un grande ricevimento?». «No, da quello che ho capito ci saranno solo cinque o sei invitati». «Non mi prendere in giro!». Non era proprio sorpresa, anche se ne era davvero felice. Le persone adoravano la sua compagnia: tassisti, poeti, esimi professori, sovrani addirittura. Cosa c’era di così piacevole in lei? La vivacità, forse? Chris si sedette al tavolo. «Come è andata la lezione oggi?». Sharon si accese una sigaretta, sul suo volto calò un’aria severa. «Ancora qualche problema con la matematica». «Santo cielo. Eppure è strano». «Lo so, è la materia che preferisce», disse Sharon. «Be’, certo, sarà la “matematica moderna”. Cristo, non saprei neanche calcolare il resto del biglietto del bus se…».
«Ciao mamma!». Con un salto Regan fu in cucina, le braccia esili tese verso la madre.
Una coda di capelli rossi, il viso raggiante coperto di piccole lentiggini sulla pelle morbida e liscia.
«Ehi, la mia puzzola!». Chris l’abbracciò stretta, come un’orsa col suo cucciolo. Col volto illuminato dalla gioia, prese a baciare la piccola, facendo schioccare con forza le labbra sulle sue guance. Non riusciva ad arginare la forza straripante del suo affetto. «Mmmm-mmmm-mmmm», e poi baci baci e ancora baci. Si scostò poi da Regan con delicatezza, gli occhi impazienti e curiosi che iniziavano a esplorare il piccolo viso. «Allora? Che hai fatto di bello oggi? Qualcosa di speciale?». «Oh, un po’ di cose…». «Bene, che genere di cose?». «Be’, fammi pensare…». Con le ginocchia contro quelle della madre, Regan si muoveva avanti e indietro col corpo, ondeggiando lievemente. «Allora, vediamo… ovviamente ho fatto i compiti». «Uh-uh». «E poi ho disegnato». «E cosa hai disegnato?». «Le solite cose, fiori… Tante margherite, tutte rosa. E poi… ah sì! Questo cavallo!». Si emozionò visibilmente e spalancò gli occhi. «C’era un uomo e aveva un cavallo, e lo teneva vicino al fiume.
E noi stavamo passeggiando e il cavallo si è avvicinato, era bellissimo! Oh, mamma, avresti dovuto vederlo! E poi quell’uomo mi ha permesso di salirci sopra, in sella! Davvero! Ci sono rimasta quasi un minuto!». Chris strizzò l’occhio in direzione di Sharon, divertita. «Era lui?», chiese con complicità, sollevando un sopracciglio. Quando si erano trasferiti a Washington per le riprese, la segretaria, ormai a tutti gli effetti un membro della famiglia, era venuta a vivere con loro, sistemandosi nella stanza degli ospiti. Fino a quando non aveva conosciuto, in una scuderia non troppo lontana, “il cavaliere”. Sharon aveva bisogno di indipendenza, di un posto tutto suo. Chris aveva deciso allora di sistemarla in un appartamento in un hotel molto costoso, insistendo per occuparsi di tutte le spese. «Già, proprio lui». «Un cavallo tutto grigio!», continuò Regan. «Oh, mamma, perché non prendiamo un cavallo? Possiamo, no?». «Vedremo, tesoro». «Quando lo potrò avere?». «Vedremo. Dimmi, dov’è l’uccello che stavi preparando?». Per un istante la bambina sembrò confusa; poi si voltò verso Sharon, palesemente seccata. «Perché hai spifferato tutto?». Quindi, rivolta alla madre: «Era una sorpresa». «Vuoi dire che…». «Sì, mamma, col naso lungo e buffo, come lo volevi tu». «Oh, Rags, è magnifico! Posso vederlo?». «No, devo ancora finire di colorarlo. Quando si mangia, mamma?». «Sei affamata?». «Sto morendo di fame!». «Su, non sono nemmeno le cinque. A che ora avete pranzato?», chiese Chris a Sharon. «Mah, verso mezzogiorno», rispose la segretaria. «Quando tornano Willie e Karl?». Aveva concesso loro un pomeriggio libero. «Penso che saranno a casa per le sette», disse Sharon. «Mamma, possiamo mangiare all’Hot Shoppe? Ti prego, mi ci porti?». Chris prese la mano della piccola e la coprì di piccoli baci. Poi, sorridendo, acconsentì. «Va bene, corri di sopra a cambiarti così andiamo». «Oh, mamma, ti adoro!». Regan uscì di corsa dalla stanza. «Tesoro, mi raccomando, metti il vestito nuovo!», le gridò dietro Chris. «Ti piacerebbe avere undici anni?», domandò Sharon. «È un’offerta?». Chris si avvicinò alle lettere ammucchiate sul tavolo, cominciando una svogliata cernita nell’insieme confuso di complimenti e adulazioni. «L’accetteresti, se lo fosse?», insistette Sharon. «Con tutto quello che so ora? Con questa testa, con tutti i ricordi?». «Certamente». «Nemmeno per sogno». «Riflettici ancora». «Ci sto riflettendo». Chris sfilò dal mucchio di carte sul tavolo un copione con relativa lettera di accompagnamento, spillata con precisione sulla prima pagina. Jarris, il suo agente. «Mi sembrava di essere stata chiara: per un po’, niente nuovi copioni». «Forse dovresti dargli un’occhiata», disse Sharon. «Dici?». «Sì, io l’ho letto stamattina». «E ti sembra buono?». «L’ho trovato grandioso». «E il mio ruolo sarebbe quello di una suora che improvvisamente si rende conto di essere lesbica, giusto?».
«No. Nessun ruolo per te». «Merda, Sharon, il cinema migliora di giorno in giorno. Si può sapere di che diavolo stai parlando? Che c’è da ridere?». «Vogliono che tu diriga il film», rispose Sharon, lasciando sfuggire il suo entusiasmo insieme al fumo della sigaretta. «Cosa?». «Leggi la lettera». «Mio Dio, Sharon, dimmi che non stai scherzando!». Chris afferrò la lettera, curiosa; i suoi occhi correvano tra le righe, quasi a divorare quelle parole: «…una sceneggiatura originale… un trittico… la produzione preme per la partecipazione di Sir Stephen Moore… disposto ad accettare il ruolo solo se…». «E io dirigerò l’episodio con lui!». Chris alzò le braccia al cielo, liberando un rauco, acuto grido di gioia. Poi si strinse al petto la lettera, tenendola con entrambe le mani. «Oh, Steve, angelo mio, ti sei ricordato!». Stavano girando un film in Africa. Avevano bevuto parecchio, erano ubriachi. Abbandonati sulle sedie pieghevoli, si godevano un quieto tramonto rosso sangue. «Oh, Steve, la situazione sta diventando assurda! Noi attori siamo nella merda!». «A me piace così». «Stronzate! Sai che cosa funziona davvero, in questo lavoro? Dirigere, la regia!». «Ah, certamente». «Solo allora puoi dire di aver realizzato qualcosa, qualcosa che ti appartiene davvero; voglio dire, qualcosa che sia veramente vivo!». «Bene, allora fallo, dirigi un film». «Ci ho provato, ma nessuno vuole produrlo». «Perché no?». «Oh, forza, lo sai benissimo! Non credono che sia in grado». Ricordi caldi, rassicuranti. Rassicurante quel sorriso. Steve, carissimo Steve… «Mamma, non trovo il mio vestito nuovo!», gridava Regan dal pianerettolo. «Nell’armadio!», rispose Chris. «Ho controllato, non c’è!». «Arrivo tra un attimo», rispose Chris. Una lettura veloce alla sceneggiatura. L’entusiasmo di poco prima scemava lentamente. «Sarà sicuramente uno schifo di copione». «Oh, non fare così adesso. L’ho letto, penso davvero che sia buono». «Ah, okay, se non sbaglio tu sei quella che trovava Psycho debole sul lato comico!». Sharon rise di cuore. «Mamma?». «Arrivo, eccomi». Chris si alzò lentamente. «Esci stasera?». «Sì». «Vai pure», disse Chris indicando la posta sul tavolo, «ci occuperemo di questa roba domattina». Sharon si alzò. «No, aspetta», aggiunse Chris, ricordandosi qualcosa, «a questa lettera bisogna rispondere entro stasera». «Oh, certo», disse Sharon, già con carta e penna tra le mani. «Mammaaa!». La voce impaziente di Regan. «Aspetta, sarò di nuovo qui tra un attimo», disse Chris. Stava per lasciare la cucina, ma si fermò quando notò Sharon sbirciare l’ora sul suo orologio da polso. «Mi dispiace, Chris, ma è l’ora della meditazione», disse. Lo sguardo di Chris, fisso sulla ragazza, esprimeva ora una muta esasperazione. Aveva seguito la trasformazione della sua segretaria negli ultimi sei mesi. Era diventata un’“aspirante alla felicità”. A Los Angeles si era dedicata prima all’autoipnosi, poi aveva ceduto alle pratiche buddhiste. Nelle poche settimane in cui Sharon aveva abitato con loro, la casa odorava perennemente di incenso; per ore non si sentiva altro che un lento, monotono cantilenare: Nam myoho renge kyo («Vedi, Chris, basta che canti così, senza interruzione, e i tuoi desideri diventano realtà, tutto ciò che vuoi…»). Ovviamente, il tutto accadeva nei momenti meno opportuni, in particolare quando Chris stava lavorando sulle battute. «Puoi accendere la TV», aveva suggerito Sharon alla sua datrice di lavoro, «non c’è problema. Riesco a concentrarmi e a cantare con qualunque tipo di rumore esterno. Non mi disturberà nemmeno un po’». Adesso era arrivata alla meditazione trascendentale. «Pensi davvero che questa roba ti possa portare qualche vantaggio, Sharon?», domandò Chris con un tono privo di espressione. «Mi restituisce la pace interiore», rispose Sharon. «Giusto», replicò seccamente Chris. Le diede la buonanotte e si voltò per raggiungere Regan.
Nemmeno una parola sulla lettera urgente, e mentre lasciava la cucina si trovò a sussurrare «Nam myoho renge kyo». «Continua per quindici o venti minuti», suggerì Sharon, «forse avrà effetto anche su di te». Chris rimase immobile per un istante, cercando una risposta misurata. Non ne trovò. Arrivata in camera di Regan, al piano di sopra, si diresse subito verso l’armadio. Sua figlia era in piedi al centro della stanza, lo sguardo fisso al soffitto. «Che ci fai là immobile?», le chiese mentre setacciava il guardaroba in cerca del vestito. L’aveva comprato la settimana prima e se lo ricordava bene lì, appeso nell’armadio. «Che rumori strani», disse Regan. «Lo so. Ci sono dei piccoli amici lassù». Regan la guardò incuriosita. «Eh?». «Abbiamo degli scoiattoli in soffitta, tesoro». La bambina detestava i ratti, ne aveva una paura incontrollata, non sopportava neppure la vista di un topolino. Le ricerche non davano alcun risultato. «Lo vedi, mamma, non c’è». «Sì, lo vedo. Forse l’ha preso Willie, avrà pensato fosse da lavare». «È sparito». «Bene, vuol dire che metterai l’abitino blu. È carino anche quello». Andarono all’Hot Shoppe. Un’insalata per Chris, per Regan invece zuppa, pollo fritto, quattro involtini, un frullato al cioccolato e una fetta abbondante di torta ai mirtilli col gelato al caffè. Dove nasconde tutta questa roba, si chiese Chris teneramente, se la fa scivolare dentro le maniche? Il corpo della bambina era esile, delicato come una flebile speranza. Sorseggiando il suo caffè, Chris accese una sigaretta. Attraverso la finestra guardava il fiume scuro e immobile, come in attesa. «La cena era buonissima, mamma». Chris osservò sua figlia e trattenne il fiato. Ancora quel senso di oppressione: nel viso di Regan ritrovava chiari i lineamenti di Howard. Forse era la luce a darle quest’impressione. Spostò lo sguardo verso il piatto della bambina. «Quel pezzo di torta? Non lo mangi?», le chiese Chris. Regan aveva gli occhi bassi: «Oggi ho mangiato un po’ di caramelle…». Chris spense la sigaretta e si mise a ridere. «Dai, torniamo a casa», disse allegra. Arrivarono a casa poco prima delle sette. Willie e Karl erano già tornati. Regan scappò subito al piano inferiore, verso la stanza dei giochi: non vedeva l’ora di finire la scultura per la mamma. Chris si diresse in cucina per recuperare il suo copione. Willie era lì che preparava un caffè alla vecchia maniera, col pentolino senza coperchio. Aveva un’aria scontrosa e come irritata. «Buonasera Willie, come avete trascorso la serata? Siete stati bene?». «Per favore, non ne parliamo». La donna aggiunse un guscio d’uovo e un pizzico di sale nel pentolino, dove qualcosa bolliva rumorosamente. Willie le spiegò che l’intenzione era di andare al cinema. Lei voleva vedere un film sui Beatles, ma Karl aveva insistito per vederne uno su Mozart in un piccolo cinema d’essai. «Orribile», disse tra i denti mentre regolava la fiamma del fornello, «quel pezzo di scemo! ». «Mi dispiace», rispose Chris. Prese il copione e se lo mise sottobraccio, poi continuò: «Willie, per caso hai visto il vestito nuovo di Regan? Quello celeste, di cotone?». «Sì, proprio stamattina. Era nell’armadio in camera sua». «E dove l’hai messo?». «È ancora lì». «Forse lo hai preso insieme ai panni da lavare». «È ancora lì». «Insieme ai panni da lavare?». «È nell’armadio». «No, non è lì. Ho controllato». Willie stava per dire qualcosa ma s’interruppe, mordendosi le labbra, e scura in volto abbassò lo sguardo sul caffè. Karl era entrato nella stanza. «Buonasera, signora». Si diresse verso il lavandino per prendere un bicchiere d’acqua. «Hai sistemato le trappole, Karl?». «Niente topi». «Le hai sistemate le trappole?», insisté Chris. «Sì, le ho messe, certo, ma il solaio è pulito». «Raccontami, Karl, il film era bello?». «Entusiasmante». La sua schiena, così come il suo viso, non lasciavano trapelare alcuna emozione. Chris lasciò la cucina, canticchiando un pezzo famoso dei Beatles. Ma poi si voltò di nuovo. Solo un’altra stoccata! «Hai avuto problemi a procurarti le trappole, Karl?». «No, nessun problema». «Alle 6 del mattino?». «Ci sono i market aperti la notte». Cristo!
Chris si concesse un lungo bagno rigenerante. Quando tornò nella sua stanza per indossare la vestaglia, vide il vestito di Regan nel suo guardaroba. Era stropicciato, un mucchietto sulla base dell’armadio. Chris si chinò a raccoglierlo. E questo che ci fa qui? L’etichetta era ancora attaccata. Chris cercò di fare mente locale… Poi ricordò che il giorno in cui aveva comprato il vestito aveva preso pure qualcosa per sé. Sicuramente ho messo tutto insieme nel mio armadio. Raggiunse la stanza di Regan, sistemò ordinatamente il vestito su una gruccia che appese insieme alle altre. Si mise a osservare gli abiti della bambina. Carini, davvero dei bei vestiti. Ehi, piccola, guarda qui quante belle cose, non pensare al tuo paparino che non ti scrive nemmeno due righe… Allontanandosi dall’armadio urtò con l’alluce lo spigolo della cassettiera. Ahi, che male cane! Si prese il piede tra le mani e cominciò a massaggiarlo; notò intanto che il mobile non era nella sua consueta posizione, era spostato di quasi un metro. Chiaro che vado a sbattere! Willie deve aver passato l’aspirapolvere. Scese le scale diretta al suo studio, il copione ancora sottobraccio. Diversamente dal salone, ampio e luminoso con le sue larghe finestre e la vista sul cortile, lo studio sembrava colmo di parole sussurate, di segreti appartenuti a ricchi e nobili parenti. Il caminetto di mattoni, leggermente sopraelevato, le pareti rivestite di quercia scura, le travi del soffitto di un legno anticato che faceva pensare a un vecchio ponte levatoio. Le sole cose che ricordavano il presente erano il mobile bar, aggiunto più tardi, alcuni cuscini colorati e una pelle di leopardo, posta davanti al caminetto, sulla quale Chris si sdraiò, appoggiando la schiena al divano. Diede ancora un’occhiata alla lettera del suo agente. Fede, Speranza e Carità: tre episodi indipendenti, ognuno con un suo cast e un suo regista. Il suo si sarebbe intitolato Speranza. L’idea l’appassionava. Anche il titolo le piaceva. Forse un po’ melenso, ma ad ogni modo raffinato. Niente di strano se poi la distribuzione lo avesse cambiato in qualcosa tipo Rock around the Virtues. Suonò il campanello. Era Burke Dennings. Conduceva una vita molto solitaria e finiva spesso per bussare alla porta di Chris. Quando sentì Burke apostrofare Karl con volgarità, Chris scosse la testa e si lasciò sfuggire un sorriso rassegnato. Sembrava davvero che il regista detestasse il suo domestico: non perdeva mai occasione per provocarlo. «Ehi, bello, dove trovo qualcosa da bere?», chiese Burke rudemente. Intanto era già entrato nella stanza e aveva raggiunto il mobile bar. Lo sguardo impenetrabile, le mani sprofondate nelle tasche dell’impermeabile spiegazzato. Prese posto su uno sgabello. Sembrava nervoso, c’era qualcosa di ambiguo nel suo sguardo. Un’espressione di sconforto, come fosse deluso da qualcosa. «Di nuovo a caccia?», gli chiese Chris. «Che diavolo vuoi dire?», rispose lui, scontroso. «Così sembra, hai quell’aria strana». La conosceva quell’espressione, l’aveva già vista a Losanna quando avevano girato un altro film. Era la prima notte in Svizzera, alloggiavano in un albergo adagiato sulle sponde del lago di Ginevra, e Chris non riusciva a prendere sonno. Alle cinque del mattino, esausta, aveva deciso di alzarsi e vestirsi. Nella hall avrebbe trovato un caffè o perlomeno un po’ di compagnia. Mentre aspettava che l’ascensore arrivasse al suo piano, scorse attraverso una finestra la sagoma del regista. Camminava con passo fermo, rigido, lungo la riva del lago, le mani in tasca a proteggerle dal freddo vento invernale. Quando lei raggiunse la hall, lui stava rientrando nell’albergo. «Nemmeno una puttana in giro!», le disse brusco, amaro, lo sguardo al suolo mentre la incrociava. Una volta che lei gli aveva ricordato ridendo l’accaduto, qualche tempo dopo, era andato su tutte le furie, accusandola di sbandierare ai quattro venti le sue «schifose allucinazioni» a cui si sarebbe dato credito «solo perché a raccontarle è una star!». L’aveva definita «una stronzetta fuori di testa», ma poi aveva precisato, giustificandola in parte, che «probabilmente» aveva incontrato qualcuno, e lo aveva confuso con lui. «Del resto», si era affrettato a precisare, «si dà il caso che la nonna di mia nonna era svizzera». Chris si spostò dietro il bar e non mancò di ricordargli l’incidente. «Smettila di dire cazzate, adesso», le ringhiò addosso Dennings. «Sappi che ho passato tutta la serata a un maledetto tè, un maledetto tè all’università!». Chris si appoggiò al ripiano del bar. «Soltanto un tè? Nient’altro?». «Continua, dai… cos’è quel sorrisino compiaciuto?». «Arrivi ubriaco da un tè», aggiunse lei con freddezza, «in compagnia dei gesuiti». «No, i gesuiti erano sobri».
«Non possono bere?». «Non ti funziona più quel cervello da stronza che ti ritrovi?», le gridò Burke. «Si sono scolati di tutto. Non avevo mai visto niente di simile, sono senza fondo!». «Ehi, datti una calmata, Burke. Abbassa la voce, c’è Regan!». «Già, Regan», sussurrò Dennings. «Dove diavolo è finito il mio bicchiere?». «Mi dici che cosa c’entri tu con un tè all’università?». «Semplici, dannatissime relazioni pubbliche: qualcosa che dovrebbe essere compito tuo!». Chris gli mise in mano un bicchiere di gin con qualche cubetto di ghiaccio. «Cristo, dovresti vedere in che condizioni abbiamo ridotto il loro cortile, il prato…», borbottò Dennings, facendosi serio, il bicchiere alle labbra. «Certo, ridi. Tanto questo sai fare tu: ridere e agitare un po’ il culo». «Il mio è soltanto un sorriso». «Bene, almeno uno di noi dovrà dare una bella immagine di sé». «Dimmi, Burke, quante volte hai parlato di scopate questa sera?». «Piccola, questo è un colpo basso», la riprese Burke. «Dimmi tutto, ora. Come stai?». La risposta fu un’alzata di spalle, svogliata e senza energia. «Morale a terra? Forza, racconta». «Davvero, non lo so nemmeno io». «Su, allo zio puoi dirlo!». «Merda, credo che mi farò un drink anch’io», disse Chris, prendendo un bicchiere pulito. «Ti metterà ordine nello stomaco, brava. Ora sputa il rospo, dai». Chris si versò la vodka nel bicchiere con gesti lenti e controllati. «Hai mai pensato alla morte?». «Oh, per favore…». «La morte», intervenne ancora lei, «hai mai pensato alla morte, Burke, a cosa significa, a cosa significa davvero?». La risposta fu aspra, quasi rabbiosa. «Non ne ho idea. Non lo so, non ci penso. Semplicemente non lo faccio. Come diavolo ti è venuto in mente?». Chris scrollò le spalle e rispose con un filo di voce: «Non lo so». Fece scivolare un po’ di ghiaccio nel suo bicchiere e rimase a osservarlo pensierosa mentre cominciava a sciogliersi. «Sì, forse lo so», cercò di correggersi. «È come se… insomma, stamattina mentre mi svegliavo ci ho pensato, era come un sogno. Non capisco, mi è venuto un pensiero improvviso… cosa vuol dire morire? L’idea della fine, la fine, mi capisci? È stato come se non ne avessi mai sentito parlare prima». Scosse violentemente la testa. «Cristo santo, mi ha spaventato! Mi sono sentita precipitare, quasi fossi lanciata a mille miglia all’ora verso un maledetto pianeta». «Oh, che idiozia. La morte è solo una consolazione», replicò Dennings poco convinto. «Non per me, no davvero, Charlie». «Chiaro, si continua a vivere nei figli». «Oh, lascia perdere! I miei figli non sono me!». «Per fortuna è così. Già uno solo come te è troppo». «Quello che voglio dire è… Pensaci Burke: non esistere, non esserci più, mai più. È tutto così…». «Oh, per Dio, ora basta! Porta le tue chiappe al tè dell’università la prossima settimana, e chissà che quei preti per te non abbiano qualche buona parola». Burke fece sbattere con violenza il bicchiere: «Dammi un altro gin». «Sai, non sapevo che bevessero». «Logico, sei una cretina». I suoi occhi avevano assunto un’espressione cattiva. Stava per raggiungere il punto di non ritorno?, si chiese Chris. Come se gli avesse toccato un nervo scoperto. Era davvero così? «I gesuiti si confessano?», domandò. «Perché dovrei saperlo?», rispose in uno scatto Denings. «Be’, se non ricordo male studiavi per diventare…». «Riempi questo cazzo di bicchiere!». «Ti porto un po’ di caffè?». «Scherzi? Voglio un drink». «Prendi del caffè». «Da brava, su, solo uno per il viaggio». «Ti aspetta un lungo viaggio?». «Non è per niente divertente, e io non sopporto di bere senza divertirmi. E ora, dannazione, dammi da bere!». Spinse il bicchiere sul ripiano del bar e Chris gli versò altre due dita di gin. «Credo che dovrei chiedere a qualcuno di loro di venirmi a trovare», sussurrò a quel punto Chris. «Loro chi?». «Be’, uno di loro», rispose lei stringendosi nelle spalle, «sono loro gli ingranaggi: insomma, i preti». «Non te ne libererai più, sono dei profittatori del cazzo», ringhiò Dennings svuotando d’un fiato il suo bicchiere. Sì, sta cominciando a perdere il controllo, pensò Chris e si affrettò a cambiare argomento. Si mise a raccontare del nuovo copione e della proposta di dirigere un film. «Oh, una buona notizia!», sospirò Dennings. «Ho un po’ paura». «Cazzate, piccola. L’unica cosa davvero difficile per un regista è far sembrare difficile il suo lavoro. Non ne sapevo nulla quando ho iniziato questo mestiere, eppure vedi, eccomi qui. È un gioco da ragazzi». «Burke, voglio essere sincera con te. Adesso che qualcuno mi ha offerto davvero la possibilità di dirigere degli attori, non mi sento in grado nemmeno di dirigere mia nonna per aiutarla ad attraversare la strada. Cioè, tutte quelle questioni tecniche…». «Sii ragionevole, a questo ci pensano il montatore, la segreteria di produzione, gli operatori di ripresa. Scegli persone capaci, e loro risolveranno per te questi problemi. L’unica cosa che conta è saperci fare con il cast, e in questo tu saresti meravigliosa, semplicemente meravigliosa. Non solo puoi spiegare agli attori come si devono muovere o come devono recitare una battuta, tu puoi mostrarglielo, farglielo vedere! Capisci, tesoro? Ti ricordi di Paul Newman ne La prima volta di Jennifer? Be’, tienilo a mente e non essere così in ansia».
Non sembrava ancora convinta. «Lo so, ma è la parte tecnica che mi preoccupa». Che fosse ubriaco o sobrio, Dennings restava comunque il miglior regista in attività. Desiderava avere un suo consiglio. «Per esempio? Cosa ti preoccupa?», le chiese lui. Per quasi un’ora Chris affrontò lo scoglio dei dettagli tecnici. Tutte questioni che lei avrebbe potuto risolvere con un buon manuale, ma non aveva pazienza sufficiente per leggere. Sapeva, però, leggere nelle persone. Era curiosa di natura, riusciva a spremere, a scavare negli altri. Nei libri, invece, non si può scavare, sono duri come pietre. Dicono “perciò” e “chiaramente” quando non è chiaro proprio nulla, e non si possono sfidare i loro contorti ragionamenti. Non si possono interrompere con la stessa furbizia dell’ingenuo che dice: «Un attimo, sono un po’ lento. Me lo spiegheresti di nuovo?». Non possono essere trattenuti, inchiodati, sezionati, esplorati al loro interno, i libri. Sono come Karl. «Tesoro, quello di cui hai bisogno è un montatore in gamba», tagliò corto il regista; poi aggiunse, quasi ridendo, «uno che sappia il fatto suo, un professionista». Aveva assunto un atteggiamento più accomodante e vivace. Sembrava che il punto critico fosse ormai superato. «Chiedo scusa, signora. Ha bisogno di qualcosa?». Karl era in piedi, ritto sulla soglia dello studio. «Ehi, guarda chi si vede, Thorndike!», sghignazzò Dennings. «O ti chiami Heinrich? Non riesco a fissarmelo in testa». «Karl. Mi chiamo Karl». «Oh, sicuro, Karl. Dannazione, l’avevo dimenticato. Aiutami a ricordare, Karl… Mi avevi detto che quando lavoravi per la Gestapo ti occupavi di relazioni pubbliche o di relazioni sociali? Penso che non sia proprio la stessa cosa». La risposta di Karl fu molto cortese. «Niente di tutto questo, signore. Io sono svizzero». «Certo, certo», disse il regista, senza trattenere una risata. «Quindi ne deduco che non ti sei mai fatto una partita a bocce con Goebbels». Karl si voltò verso Chris, ostentando indifferenza. «E nemmeno un giro in aereo con Rudolph Hess!». «La signora ha bisogno di qualcosa?». «Ah, per me nulla. Ti va del caffè, Burke?». «Vaffanculo!». Il regista si alzò di scatto. Con aria minacciosa abbandonò la stanza e d’un tratto uscì dalla casa sbattendo la porta dietro di sé. Chris scosse la testa in un gesto di disapprovazione; poi si rivolse a Karl. «Stacca i telefoni», ordinò con voce spenta. «Subito, signora. Altro?». «Oh, forse un decaffeinato, grazie. Dov’è Rags?». «Nella stanza dei giochi, al piano di sotto. Vuole che la chiami?». «Si, è ora di andare a letto. Anzi, aspetta, forse è meglio che vada io, così potrà mostrarmi la sua scultura. Preparami il caffè, per favore». «Certo, signora». «Mi dispiace per Burke. Ti chiedo scusa per la milionesima volta». «Non ci bado». «Lo so. È per questo che gli brucia così tanto». Chris raggiunse l’atrio, aprì la porta del seminterrato e scese le scale diretta alla stanza dei giochi. «Ehi, puzzola, che combini là sotto? Hai finito il tuo uccello?». «Oh, sì, mamma! Corri, vieni a vederlo!». La stanza era molto allegra, i muri decorati con pannelli dai colori vivaci. Il cavalletto, i quadri, un giradischi, tavoli per giocare e per lavorare l’argilla. Bandierine rosse e bianche ancora appese al soffitto, ricordo del decimo compleanno del figlio dei precedenti inquilini. «Ehi, ma è fantastico!», esclamò Chris quando vide la statuetta tra le mani della bambina. Non era ancora del tutto asciutta. C’era qualcosa del “rapace” in quella figura. Era dipinta di arancione, tutta tranne il becco, segnato da linee bianche e verdi sui due lati. Incollato sul capo c’era un ciuffetto di piume. «Ti piace davvero?», chiese Regan. «Oh, tesoro, mi piace tantissimo. Ha già un nome?». «Mmm…». «Vediamo, quale potrebbe essere?». «Non lo so», rispose timidamente Regan. «Fammici pensare», disse Chris ticchettando con le dita sui denti. «Non saprei… Tu che dici? Che te ne pare di Picchio-Picchiatello? Così, semplicemente Picchio-Picchiatello. Eh ?». Regan cercava di trattenere una risata, la mano premuta sulla bocca a coprire l’apparecchio per i denti. «Picchio-Picchiatello all’unanimità, allora! Lo lascerò ancora qui perché si asciughi del tutto, poi lo sistemerò in bella vista in camera mia». Chris stava per poggiare la scultura sulla scrivania quandò notò la tavola Ouija. Era ripiegata sulla scrivania. Si era dimenticata di averla. Era curiosa verso se stessa quasi quanto lo era nei confronti degli altri, e l’aveva comprata nella speranza di riuscire a indagare il suo subconscio. Ma non aveva funzionato. L’aveva usata due o tre volte con Sharon e una con Dennings, che aveva spostato a suo piacimento la placchetta di plastica così da rendere sconci tutti i messaggi («Ehi, pupa, sei tu a muoverla?»). Aveva poi concluso dando la colpa a quei «pezzi di merda di spiritelli». «Hai giocato con la tavola Ouija?». «Sì, qualche volta». «E sai come si usa?». «Oh, ma certo! Vieni, ti faccio vedere». Stava già avvicinandosi al tavolo per aprire la scatola. «Sai, tesoro, credo che ti serva un’altra persona per giocare». «No, non serve! Gioco sempre da sola». Chris prese una sedia e la portò accanto al tavolo. «Forza, allora, giochiamo insieme». Un attimo di esitazione. «Va bene, okay». La bambina aveva la punta delle dita appena poggiata sulla tavoletta bianca. Quando Chris avvicinò la mano, la placchetta ebbe un sobbalzo improvviso, e rapidamente si spostò sulla sezione della tavola che indicava la parola NO. «Mamma, preferirei farlo da sola». Chris le sorrise, un po’ sulle spine. «Ah, è così? Non vuoi giocare con me?». «No, io voglio! È il capitano Howdy che ha detto di no!». «Quale capitano?». «Il capitano Howdy». «Tesoro, chi è il capitano Howdy?». «Be’, io gli chiedo le cose e lui mi risponde». «Come?». «Sì, è molto gentile». Chris fece di tutto per non lasciar trapelare la sua inquietudine. La bambina aveva provato un amore sconfinato per il padre ma in effetti non aveva mai mostrato una reazione evidente di fronte al divorzio dei genitori. E a Chris questo non piaceva. Forse la notte piangeva, sola nella sua stanza. Questo non poteva saperlo. Ma Chris era terrorizzata all’idea che la figlia potesse reprimere le sue emozioni, che un giorno avrebbero potuto esplodere e prendere forme strane e dannose. Forse era un amico immaginario. Non era tranquillazzante, non sembrava naturale. E poi perché Howdy? Un nomignolo per Howard, suo padre? Era credibile che fosse così. «Fammi capire: non sei riuscita a trovare un soprannome per il nostro uccellino, e adesso mi tiri fuori qualcosa come “il capitano Howdy”? Perché lo chiami così?».
«Perché è il suo nome!», rispose ridendo Regan.
«E come lo sai?».
«Me l’ha detto lui».
«Giusto».
«Esatto».
«E cos’altro ti dice?».
«Mah, delle cose…».
«Che genere di cose?». Regan si strinse nelle spalle. «Solamente delle cose…».
«Per esempio?».
«Ti faccio vedere. Gli farò qualche domanda».
«Okay, fammi vedere».
La bambina guardava la tavoletta Ouija con attenzione, sembrava molto concentrata. Con la punta delle dita accarezzava appena la placchetta di plastica.
«Capitano Howdy, che ne dici, è bella la mia mamma?». Un secondo… cinque… dieci… venti… «Capitano Howdy, mi senti?». Ancora qualche secondo. Chris si aspettava di vedere Regan impegnata a far scivolare la tavoletta bianca verso il SÌ. Oh, santo cielo, ma che le prende? Forse un’ostilità latente nei miei confronti? È tutto così insensato! «Capitano Howdy, non è tanto carino da parte tua», disse Regan, come per sgridarlo. «Tesoro, magari sta dormendo». «Lo pensi davvero?». «Sì, e penso che anche tu dovresti andare a letto». «Di già?». «Forza, piccola! Subito a nanna!», disse Chris alzandosi. «È proprio antipatico», borbottò Regan prima di seguire la madre su per le scale. Chris le rimboccò le coperte e sedette sul bordo del letto. «Tesoro, domenica ho tutta la giornata libera. C’è qualcosa che ti piacerebbe fare?». «Cosa?». Appena trasferiti a Washington, Chris aveva fatto di tutto per trovare qualche amichetta per Regan. Ne aveva rimediata soltanto una, una dodicenne di nome Judy. Ma adesso lei era via con i genitori per le vacanze di Pasqua, e Chris temeva che Regan si sentisse sola. «Non lo so, quello che preferisci», aggiunse Chris. «Che ne dici di un giro turistico? I ciliegi sono già tutti in fiore, possiamo andarli a vedere! Che te ne pare?». «Oh, sì, mamma!». «E domani sera un bel film! Che ne dici?». «Mamma, ti adoro!». Regan le si lanciò addosso per abbracciarla e Chris la strinse a sé con tenerezza, sussurando: «Anch’io ti adoro, tesoro». «Puoi portare anche il signor Dennings, se vuoi». Chris si ritirò per guardarla in viso. «Il signor Dennings?». «Sì, voglio dire, non è un problema». Chris si mise a ridere. «No, aspetta. Perché dovrei voler portare con noi il signor Dennings?». «Be’, perché ti piace». «Oh, certo che mi piace, tesoro. A te non piace?». La bambina non rispondeva. «Piccola, che succede?», provò ancora Chris. «Lo sposerai, vero mamma?». Il tono era quello di una semplice constatazione. Chris rise, questa volta fragorosamente. «Oh, tesoro, certo che no! Come ti salta in mente? Il signor Dennings?». «Ma se ti piace…». «Mi piace pure la pizza, ma non mi sposerei mai con una pizza! Piccola, è solo un amico, un vecchio amico un po’ matto». «Non ti piace come ti piace papà?». «Io amo tuo padre, tesoro, e lo amerò sempre. Il signor Dennings viene così spesso a casa nostra perché è molto solo. Tutto qui, è solo un amico».
«Insomma, io però ho sentito…».
«Cosa hai sentito? Da chi?».
Gli occhi erano lucidi ed esitanti, la bambina cercava di trattenersi. Poi si strinse nelle spalle, come volesse rimuovere la questione.
«Non lo so. Ecco, io pensavo che…».
«Dimenticatelo: è solo una sciocchezza, va bene?». «D’accordo».
«E ora dormi».
«Posso leggere un po’? Non ho ancora sonno».
«Certo che puoi, cucciolo. Leggi il libro che abbiamo comprato, poi vedrai che il sonno arriverà».
«Grazie, mamma». «Buonanotte, tesoro». «Buonanotte».
Già sulla soglia, Chris le indirizzò un bacio con le mani. Chiusa la porta, si diresse verso lo studio. I bambini! Ma dove prendono tutte queste idee? Si chiese se Regan non avesse messo in relazione Dennings con la sua volontà di divorziare. Oh, ma dai, che scemenza! Tutto quello che la bambina sapeva era che era stata Chris a chiedere la separazione. Ma anche Howard la voleva. Troppe assenze. Erosione dell’ego: tipico nei mariti delle star. Aveva trovato un’altra, ma Regan non l’aveva mai saputo. Oh, perché non la pianti con questa psicanalisi da quattro soldi e cerchi invece di passare un po’ più di tempo con lei? Una volta nello studio, riprese a leggere la sceneggiatura. Era quasi arrivata a metà quando vide Regan che si stava avvicinando.
«Ehi, tesoro. Qualcosa non va?». «Sento ancora quegli strani rumori, mamma». «Nella tua stanza?». «Sembra che stiano bussando. Io non ci torno a letto!». Dove diavolo ha sistemato quelle trappole, Karl! «Vai a dormire nel mio letto, cucciolo. Io vado a dare un’occhiata». Chris l’accompagnò in camera e le rimboccò le coperte. «Posso guardare la TV?». «Dov’è il tuo libro?». «Non lo trovo più. Posso, mamma?». «Certo, certo che puoi». Chris accese il piccolo televisore che era nella stanza. «Il volume va bene?». «Sì, mamma». «Dormi adesso, mi raccomando». Dopo aver spento la luce Chris attraversò il corridoio. Poi salì la stretta rampa di scale che portava in soffitta. Aprì la porta, cercando nel buio l’interruttore. Lo trovò e lo fece scattare. Sull’uscio si fermò immobile a osservare. Diede un’occhiata in giro. Qualche scatola di cartone, dei ritagli di giornale, un po’ di vecchia corrispondenza. Sul tavolato di legno di pino non c’era altro. A parte le trappole. Erano sei, pronte a scattare. Era tutto in ordine, pulitissimo. Lo si sentiva pure nell’aria, fresca. Non c’era riscaldamento nel solaio, quindi niente tubi, niente termosifoni. Nessuna infiltrazione dal soffitto. «Qui non c’è niente di niente». Chris ebbe un sobbalzo. «Oh, santo cielo!», gridò mentre girava su se stessa, una mano sul cuore che batteva all’impazzata. «Cristo santo, Karl, non farlo mai più!». Era fermo, immobile sugli ultimi scalini. «Mi scusi tanto. Però ha visto? È tutto pulito». «Sì, pulitissimo. Grazie davvero». «Meglio un gatto, non crede?». «Che?». «Per prendere i topi. Un gatto». Non attese risposta. Fece un cenno col capo e sparì. Per un istante Chris rimase a guardare l’uscio rimasto aperto. Delle due l’una: o il senso dell’umorismo di Karl era del tutto inesistente, o forse era così sottile da sfuggire alla sua comprensione. Non sapeva per quale delle due ipotesi optare. Continuava a pensare a quel ticchettio, a quel rumore di zampette. Si mise a guardare il tetto spiovente. A fare ombra alla strada c’erano diversi alberi, molti dei quali con rami nodosi e tronchi ricoperti di edera. Un tiglio enorme aveva assunto una forma insolita, simile a un fungo. La sua chioma imponente nascondeva la casa fino al terzo piano. Che si trattasse davvero di scoiattoli? Forse, forse i rami secchi. Certo, i rami. Del resto, le notti precedenti erano state molto ventose. Meglio un gatto. Chris guardò di nuovo verso l’uscio. Davvero spiritoso. Le sfuggì un sorriso malizioso. Raggiunse la stanza di Regan al piano di sopra, trasportò qualcosa in solaio, e dopo un minuto era già nella sua stanza. La bambina dormiva. La riportò nella sua camera e la mise a letto. Fece la strada al contrario e si preparò per andare a dormire anche lei. La casa rimase quieta e silenziosa fino al mattino successivo. Il giorno dopo, mentre faceva colazione, Chris riferì con aria noncurante a Karl che durante la notte le era sembrato di sentire il rumore di una trappola che scattava. «Ti dispiace andare a controllare?», domandò garbatamente. Stava sorseggiando il caffè e fingeva di essere molto presa dalla lettura del giornale. Senza rispondere, Karl andò a verificare al piano di sopra. Chris lo incrociò nel corridoio al secondo piano mentre tornava verso la cucina. Reggeva in una mano un grosso topolino di peluche e lo guardava con occhi fissi e inespressivi. Lo aveva trovato col muso stretto in una trappola. Mentre si dirigeva verso la sua camera, Chris fece una smorfia in direzione del pupazzo. «C’è qualcuno che si sta divertendo», mormorò Karl quando le fu accanto. Riportò il peluche in camera della bambina. «Succedono cose strane in questa casa», borbottò Chris, scuotendo la testa sulla soglia della sua camera. Si levò la vestaglia e si preparò per recarsi sul set. Meglio un gatto, eh, vecchio mio? Molto meglio. Ogni volta che rideva, era come se la pelle del viso le si increspasse. Quel giorno le riprese andarono avanti senza intoppi. Nella tarda mattinata Sharon aveva raggiunto il set e in una pausa tra due scene, nel camerino di Chris, avevano sbrigato un po’ delle cose rimaste in sospeso: una lettera per il suo agente (avrebbe valutato il copione), un bel “sì” per la Casa Bianca, un telegramma per Howard perché non dimenticasse il compleanno di Regan, una richiesta di consulenza al commercialista per capire se poteva permettersi di smettere di lavorare per un anno, l’organizzazione di una cena per il 23 aprile. Nel pomeriggio Chris accompagnò Regan al cinema, e il giorno seguente fecero un bel giro con la Jaguar per vedere le attrazioni turistiche di Washington. Il monumento a Lincoln, il Campidoglio, la distesa dei ciliegi in fiore. Visitarono poi il cimitero di Arlington e la tomba del milite ignoto. Regan assunse un’aria quasi solenne, e più tardi, davanti alla tomba di J.F. Kennedy, sembrò farsi seria, triste. Fissò a lungo il “fuoco perpetuo”, poi si aggrappò alla mano di Chris. «Mamma, perché le persone devono morire?». La domanda fu per Chris come una pugnalata. Oh, Rags, anche tu? Anche tu? Oh, no! E cosa avrebbe potuto risponderle? Avrebbe dovuto mentire? Non ci sarebbe riuscita. Guardò il viso della bambina, gli occhi che incrociavano i suoi, lucidi di pianto. Era riuscita a leggerle nel pensiero? L’aveva fatto così spesso… era già successo tante volte. «Tesoro, arriva un momento in cui la gente si sente stanca», rispose con tenerezza. «E perché Dio glielo permette?». Chris spalancò gli occhi. Era molto confusa, turbata. Da atea, non aveva dato a Regan nessuna educazione religiosa. «Chi ti ha parlato di Dio, Regan?», le chiese. «Sharon». «Capisco». Le avrebbe detto due paroline in proposito. «Mamma, perché Dio permette che le persone si stanchino?». Chris si arrese; non poteva resistere davanti a quegli occhi inquieti e sofferenti. Non poteva dirle davvero quello in cui credeva. «Sai Rags, dopo un po’ Dio ha nostalgia di noi, gli manchiamo tanto. E allora vuole che torniamo da lui». Regan la seguì senza parlare. Rimase in silenzio per tutto il viaggio di ritorno, e quell’umore cupo non l’abbandonò per il resto della serata e durante il lunedì. Sembrò tutto passato il giorno del suo compleanno, martedì. Chris l’aveva portata sul set, e quando le riprese furono ultimate tutto il cast e la troupe cantarono «tanti auguri a te» per la bambina davanti a una grande torta. Gentile e cortese, come sempre quando era sobrio, Dennings lasciò accesi i riflettori e girò la scena del taglio della torta. Disse che era un “provino” e le promise che avrebbe fatto di lei una stella del cinema. Sembrava tornata serena e felice. Ma dopo cena, una volta aperti i regali, di nuovo l’allegria di Regan parve dissolversi. Nessuna notizia di Howard. Chris provò a contattarlo a Roma, ma all’albergo le dissero che non lo vedevano da settimane e che non avevano un nuovo recapito. Era da qualche parte a bordo di uno yacht. Chris cercò di giustificarlo davanti alla figlia. La piccola annuì, dimessa. Ma scosse la testa quando Chris le propose di andare a prendere un frullato all’Hot Shoppe.
Senza aggiungere nemmeno una parola, si rintanò nella stanza dei giochi nel seminterrato e vi rimase fino al momento di andare a letto.
Il mattino seguente, quando Chris aprì gli occhi, trovò Regan nel suo letto, mezzo addormentata. «Ehi, ma che diavolo… Che ci fai tu qui?», le chiese ridendo. «Il mio letto stava tremando».
«Che dici, sciocchina!». Chris le baciò i capelli, scostando le coperte.
«Ora a nanna. È ancora troppo presto». Quello che sembrava un mattino qualunque era l’inizio di una notte senza fine.

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