Parte Terza. Cap. II

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Karras inserì la cassetta in una bobina libera. Si trovava nell’ufficio del direttore dell’Istituto di Scienze Linguistiche, un uomo paffuto e brizzolato. Aveva separato i diversi segmenti della registrazione su nuove cassette e ora stava per ascoltare la prima. Azionò l’apparecchio e si allontanò dal tavolo. Ascoltarono quella voce febbricitante borbottare parole incomprensibili con un’intonazione gutturale. Poi il sacerdote si rivolse al direttore: «Che cos’è, Frank? È una lingua?». Il professore era appoggiato al bordo della scrivania. Per tutto il tempo, la fronte aggrottata, rimase in ascolto, pensieroso e perplesso. «Molto strano. Dove l’hai presa?». Karras fermò il nastro. «Oh, ce l’ho da diversi anni, da quando lavoravo a un caso di doppia personalità. Sto scrivendo un articolo sull’argomento». «Capisco». «Allora, che mi dici?». Il direttore si sfilò gli occhiali e prese a mangiucchiare la montatura tartarugata. «No, non somiglia a nessuna delle lingue che ho sentito in vita mia. Comunque…». Ancora la fronte aggrottata. Poi sollevò lo sguardo verso Karras. «Lo ascoltiamo un’altra volta?». Karras riavvolse il nastro e riavviò. Lo sentirono di nuovo. «Ora dimmi, cosa ne pensi?». «Ecco, ha la cadenza di un discorso». Karras sentì un moto di speranza. Cercò di reprimerlo. «Sì, avevo pensato la stessa cosa», concordò. «Però non riesco a riconoscere l’origine, padre. È una lingua antica o moderna? Insomma, sai dirmi qualcosa in più?». «No, niente». «Be’, perché non mi lasci il nastro? Farò una verifica con qualcuno dei ragazzi che lavorano con me». «Potresti farne una copia, Frank? Vorrei tenere io l’originale». «Oh, sì, naturalmente». «Intanto avrei qualcos’altro da chiederti. Hai un po’ di tempo?». «Sì, non preoccuparti. Dimmi pure, qual è il problema?». «Ecco, se ti consegno dei frammenti di alcuni discorsi ordinari apparentemente pronunciati da due persone diverse, tu saresti in grado, tramite un’analisi semantica, di dirmi se una sola persona sarebbe stata capace di produrre entrambe le modalità di discorso?». «Oh, credo di sì». «Come?». «Ecco, attraverso un’analisi della frequenza delle marche tipiche, un modo di procedere, credo, come un altro. Con un campione di un migliaio o più di parole, è sufficiente fare una verifica del numero di occorrenze nelle varie parti del discorso». «E si potrebbero trarre delle conclusioni definitive?». «Sì, certo, o perlomeno molto attendibili. Capisci, con questo tipo di esame si possono individuare tutte le variazioni e gli scarti dal vocabolario di base. Non solo per quanto riguarda le parole, ma anche per l’espressione utilizzata, lo stile insomma. Lo chiamiamo “indice di varietà”. Molto oscura come definizione per i non addetti ai lavori, il che, ovviamente, è quello che vogliamo». Il direttore sorrise con ironia. «Nelle cassette ci sono le voci di entrambe le persone, dico bene?». «No. La voce e le parole sono state pronunciate da una persona sola, Frank. Come ti dicevo, era un caso di sdoppiamento della personalità. Anche a me le parole e le voci sembrano totalmente differenti, ma entrambe provengono dalla bocca di una persona sola. Senti, mi serve un grosso favore…». «Vuoi che le confronti? Lo faccio volentieri. Le darò a uno dei miei ricercatori». «No, Frank, il favore sta proprio in questo: vorrei che lo facessi tu e nel più breve tempo possibile. È terribilmente importante». Il direttore poté leggere l’urgenza di quella richiesta negli occhi del sacerdote. Annuì. «Va bene, va bene. Ci penso io». Fece le copie delle due cassette e Karras tornò nella sua stanza con gli originali. Trovò un messaggio che era stato fatto scivolare sotto la porta. La documentazione della clinica Barringer era arrivata. Si affrettò alla reception e firmò la ricevuta di consegna. Rientrato in camera, iniziò subito a leggere e si convinse immediatamente che la sua spedizione all’Istituto di Lingue era stata inutile: …segnali di ossessione da colpa con conseguente sonnambulismo isterico… Rimaneva spazio per i dubbi. Sempre più spazio. Diverse possibilità d’interpretazione. Però le stigmate di Regan… Karras nascose il viso esausto tra le mani. Le tracce sulla pelle di cui gli aveva parlato Chris erano citate anche nella cartella clinica. Si accennava però al fatto che Regan aveva un’ipersensibilità cutanea e che avrebbe potuto procurarsi volontariamente quei segni misteriosi semplicemente tracciandoli col dito sulla carne pochi istanti prima della loro comparsa. Dermografia. Se li è fatti da sola, borbottò tra sé Karras. Ne era sicuro, dato che, non appena le mani della bambina erano state immobilizzate con le cinghie di contenzione, lo strano fenomeno non si era più ripetuto. Simulazione. Conscia o inconscia che fosse. Comunque una simulazione. Sollevò il capo dalle carte e guardò il telefono. Frank. Avrebbe dovuto chiamarlo, dirgli di interrompere l’analisi? Prese il ricevitore e compose il numero. Non rispose nessuno. Lasciò un messaggio in segreteria perché lo richiamasse. Poi, sfinito, Karras si alzò e si diresse lentamente in bagno. Si sciacquò la faccia con l’acqua fredda. «L’esorcista deve in primo luogo prendere tutte le precauzioni affinché ogni manifestazione del paziente venga tenuta adeguatamente in conto…». Sollevò lo sguardo sul suo viso riflesso nello specchio. Aveva dimenticato qualcosa? Cosa? L’odore di sauerkraut. Si girò, prese l’asciugamano e si asciugò la faccia. Autosuggestione, ricordò a se stesso. Inoltre, la malattia mentale sembra essere in grado, in determinate circostanze, di coordinare inconsciamente le funzioni del corpo, fino a far produrre una varietà di odori. Karras si asciugò le mani. Quei colpi martellanti… il cassetto che si apre e si chiude. Psicocinesi? Davvero? «Lei crede in questa robaccia?». Si fermò mentre riponeva l’asciugamano, improvvisamente conscio che i suoi pensieri non erano lineari. Troppo stanco. Ma non si sentiva di abbandonare Regan al gioco delle supposizioni, dei pareri, alle trappole feroci della mente. Lasciò la stanza e si diresse alla biblioteca universitaria. Fece una ricerca nella Guida alle riviste scientifiche: Po… Pol… Polte… Trovò quello che cercava e sedette al tavolo con una rivista. Cercava un articolo, un’indagine sui fenomeni di poltergeist scritta dallo psichiatra tedesco Hans Bender. Non c’erano dubbi, concluse a lettura ultimata: i fenomeni di psicocinesi erano un fatto reale, erano stati documentati con precisione, filmati, osservati in cliniche psichiatriche. E in nessuno dei casi citati nell’articolo venivano posti in relazione con la possessione demoniaca. Al contrario, l’ipotesi prevalente riguardava una speciale energia prodotta dal cervello umano; solitamente, e agli occhi di Karras il dato era molto significativo, erano interessati soggetti adolescenti in stato di «tensione interiore estremamente elevata, accompagnata da frustrazione e rabbia». Karras si strofinò gli occhi affaticati. Sentiva ancora di non aver fatto tutto il possibile. Ripercorse col pensiero la lista dei sintomi, uno a uno, come un bambino che gioca a colpire con un legnetto tutte le piccole assi di uno steccato bianco. Quale aveva dimenticato?, si chiese. Quale? La risposta, concluse esausto, era: nessuno. Restituì la rivista al banco consultazioni. Raggiunse a piedi la villetta di Chris MacNeil. Ancora una volta fu Willie ad aprirgli e ad accompagnarlo allo studio. La porta era chiusa. Willie bussò. «C’è padre Karras», annunciò. «Avanti». Karras entrò e chiuse la porta alle sue spalle. Chris era in piedi con la schiena rivolta al sacerdote, la fronte poggiata sulla mano, il gomito sul bancone del mobile bar. «Salve, padre». La sua voce era un sussurro aspro e flebile. Preoccupato, Karras si avvicinò. «Sta bene?», chiese con dolcezza. «Sì, tutto a posto». Nella sua voce c’era una tensione palpabile. Il sacerdote rimase interdetto. Il volto della donna era coperto dalla mano. Una mano tremante. «Novità?», chiese. «Ho visto la documentazione della clinica». Esitò. La donna non reagì. Riprese a parlare. «Vede, io penso che…». Ancora una pausa. «Ecco, la mia opinione, sinceramente, è che il più grande aiuto per Regan possa venire da un ricovero in una struttura psichiatrica per delle cure intensive». Chris scosse lievemente il capo, avanti e indietro. «Dov’è suo padre?», le chiese. «In Europa», rispose lei in un bisbiglio. «Gli ha comunicato quello che sta succedendo?». Ci aveva pensato tante volte a raccontargli tutto. Era stata sul punto di farlo. Forse la crisi li avrebbe potuti far tornare insieme. Ma Howard e i preti… Per il bene di Regan, aveva deciso di non dirgli nulla. «No», rispose a bassa voce. «Credo che sarebbe d’aiuto se fosse qui anche lui». «Senta, niente può essere d’aiuto se non qualcosa che non si può vedere», sbottò Chris, voltando verso il sacerdote il viso rigato di lacrime. «Qualcosa che non si può vedere!». «Credo che dovrebbe mandarlo a chiamare». «Perché?». «Ecco, potrebbe…». «Dannazione, io le ho chiesto di cacciare un demone, non di farne arrivare un altro!», gridò Chris a Karras, in un improvviso scatto isterico, il viso sconvolto dall’angoscia. «Che succede, all’improvviso non parla più di esorcismo?». «Ecco…». «Che me ne faccio di Howard in questo momento, cazzo?». «Possiamo discutere la cosa…». «Discutiamone adesso, per Dio! Che cazzo d’aiuto può dare Howard in questo momento? Quale aiuto?». «Ci sono forti probabilità che il disturbo di Regan abbia radici in un senso di colpa per la…». «Per cosa?», urlò ancora Chris, gli occhi feroci. «Potrebbe essere…». «Per la separazione? Ancora queste stronzate da psichiatri?». «Mi ascolti…». «La colpa che sente è per aver ammazzato Burke Dennings!», urlò Chris, tenendosi la testa tra le mani. «Lo ha ammazzato! Lo ha ucciso e ora me la porteranno via, la porteranno via! Dio santo, Dio…». Karras riuscì a sorreggerla mentre la donna si accasciava, scossa dai singhiozzi. La guidò fino al divano. «Va tutto bene», continuava a ripeterle dolcemente. «È tutto a posto». «No, la porteranno via, me la porteranno via», diceva Chris tra le lacrime. «Verranno a prenderla e la metteranno.., oh, Dio santo, Cristo!». «Va tutto bene…». Cercò di calmarla e la fece distendere sul divano. Prese posto su uno dei braccioli e le strinse una mano tra le sue. I pensieri andarono a Kinderman, a Dennings. Ai suoi singhiozzi. Alla situazione irreale che aveva di fronte. «Va tutto bene, è tutto a posto. Si calmi, è tutto a posto». Poco dopo il pianto sembrò placarsi e Karras aiutò Chris a mettersi seduta. Le portò un bicchiere d’acqua e una confezione di fazzoletti che trovò nello scaffale dietro il mobile bar. Poi sedette sul divano anche lui, accanto a lei. «Oh, sono sollevata», disse la donna, respirando forte e soffiandosi il naso. «Dio santo, sono davvero contenta di essermi liberata di questo peso». L’animo di Karras era in tumulto: più la donna si tranquillizzava, più cresceva in lui lo sgomento di fronte a quella rivelazione. Adesso i singhiozzi erano cessati; lentamente il respiro si faceva regolare, solo piccoli singulti in gola. E ora il peso era tutto sulle sue spalle, ancora una volta, grave e oppressivo. Karras si irrigidì. Nient’altro! Non dire nient’altro! «Vuole dirmi qualcosa di più?», chiese con gentilezza. Chris annuì. Sospirò. Si asciugò gli occhi e cominciò a parlare, la voce esitante e rotta dagli spasmi; raccontò di Kinderman, del libro, del fatto che era certa che Dennings fosse salito in camera di Regan, della forza straordinaria della bambina, della personalità di Dennings che Chris aveva riconosciuto nel momento in cui la figlia aveva parlato con la testa rivolta all’indietro, il viso sopra le spalle. Poi si fermò, in attesa di una reazione da parte del prete. Per qualche minuto il sacerdote rimase in silenzio, ripensando a quanto aveva appena ascoltato. Disse infine, con voce sommessa: «Non è certa che sia stata lei». «Ma la testa girata all’indietro…», aggiunse la donna. «Anche lei ha sbattuto la testa contro il muro, piuttosto violentemente», ripose Karras. «Anche lei era in stato di shock. Ha solo immaginato tutto». «È stata lei a dirmi di averlo fatto», ammise allora lei con una voce senza espressione. Una pausa. «E le ha detto anche come ha fatto?», le chiese Karras. Chris scosse la testa. Il gesuita si voltò e la guardò, in attesa. «No», disse. «No». «Allora non ha nessun valore», commentò Karras. «Assolutamente nessun valore, finché lei non fornisce dei dettagli che nessuno, se non l’assassino, potrebbe conoscere». Chris continuava a scuotere la testa. Non era convinta. «Non lo so…», rispose. «Non so se sto facendo la cosa giusta. Credo che sia stata lei a uccidere Burke e ho paura che possa far del male a qualcun altro. Non lo so…». Ancora una pausa. «Padre, cosa devo fare?», chiese poi con una voce priva di speranza. Adesso il peso si era fatto compatto, come un blocco di cemento che nel seccarsi si era modellato secondo la forma della sua schiena. Karras poggiò un gomito sul ginocchio e chiuse gli occhi. «Bene, adesso almeno ne ha parlato con qualcuno», disse calmo. «Ha fatto quello che doveva fare. Ora non ci pensi più, metta da parte tutto e lasci che me ne occupi io». Sentì lo sguardo di Chris su di lui e cercò i suoi occhi. «Si sente un po’ meglio ora?». La donna annuì. «Vorrebbe farmi un favore?», chiese il sacerdote. «Cosa?». «Esca di casa e vada a vedere un film». Col dorso della mano lei si asciugò gli occhi e poi liberò un timido sorriso. «Detesto i film». «Allora vada a trovare un amico». Chris si mise le mani in grembo e posò uno sguardo grato sul sacerdote. «Ho un amico proprio qui con me», disse infine. Karras rispose al sorriso. «Vada a riposare un po’», la ammonì. «Va bene». Gli venne in mente un’altra cosa. «Pensa che sia stato Dennings a portare il libro al piano di sopra? Oppure era già lì?». «Penso che fosse già in camera», rispose Chris. Karras valutò quell’informazione. Poi si alzò in piedi. «Bene, capisco. Ha bisogno della macchina?». «No, la tenga pure». «Va bene, allora. Tornerò da lei più tardi», «Ciao8, padre». «Ciao». Il sacerdote si avviò a piedi, traboccante di quel tumulto interiore. Si sentiva scosso, agitato. Regan. Dennings. Impossibile! Non poteva essere vero! Eppure la sicurezza di Chris, la sua reazione violenta, isterica. Appunto, ecco di che si tratta: fantasie isteriche. Eppure… Inseguiva delle certezze, come fossero foglie morte portate via da un vento tagliente. Quando passò vicino alla lunga rampa di scalini accanto alla casa, udì un suono provenire dal basso, dalla riva del fiume. Si fermò e guardò in direzione del canale. Un’armonica. Qualcuno suonava Red River Valley. La canzone preferita di Karras da quando era ragazzino. Rimase in ascoltò fino a quando il rumore del traffico non la coprì, fino quando la deriva dei suoi ricordi non venne spezzata da un mondo che era presente e tormentato, che invocava aiuto a gran voce, che emetteva sangue e non più fumi di scarico. Infilò le mani in tasca. I suoi pensieri continuavano a correre, febbrili. Verso Chris. Verso Regan. Verso Lucas che scalciava il corpo di Tranquille. Doveva assolutamente fare qualcosa. Ma cosa? Poteva sperare di essere più acuto nella diagnosi dei luminari della Barringer? «…chiami l’ufficio di collocamento per attori». Sì, in fondo lo sapeva che la risposta era quella, la speranza. Si ricordò di un altro caso. Achille. Posseduto. Come Regan, aveva dichiarato di essere lui il diavolo; come Regan, il suo disturbo poggiava su un senso di colpa: rimorso per aver compiuto un adulterio. Lo psicologo che lo aveva in cura, il dottor Janet, aveva approntato una terapia basata su sedute di ipnosi durante le quali gli faceva credere che la moglie fosse presente e che lo perdonasse solennemente. Karras annuì convinto: la suggestione avrebbe potuto funzionare su Regan, ma non attraverso l’ipnosi. Avevano già fatto diversi tentativi alla Barringer. Nessun risultato. La controsuggestione che, secondo lui, avrebbe potuto funzionare, era proprio il rituale dell’esorcismo. La bambina sapeva cosa fosse, conosceva i suoi effetti. La sua reazione all’acqua benedetta. Di sicuro aveva letto qualcosa sul libro. E nel libro c’erano le descrizioni di alcuni esorcismi compiuti con successo. Potrebbe funzionare! Certo, potrebbe funzionare! Ma come ottenere l’autorizzazione dalla curia? Come istruire un caso omettendo la questione dell’incidente capitato a Burke Dennings? Karras non poteva mentire al suo vescovo, non poteva falsificare i fatti. Ma puoi lasciare che i fatti parlino da soli! Ma quali fatti? Si accarezzò la fronte con la mano. Aveva bisogno di dormire, ma non ci riusciva. Sentì l’emicrania crescente gonfiargli le tempie. «Ciao papà!». Quali fatti? La cassetta all’Istituto di Lingue. Chissà cosa avrebbe scoperto Frank. Ma c’era qualcosa da scoprire in quelle registrazioni? No, ma come esserne certo? Regan non aveva riconosciuto la differenza tra l’acqua benedetta e l’acqua del rubinetto. Sicuro. Mettiamo però che sia capace di leggermi nel pensiero, come è possibile che non si sia accorta della differenza? Si mise nuovamente una mano sulla fronte. L’emicrania. La confusione. Cristo, svegliati, Karras! C’è qualcuno che sta per morire! Svegliati! Tornato in camera, chiamò immediatamente l’università. Frank non c’era. Mise giù il telefono. Acqua benedetta. Acqua di rubinetto. C’era qualcosa che non quadrava. Aprì il Rituale alla pagina delle istruzioni per l’esorcismo. «…lo spirito maligno… risposte depistanti… in modo che possa sembrare che il soggetto non sia assolutamente in stato di possessione…». Karras si mise a riflettere. Era successo questo? Ma di che cavolo stanno parlando? Quale “spirito maligno”? Chiuse di scatto il libro e prese a consultare i referti della clinica. Li rilesse da cima a fondo, cercando rapidamente di individuare qualche elemento che potesse tornare utile di fronte al vescovo. Fermo, ecco qui! Non ci sono precedenti di isteria. È già qualcosa. Ma troppo debole. Ci vuole dell’altro, qualche incongruenza. Cosa poteva esserci? Scandagliò disperatamente le reminiscenze dei suoi studi. E qualcosa gli tornò in mente. Non molto, in effetti. Ma qualcosa sì. Sollevò la cornetta e compose il numero di Chris MacNeil. Dalla voce gli sembrò stordita. «Salve, padre». «Stava dormendo? Mi dispiace». «No, tutto a posto». «Chris, dov’è quel medico…». Karras fece scorrere l’indice lungo la pagina del referto. «Il dottor Klein?». «Al Rosslyn». «Nell’edificio degli ambulatori?». «Sì». «Per favore, lo chiami e lo avverta che il dottor Karras passerà al suo studio e che vorrei dare uno sguardo al tracciato dell’encefalogramma di Regan. Mi raccomando, gli dica dottor Karras, Chris? Intesi?». «Sì, chiaro». «La richiamo più tardi». Dopo aver messo giù la cornetta, Karras si tolse la collarina e si levò la tonaca e i pantaloni scuri. Indossò dei calzoni cachi e una felpa e sopra la sua giacca a vento scura da prete, abbottonata fino al collo. Si guardò allo specchio e aggrottò la fronte. Preti e poliziotti, pensò mentre con rapidi gesti delle dita sbottonava l’impermeabile: si riconoscono dall’odore sui loro vestiti. Un odore non lo puoi nascondere. Karras si tolse le scarpe e prese le uniche che non fossero nere, le sue logore scarpe da ginnastica. Con la macchina di Chris si diresse velocemente al Rosslyn Center. Mentre, fermo al semaforo sulla M Street, aspettava di superare il ponte, guardando fuori dal finestrino vide qualcosa che attirò la sua attenzione: Karl che scendeva da una berlina nera sulla trentacinquesima, di fronte al negozio di liquori di Dixie. Alla guida sedeva il tenente Kinderman. Scattò il verde. Karras imboccò rapidamente il ponte, cercando di continuare a guardare dal retrovisore. Lo avevano visto? Pensava di no. Ma che ci facevano quei due insieme? Un puro caso? C’era qualche relazione con Regan? Con Regan e…? Dimenticatelo! Una cosa alla volta! Parcheggiò di fronte all’edificio degli ambulatori e salì dal dottor Klein. Il medico era impegnato, ma un’infermiera portò a Karras i tracciati dell’EEG e poco dopo il sacerdote sedeva in una piccola stanza, analizzando il lungo e stretto foglio di carta che srotolava lentamente tra le dita. Klein arrivò, quasi di corsa. I suoi occhi squadrarono stupiti l’abbigliamento di Karras. «Il dottor Damien Karras?». «Sì, salve. Piacere di conoscerla». I due si strinsero la mano. «Sono Klein. Come sta la bambina?». «Migliora». «Sono contento di sentirglielo dire». Karras riportò lo sguardo sul foglio e Klein lo controllò insieme a lui, percorrendo i tracciati con il dito. «Ecco, lo vede anche lei: è molto regolare, uniforme, nessun tipo di oscillazioni o simili». «Sì, lo vedo. Davvero insolito», disse Karras aggrottando la fronte. «Insolito?». «Sì, se si suppone che abbiamo a che fare con un caso di isteria». «Non la seguo». «Credo che non sia abbastanza noto», mormorò Karras continuando a srotolare il foglio tra le mani con un movimento costante, «ma c’è uno studioso belga, tale Iteka, che ha scoperto che l’isteria produce determinate oscillazioni anomale nei tracciati dell’EEG. Si tratta di variazioni infinitesimali, ma che seguono sempre il medesimo modello. Le ho cercate su questo grafico ma non le trovo». Klein grugnì, cauto. «Questo è il risultato dell’esame». Karras sollevò lo sguardo verso di lui. «Quando avete fatto questo test, la bambina presentava già il disturbo mentale, corretto?». «Sì, è così, posso dirlo con certezza». «Quindi non trova anche lei insolito che il tracciato sia così omogeneo? Anche i soggetti in condizioni di normale attività mentale possono influenzare le loro onde cerebrali, quantomeno entro certi limiti, e lo stato di Regan era fortemente alterato in quel momento. Apparentemente, sarebbe logico aspettarsi qualche oscillazione. Forse…». «Dottor Klein, la signora Simmons sta aspettando da un po’…», interruppe un’infermiera, aprendo all’improvviso la porta. «Sì, sto arrivando», sospirò Klein. Mentre l’infermiera correva via, il medico fece per uscire; poi si voltò, le mani poggiate agli stipiti della porta. «Per quanto riguarda l’isteria», commentò con tono secco, «le chiedo scusa, ma devo proprio andare». Chiuse la porta dietro di sé. Karras sentì i suoi passi nel corridoio, poi una porta che si apriva, poi ancora la voce di Klein: «Allora, signora, come si sente oggi…». La porta che si chiudeva. Karras riprese ad analizzare il tracciato. Quando ebbe finito ripiegò il rotolo e lo avvolse nella custodia per riportarlo all’infermiera dell’accettazione. Qualcosa. Era qualcosa che avrebbe potuto utilizzare col vescovo, un argomento per dimostrare che Regan non soffriva di isteria e quindi era plausibile che fosse posseduta. Eppure l’EEG l’aveva messo di fronte a un altro mistero: perché nessuna oscillazione? Perché proprio nessuna? Stava tornando in macchina a casa di Chris quando, a uno stop all’incrocio tra la Prospect e la trentacinquesima, si sentì gelare dietro il volante: parcheggiata tra lui e la palazzina dei gesuiti c’era l’auto del tenente Kinderman. Sedeva da solo al posto di guida, il gomito fuori dal finestrino e lo sguardo dritto di fronte a sé. Karras svoltò a destra prima che Kinderman potesse accorgersi di lui e della Jaguar di Chris che stava guidando. Trovò rapidamente un posto libero lungo la strada, parcheggiò e chiuse la macchina. Poi a piedi girò l’angolo, come se stesse rientrando. Sta sorvegliando la casa?, si chiese preoccupato. Lo spettro di Burke Dennings gli si parò davanti, una persecuzione. Possibile che Kinderman pensasse che Regan…? Calma, rallenta. Mantieni la calma. Si accostò all’auto e si affacciò al finestrino dal lato del passeggero. «Salve, tenente». Il detective si girò di scatto, sorpreso. Poi s’illumino in volto. «Padre Karras». Reazione sopra le righe, pensò il sacerdote. Si accorse che le mani gli sudavano, gelate. Stai attento, vacci piano! Non fargli vedere che sei preoccupato! Calmo! «Si beccherà una multa, tenente. Sosta vietata dalle quattro alle sei nei giorni feriali». «Non importa», ansimò Kinderman. «E poi, sto parlando con un prete. Tutti i poliziotti della zona sono cattolici, diversamente non reggono a lungo». «Come se la passa, tenente?». «Francamente parlando, padre Karras, così così. Lei?». «Non posso lamentarmi. Ha risolto il caso?». «Quale caso?». «Il regista». «Ah, quello». Fece un cenno con la mano, come volesse lasciar cadere l’argomento. «Non ne parliamo. Senta, ha impegni questa sera? Ho i biglietti per il Crest, danno l’Otello». «Chi recita?». «Molly Picon è Desdemona e Leo Fuchs è Otello. Soddisfatto? È un omaggio, padre Marlon Precisino! Insomma, stiamo parlando di William F. Shakespeare, cosa conta chi c’è sul palco e chi non c’è! Allora, viene o no?». «Ho paura che dovrò declinare il suo invito. Sono sommerso dagli impegni, mi creda». «Capisco. Ha un aspetto terribile, mi scusi se glielo faccio notare. Sta facendo tardi la sera?». «Ho sempre un aspetto terribile». «Adesso più del solito. Avanti, si lasci andare per una volta! Ci divertiremo!». Karras decise di fare una prova, di toccare un nervo scoperto. «Lei è sicuro che diano proprio Shakespeare?», chiese. I suoi occhi erano fissi su quelli di Kinderman. «Avrei giurato che ci fosse un film con Chris MacNeil, al Crest». Il detective si smarrì un istante, ma si riprese immediatamente e: «No, sono sicuro. Otello. Danno l’Otello». «A proposito, come mai in questa zona?». «Sono qui per lei! Solo per invitarla allo spettacolo!». «Sì, è più semplice guidare fino a qui che sollevare la cornetta del telefono», disse Karras a bassa voce. Il tenente aggrottò le sopracciglia in un’espressione di innocenza poco credibile. «Il suo telefono era sempre occupato!», disse con il consueto ansimare rauco, levando in aria la mano. Il gesuita lo fissò, impassibile. «Cosa c’è?», domandò Kinderman dopo un po’. Con aria seria Karras allungò un braccio dentro l’abitacolo e con la mano sollevò leggermente una palpebra del tenente, osservando con attenzione la pupilla. «Non lo so. Ha un aspetto terribile, tenente. Potrebbe trattarsi di mitomania, non saprei». «Non so cosa significhi», disse Kinderman quando il sacerdote ritirò la mano. «È una cosa grave?». «Non è letale». «Cos’è? Il dubbio mi fa impazzire!». «La cerchi sul dizionario». «Senta, non faccia il saccente con me. Di tanto in tanto, dovrebbe dare a Cesare quel che è di Cesare. Io sono la legge. Potrei farla deportare, lo sa?». «Per quale reato?». «Uno psichiatra non deve far preoccupare le persone. E poi, parlando francamente, i goyim se ne rallegrerebbero davvero. Siete una seccatura per loro, voi tutti li mettete in imbarazzo; sa come sarebbero contenti di farla fuori. Chi ha bisogno di un prete che indossa magliette e scarpe da ginnastica?». Karras abbozzò un sorriso, annuendo. «Devo proprio andare. Si riguardi». Con la mano batté due volte sul bordo del finestrino, in segno di saluto, poi si voltò e si avviò con passo lento verso l’ingresso. «Vada da un analista!», gli urlò dietro il detective con voce rauca. Ma, poco dopo, quell’aria giocosa fu sostituita da un’espressione preoccupata. Attraverso il vetro gettò un’occhiata all’edificio. Girò la chiave dell’accensione e avanzò lungo la strada. Mentre superava Karras, suonò il clacson e salutò con la mano. Il gesuita rispose al saluto, osservando l’auto di Kinderman allontanarsi dietro l’angolo con la trentaseiesima. Rimase immobile per un istante sul marciapiede, carezzandosi la fronte con mano tremante. Davvero era stata la bambina? Davvero era stata Regan a uccidere Dennings in quella maniera orribile? Con occhi febbrili, guardò la finestra della sua stanza. In nome di Dio, cosa succede in quella casa? E quanto ci vorrà ancora prima che Kinderman chieda di parlare con Regan? C’era la possibilità che scorgesse in lei la personalità di Dennings? Che la sentisse parlare in quel modo? E quanto ci vorrà prima che Regan venga internata? O prima che muoia? Doveva istituire la pratica per la cancelleria della curia. Attraversò la strada proprio all’angolo di fronte alla casa di Chris. Suonò il campanello. Fu Willie ad aprirgli. «Signora fa sonnellino adesso», disse. Karras annuì. «Bene, benissimo». Superò la domestica e salì direttamente le scale, diretto alla camera di Regan. Cercava una certezza a cui aggrapparsi, da stringere forte. Entrò e vide Karl seduto su una sedia accanto alla finestra, a braccia conserte, che osservava la bambina. Così silenzioso, immobile e imponente, pareva un grosso pezzo di legno scuro. Karras si avvicinò al letto e guardò in basso. Il bianco di quegli occhi come una nuvola lattiginosa. Il mormorio incessante. Sillabe di parole diverse, spezzate. Lanciò uno sguardo in direzione di Karl. Poi, lentamente, si chinò e prese a sciogliere una delle cinghie di contenzione. «Padre, no!». Karl si precipitò verso il letto e con una presa tenace afferrò il braccio del sacerdote. «Non va bene, padre! Forte, fortissima! Lasci perdere le cinghie!». Negli occhi c’era un terrore che Karras riconobbe come autentico. Ora aveva la certezza che la forza di Regan non era teoria, ma un fatto reale. Poteva essere stata lei. Poteva essere stata lei a torcere il collo di Dennings. Mio Dio, Karras! Fa’ in fretta! Trova qualche segno! Pensa! Presto, prima che… «Ich möche Sie etwas fragen, Engstrom!». Come ferito dalla scoperta e con una nuova speranza, Karras si girò e guardò in basso verso il letto. Il demone fissava Karl. Quel ghigno beffardo stampato sul viso. «Tanzt ihre Tochter gern?». Tedesco, parlava tedesco! Aveva chiesto a Karl se alla figlia piacesse ballare! Col cuore che batteva all’impazzata, Karras si voltò e vide che adesso le guance del domestico erano di un colore rosso acceso, che stava tremando, che nei suoi occhi brillava una rabbia furiosa e incontenibile. «Karl, è meglio che esca da qui», lo ammonì Karras. Lo svizzero scosse la testa, le mani strette a pugno erano diventate pallide. «No, resto qui». «Esca subito, per favore», ribadì il sacerdote con fermezza. Il suo sguardo si fermò implacabile sull’uomo. Un istante di ostinata resistenza, poi Karl si affrettò a uscire. La risata era cessata. Karras si girò. Il demone lo stava osservando. Sembrava soddisfatto. «Allora, eccoti di nuovo», ringhiò. «Sono stupito. Avrei detto che la vergogna per il giochetto dell’acqua benedetta ti avrebbe scoraggiato dal farti rivedere. Ma poi mi sono ricordato che i preti non conoscono vergogna». Il respiro corto, spezzato, Karras cercò di frenare le sue speranze, di schiarirsi la mente. Sapeva bene che per esaminare le abilità linguistiche nei casi di possessione occorreva una conversazione più impegnativa, come prova che le frasi pronunciate non fossero soltanto ricordi o qualche parola sentita per caso. Calmo! Non correre! Ti ricordi di quella ragazzina? Faceva la domestica, era solo un’adolescente. Posseduta. Durante il delirio, borbottava una strana lingua che alla fine risultò essere siriano. Karras si sforzò di ricordare le circostanze e il clamore che il caso aveva creato: alla fine venne fuori che la ragazza un tempo aveva prestato servizio in una pensione dove era ospite uno studente di teologia. Alla vigilia degli esami, il giovane era solito camminare per la sua stanza e su e giù per le scale ripetendo a voce alta la sua lezione di siriano. E la ragazzina aveva di certo sentito tutto. Calma, mantieni la calma. Non mordere il freno, calma. «Sprechen Sie Deutsch?», chiese Karras con cautela. «Ancora giochetti?». «Sprechen Sie Deutsch?», ripeté con il cuore ancora martellante di una remota speranza. «Natürlich», rispose il demone. Nei suoi occhi brillava quell’incredibile malizia. «Mirabile dictu, non sei d’accordo?». Il sacerdote ebbe un tuffo al cuore. Non solo tedesco, ma anche latino! E usati in maniera pertinente! «Quod nomen mihi est?», chiese immediatamente. Qual è il mio nome? «Karras». Adesso il sacerdote era in preda all’eccitazione. «Ubi sum?». Dove sono? «In cubiculo». Nella stanza. «Et ubi est cubiculo?». E dove si trova la stanza? «In domo». Nella casa. «Ubi est Burke Dennings?». Dov’è Burke Dennings? «Mortuus». È morto. «Quomodo mortuus est?». Come è morto? «Inventus est capite reverso». È stato trovato con la testa rivolta all’indietro. «Quis occidit eum?». Chi lo ha ucciso? «Regan». «Quomodo ea occidit illum? Dic mihi exacte!». Come lo ha ucciso? Dimmelo esattamente! «Bene, mi sembra che le emozioni siano più che sufficienti per il momento», disse il demone con quel suo sorriso a denti stretti. «Sufficienti, anzi più che sufficienti. Nonostante io creda ti sia passato per la mente che, poiché stavi ponendo le tue domande in latino, tu stesso hai formulato mentalmente le risposte in latino». Una risata. «Tutta colpa dell’inconscio, certamente. Sì, cosa ci resterebbe se non avessimo l’inconscio? Capisci a cosa voglio arrivare, Karras? Non so parlare latino, manco una parola. Ho solo letto nel tuo pensiero. Ho semplicemente strappato le risposte dalla tua mente, come capelli dalla tua testa!». Sgomento, Karras sentì crollare le sue certezze, tormentato e frustrato per quel dubbio che ora gli si era insinuato dentro. Il demone adesso ridacchiava. «Già, sapevo che ti sarebbe venuto in mente, Karras», disse con quella voce aspra. «È per questo che, in fondo, mi sono affezionato a te. Per questo mi stanno a cuore tutti gli uomini ragionevoli». La testa ebbe uno scatto all’indietro in un’esplosione di risa. La mente del sacerdote viaggiava veloce, alla disperata ricerca di qualche domanda a cui non ci fosse una risposta univoca, ma almeno più di una. Però probabilmente penserei a tutte le possibili risposte!, realizzò subito. Okay! Allora poni una domanda alla quale nemmeno tu sai rispondere! Avrebbe potuto controllare la veridicità della risposta più tardi. Attese che la risata cessasse prima di parlare. «Quam profundus est imus Oceanus Indicus?». Quanto è profondo l’Oceano Indiano? Gli occhi del demone si illuminarono. «La plume de ma tante», rispose con voce stridula. «Responde Latine». «Bonjour! Bonne nuit!». «Quam …». Karras s’interruppe quando vide gli occhi rovesciarsi nelle orbite. In quel momento apparve l’altra personalità, quella che parlava in modo confuso, borbottando parole incomprensibili. Impaziente e frustrato, Karras chiese con rabbia: «Fammi parlare ancora con il demone!». Nessuna risposta. Solo un respiro profondo, remoto, come se arrivasse dalla riva opposta di un fiume. «Quis es tu?», chiese con voce aspra, nervosa. Ancora quel respiro. «Fammi parlare con Burke Dennings!». Un singhiozzo. Un respiro. Un singhiozzo. Un respiro. «Fammi parlare con Burke Dennings!». Il singhiozzo, regolare e lancinante, continuò. Karras scosse la testa. Poi si avvicinò a una sedia e sedette proprio sul bordo, chinandosi in avanti. Inquieto. Tormentato e ancora in attesa… Passò un po’ di tempo. Karras era molto stanco, sentiva il sonno avanzare. Sollevò il capo. Stai sveglio! Con le palpebre tremanti, pesanti, guardò verso il letto, verso Regan. Il singhiozzo era sparito. Silenzio. Stava dormendo? Si avvicinò per controllare. Gli occhi erano chiusi, il respiro grave. Si chinò per sentirle il polso, poi si fermò e con attenzione osservò le labbra. Secche, avvizzite. Si raddrizzò e rimase ad aspettare. Alla fine lasciò la stanza. Si recò al piano di sotto, in cucina, per cercare Sharon. La trovò seduta al tavolo davanti a un piatto di zuppa e a un panino. «Le preparo qualcosa da mangiare, padre Karras?», gli chiese la ragazza. «Immagino abbia fame». «No, sto bene, grazie», rispose il sacerdote. Prese posto al tavolo e recuperò una matita e un blocchetto vicino alla macchina da scrivere di Sharon. «Ha avuto forti attacchi di singhiozzo», le raccontò. «Vi era stato già prescritto il Compazine?». «Sì, ne abbiamo ancora». Si mise a scrivere. «Allora stanotte datele metà supposta da venticinque milligrammi». «Bene». «Sta iniziando a disidratarsi», continuò il sacerdote, «Per questo io passerei a un’alimentazione intravenosa. Domattina per prima cosa chiami un negozio di forniture mediche e si faccia consegnare tutto qui a casa». Fece scivolare il blocco sul tavolo verso Sharon. «Nel frattempo, visto che sta dormendo, potete cominciare a somministrarle il Sustagen». «Okay», annuì Sharon. «Lo faccio subito». Mentre continuava a mangiare la zuppa, la ragazza prese il foglio e cominciò a leggere la lista. Karras la osservava. Poi aggrottò la fronte, cercando di concentrarsi. «Si occupa lei dell’istruzione di Regan, giusto?». «Sì, esatto». «Le ha insegnato un po’ di latino?». La ragazza era sorpresa. «No, assolutamente». «Un po’ di tedesco?». «Solo francese». «Che livello? La plume de ma tante?». «No, di più». «Ma niente tedesco e niente latino». «No, niente». «Però gli Ergstrom, loro qualche volta parlano in tedesco, giusto?». «Oh, sì, certo». «Anche quando c’è Regan?». Sharon si strinse nelle spalle. «Credo di sì». Si alzò e portò il suo piatto al lavandino. «Anzi, ne sono sicura». «Lei ha studiato latino?». «No». «Ma è capace di riconoscerne il suono in generale». «Oh, sicuramente». Sciacquò la scodella e la poggiò sullo scolapiatti. «Ha mai parlato latino davanti a lei, Sharon?». «Chi? Regan?». «Da quando si è ammalata, voglio dire». «No, mai». «Qualche altra lingua straniera?», provò a chiedere Karras. Pensierosa, la ragazza chiuse il rubinetto. «Ecco, potrei essermelo immaginato, forse, però…». «Cosa?». «Insomma, credo…». Aggrottò le sopracciglia. «Insomma, giurerei di averla sentita parlare in russo». Karras sgranò gli occhi. «Lei lo parla, Sharon?», le chiese, la gola riarsa. La giovane si strinse nelle spalle. «Oh, be’, così così». Cominciò a piegare il canovaccio per asciugare i piatti. «L’ho studiato al college, tutto qui». Karras si sentì scoraggiato. La bambina ha preso il suo latino direttamente dal mio cervello. Lo sguardo cupo, posò la fronte sulla mano, invaso dai dubbi, assillato dalle informazioni appena acquisite e dai ragionamenti: la telepatia è più comune in stati di tensione esagerata: si riesce a parlare una lingua conosciuta anche solo da una delle persone presenti nella stanza. «…pensa la stessa cosa che sto pensando io…»; «Bonjour…»; «la plume de ma tante»; «Bonne nuit». Attraverso pensieri come questi, lentamente riuscì a osservare il sangue ritrasformarsi in vino. Adesso che cosa fare? Concediti un po’ di sonno. Poi torna qui e prova ancora, cerca ancora, cerca ancora… Si alzò e i suoi occhi esausti si fissarono su Sharon. Era poggiata con la schiena al lavandino, le braccia conserte, e lo guardava pensierosa. «Vado a casa», le disse. «Non appena Regan si sveglia, la prego di darmi un colpo di telefono». «Sì, la chiamerò». «E non dimentichi il Compazine», le ricordò il sacerdote. La ragazza scosse la testa. «Non si preoccupi, me ne occupo immediatamente». Karras annuì. Le mani nascoste nelle tasche e il capo chino, restò ancora un istante a pensare a cosa potesse avere dimenticato di dire a Sharon. C’era sempre qualcosa da fare. Qualcosa da controllare anche quando era già stato fatto tutto. «Padre, che sta succedendo?», gli chiese Sharon, una nota grave nella voce. «Cosa succede? Mi dica la verità, cosa sta succedendo a Rags?». Sollevò lo sguardo. Occhi tormentati, rossi dalla fatica. «In verità, non lo so», rispose stanco. Si voltò e uscì dalla cucina. Mentre attraversava il corridoio di ingresso, Karras sentì dei passi veloci alle sue spalle. «Padre Karras!». Si voltò. Vide Karl con il suo maglione. «Mi dispiace», disse il domestico porgendogli l’indumento. «Pensavo di riuscire a finire molto prima. Poi mi sono dimenticato». Le chiazze di vomito erano sparite e c’era un buon profumo di bucato. «È stato gentile da parte sua, Karl, la ringrazio», disse il prete cortesemente. «Grazie a lei, padre Karras». C’era un tremito nella sua voce, gli occhi erano lucidi. «Grazie per quello che sta facendo per la signorina Regan», concluse Karl. Poi si riebbe, imbarazzato, distolse lo sguardo e a passo veloce tornò indietro. Karras rimase a osservarlo, ripensando a quando lo aveva visto nell’auto di Kinderman. Ancora un mistero. Confusione. Esausto, aprì la porta. Era notte ormai. Affranto, uscì dalla sua oscurità verso un’altra oscurità. Attraversò la strada in corrispondenza della residenza con l’unico desiderio di dormire qualche ora; ma quando arrivò nella sua stanza vide un messaggio sul pavimento, lasciato scivolare sotto la porta. Lo raccolse. Era di Frank. Le registrazioni. Un numero di telefono. «Chiamami a questo numero, per favore…». Prese il telefono e compose il numero. Aspettò. Le sue mani erano percorse da un fremito di speranza. «Pronto?». La voce di un ragazzino. Una voce calda. «Posso parlare con tuo padre, per favore?». «Sì. Solo un minuto». La cornetta che veniva poggiata. Poi subito raccolta. Ancora il bambino. «Chi parla?». «Padre Karras?». «Padre Karits?». Col cuore che martellava sempre più forte, il sacerdote scandì: «Karras. Padre Karras». Ancora la cornetta che veniva poggiata. Karras si premette le dita sulla fronte. Dal telefono arrivava un ronzio. «Padre Karras?». «Sì, salve Frank. Ho provato a contattarti». «Oh, mi dispiace. Sono stato a casa a lavorare su quelle registrazioni». «Hai finito?». «Sì, finito. A proposito, si tratta di roba davvero strana». «Lo so». Karras provò a scacciare la tensione palpabile della sua voce. «Qual è la questione, Frank? Che hai scoperto?». «Ecco, per prima cosa, le occorrenze delle marche linguistiche…». «Sì?». «Ecco, non ho un campione sufficiente per condurre un’analisi troppo accurata, capisci bene, ma direi che abbiamo abbastanza elementi, insomma, per quello che si può fare con queste cose. Ad ogni modo, le due voci registrate sulla cassetta, a mio parere, appartengono probabilmente a due personalità distinte». «Probabilmente?». «Insomma, non andrei davanti a un tribunale a giurarlo. In realtà, devo dire che le varianti sono davvero minime». «Minime…». Ripeté Karras senza espressione. Bene, stiamo al gioco, bisogna saper perdere. «E cosa mi dici del borbottio? Di quelle parole incomprensibili?», chiese ormai senza speranza. «Potrebbe essere una lingua?». Frank ridacchiò all’altro capo del telefono. «Cosa c’è di tanto divertente?», domandò risentito il sacerdote. «Si trattava di uno di quei test subdoli che fate voi psichiatri, padre?». «Non capisco cosa vuoi dire, Frank». «Ecco, credo che ti sia confuso nel montaggio delle registrazioni. È…». «Frank, dimmi se si tratta di una lingua o no». «Oh, va bene, direi che è sicuramente una lingua». Karras si irrigidì. «Stai scherzando?». «No, non scherzo». «Che lingua è?», chiese, incredulo. «Inglese». Per un istante Karras rimase ammutolito, e quando riuscì a parlare lo fece con un filo di voce. «Frank, sembra che non riusciamo a comunicare più di tanto. Che ne dici di farmi capire a che gioco stiamo giocando?». «Hai con te un registratore?», chiese Frank. Era sulla scrivania. «Sì». «Ha la funzione per leggere il nastro al contrario?». «Perché me lo chiedi?». «C’è o no?». «Aspetta un secondo, controllo». Irritato, Karras poggiò la cornetta e tolse il registratore dalla custodia per verificare. «Sì, c’è un pulsante. Frank, perché mi chiedi questo?». «Metti la cassetta nell’apparecchio e premi quel pulsante». «Cosa?». «Forse hai dei gremlin in casa», rise Frank. «Senti, fai andare la cassetta e domani ne riparliamo. Buonanotte, padre». «Buonanotte, Frank». «E divertiti». Karras mise giù. Era sconvolto. Recuperò la cassetta e la inserì nel lettore. Prima la fece scorrere in avanti e ascoltò attentamente. Scosse la testa. Non c’era margine di errore, erano soltanto borbottii incomprensibili. La fece girare fino alla fine, poi avviò la lettura al contrario. Sentì la sua stessa voce parlare all’inverso. Poi Regan, o qualcun altro, in inglese! …Marin Marin Karras lasciaci esistere, lasciaci… Inglese, privo di senso, ma era proprio inglese! Com’era possibile che riuscisse a parlare in quel modo?, si chiese stupefatto. Ascoltò tutta la registrazione, riavvolse il nastro e ascoltò da capo. Una volta, e un’altra ancora. Solo a questo punto realizzò che l’ordine del discorso era invertito. Fermò il nastro e riavvolse ancora. Con una matita e un foglio, sedette alla scrivania e fece ripartire la cassetta dall’inizio, lavorando senza interruzione, a lungo, fermando e riavviando di continuo il nastro. Quando ebbe finito, trascrisse tutto su un altro foglio, invertendo l’ordine delle diverse sezioni del discorso. Poi si poggiò allo schienale della sedia e cominciò a leggere: …pericolo. Non ancora. (indecifrabile) morirà. Poco tempo. Adesso il (indecifrabile). Lasciala morire. No, no, tesoro! È così piacevole stare in questo corpo! Ci godo! C’è (indecifrabile). Meglio (indecifrabile) che il vuoto assoluto. Ho paura di quel prete. Dacci un po’ di tempo. Paura del prete! Lui è (indecifrabile). No, non questo: quello (indecifrabile), l’altro, quello che (indecifrabile). Lui è malato. Ah, il sangue, sento il sangue, come (canta?). A questo punto, Karras chiedeva «Chi sei?». E poi la risposta: Sono nessuno. Sono nessuno. Karras ancora. «È questo il tuo nome», poi: Io non ho nome. Sono nessuno. Sono tanti. Lasciaci esistere. Lasciaci al calduccio in questo corpo. Non (indecifrabile) da questo corpo nel vuoto assoluto, nel (indecifrabile). Lasciaci qui. Lasciaci qui. Lasciaci esistere. Karras (Marin? Marin?)… Rilesse quelle parole più volte, tormentato dal loro tono, dalla sensazione che fosse più di una persona a parlare, fin quando, alla fine, il solo ripeterle gliele rese familiari. Poggiò il foglio e cominciò a sfregarsi il volto con le mani, a sfregarsi gli occhi, a sfregarsi i pensieri. Non si trattava di una lingua sconosciuta. E poi scrivere al rovescio non era certo un fenomeno paranormale, e nemmeno così fuori dal comune. Ma parlare al rovescio: modificare e alterare la pronuncia in modo che una lettura al contrario rendesse le parole comprensibili, ecco, un’abilità di questo tipo non andava forse oltre i limiti del cervello umano, per quanto iperstimolato? L’inconscio acuito di cui parlava Jung? No. Qualcosa… All’improvviso ricordò. Andò alla libreria e prese un libro dallo scaffale: Jung, Psicologia e patologia nei fenomeno detti dell’occulto. Forse c’era qualcosa di simile in quelle pagine, pensò. Ma cosa? Lo trovò: il referto di un esperimento di scrittura automatica in cui l’inconscio del soggetto sembrava capace di rispondere alle domande attraverso degli anagrammi. Anagrammi! Tenne il libro aperto sulla scrivania, si chinò e cominciò a leggere il verbale di una parte dell’esperimento: TERZO GIORNO. Che cosa è l’uomo? Tefi hasl esble lies. È un anagramma? Sì. Con quante parole è costruito? Cinque. Quale è la prima parola? See. Qual è la seconda parola? Eeeee. See? Devo interpretare l’anagramma da solo? Provaci! Il soggetto ha trovato questa soluzione «The life is less able». Lo psicanalista fu sorpreso da una simile affermazione intellettuale, che sembrava indicare la presenza di un’intelligenza indipendente da quella propria del soggetto. Andò avanti con le domande: Chi sei? Clelia. Sei una donna? Sì. Hai vissuto su questa terra? No. Devi ancora nascere? Sì. Quando? Tra sei anni. Perché stai parlando con me? E if Clelia el. Il soggetto diede questa interpretazione alla sua rispostaanagramma: «I Clelia fell». QUARTO GIORNO Sono io a rispondere alle domande? Sì. Clelia è lì? No. Chi c’è lì con te, allora? Nessuno. Clelia esiste oppure no? No. Allora con chi ho parlato io ieri? Con nessuno. Karras interruppe la lettura. Scosse la testa. Non c’era nulla di paranormale in questo fenomeno, soltanto le illimitate capacità della mente umana. Prese una sigaretta, tornò a sedersi e l’accese. «Sono nessuno. Sono tanti». Inquietante. Da dove veniva, si chiese, questa parte del discorso di Regan? «Con nessuno». Dallo stesso posto da cui veniva Clelia? Una personalità emergente? «Marin… Marin…»; «Ah, il sangue…»; «Lui è malato…». Sempre più turbato, gettò uno sguardo alla sua copia di Satan. Con un gesto nervoso prese il libro e andò alla pagina della dedica: «Non permettere che sia il dragone a condurmi…». Buttò fuori il fumo e chiuse gli occhi. Tossì, sentiva qualcosa che gli raschiava la gola in fiamme. Spense la sigaretta, gli occhi irritati per il troppo fumo. Era sfinito. Sentiva le ossa pesanti come tubi d’acciaio. Si alzò e sistemò sulla maniglia il cartellino «non disturbare», poi spense la luce, si tolse le scarpe e si accasciò sul letto. Schegge di pensiero. Regan. Dennings. Kinderman. Che fare? Doveva aiutarla. Ma come? Provare a convincere il vescovo con i pochi elementi raccolti? Non pensava di farcela. Non sarebbe mai stato capace di argomentare il caso in maniera convincente. Valutò se spogliarsi e mettersi sotto le coperte. Troppo stanco. Questo carico, questo peso insopportabile. Non desiderava altro che sentirsi libero. «…Lasciaci esistere!». Lascia che io esista, rispose a quella scheggia della sua mente. Sprofondò in un sonno immobile, oscuro, granitico. Lo svegliò il suono del telefono. Stordito, cercò barcollando l’interruttore della luce. Che ora poteva essere? Pochi minuti dopo le tre. La vista ancora appannata, raggiunse il telefono e sollevò la cornetta. Sharon. Poteva venire subito a casa? Sì, certo. Chiuse la conversazione, sentendosi di nuovo imprigionato in quella trappola, soffocato, schiacciato. Andò in bagno e si lavò il viso con acqua fredda, si asciugò e si diresse fuori dalla stanza. Arrivato sulla soglia, tornò sui suoi passi per recuperare il maglione. Lo indossò e pochi istanti dopo era già in strada. L’aria della notte era rarefatta e immobile. Dei gatti che rovistavano in un bidone della spazzatura scapparono spaventati quando attraversò la strada. Sharon lo aspettava sulla porta. Indossava solo un golf ed era avvolta in una coperta. Sembrava terrorizzata, spaventata. «Mi scusi, padre», sussurrò appena entrarono in casa, «ma sono convinta che lei debba vedere cosa è successo». «Cosa?». «Lo vedrà. Cerchiamo di fare piano, adesso, non voglio che Chris si svegli. È meglio che lei non veda». Fece un cenno perché il sacerdote la seguisse. Con passo leggero i due salirono per le scale. Entrando nella stanza di Regan, il gesuita fu percorso da un brivido fino alle ossa. La stanza era ghiacciata. Karras aggrottò le sopracciglia, meravigliato, rivolto a Sharon. La ragazza annuì con decisione. «Sì, il riscaldamento è acceso», mormorò. Poi si voltò e guardò Regan, quegli occhi bianchi brillanti, inquietanti alla luce della piccola abat-jour. Sembrava in coma. Il respiro pesante. Nessun movimento. Il tubicino nasogastrico era inserito, il Sustagen scivolava lentamente dentro il suo corpicino. Silenziosamente Sharon si avvicinò al letto. Karras la seguì, intirizzito per il freddo. Quando furono accanto alla bambina, il sacerdote vide che la fronte era lievemente imperlata di sudore. Spostò lo sguardo verso le mani, strette dalle cinghie di contenzione. Sharon si era chinata sulla bambina e con dolcezza le stava sfilando la parte superiore del pigiama. Un senso di travolgente pietà si impadronì di Karras alla vista del petto martoriato, di quelle costole sporgenti su cui sembravano potersi contare le settimane, i giorni che ancora le restavano da vivere. Sentì su di sé lo sguardo di Sharon. «Non so se è finito», disse a bassa voce la ragazza, «ma guardi, guardi fisso il petto». Si voltò e abbassò gli occhi. Il gesuita, confuso, seguì il suo movimento. Silenzio. Il respiro regolare e pesante. Continuava a osservare. Il freddo era pungente. All’improvviso Karras aggrottò la fronte: qualcosa stava succedendo sulla pelle di Regan. Un flebile rossore prima, ma con una forma definita, come una scritta vergata a mano. Si chinò per vedere da vicino. «Eccolo, succede di nuovo», sussurrò Sharon. Adesso i brividi che Karras sentiva non erano più dovuti al gelo nella stanza, ma da quello che vedeva accadere sulla pelle della bambina, da quella scritta in rilievo che appariva in lettere chiare, rosse come il sangue, sul petto di Regan. Una sola parola: AIUTATEMI «È la sua grafia», disse Sharon con un filo di voce. Alle nove del mattino seguente Karras andò dal preside dell’università e chiese il permesso di procedere a una richiesta ufficiale di esorcismo. Ricevette l’autorizzazione e subito dopo si recò dal vescovo della diocesi, che con attenzione e serietà ascoltò tutto ciò che il gesuita aveva da riferirgli. «Lei è convinto che si tratti di un vero episodio di possessione?», chiese alla fine il vescovo. «Ho fatto una valutazione cauta: tutte le condizioni imposte dal Rituale vengono soddisfatte», rispose Karras in maniera evasiva. Lui stesso non osava crederci del tutto. Non era stata la sua testa, ma il suo cuore a portarlo fino a questo punto; era stata la pietà, la speranza in una cura attraverso la suggestione. «Vorrebbe praticare l’esorcismo lei stesso?», gli domandò il vescovo. Un momentaneo senso di euforia. Vide aprirsi la porta che dava all’esterno, una possibilità di fuga dal peso insopportabile del prendersi cura del prossimo, da quell’incontro, puntuale ogni tramonto, col fantasma della propria fede. «Sì, certamente», rispose. «Come sono le sue condizioni di salute?». «Sto bene». «Ha mai avuto a che fare con queste cose in precedenza?». «No, mai». «Allora, vedremo. Sarebbe meglio che con lei ci fosse un uomo di esperienza. Non ce ne sono tanti, ovvio, ma forse c’è qualcuno di ritorno da una missione all’estero. Mi dia il tempo di verificare chi c’è a disposizione. Nel frattempo, aspetti una mia chiamata, la cercherò appena saprò qualcosa». Quando Karras lasciò il suo studio, il vescovo chiamò al telefono il preside della Georgetown. Per la seconda volta in quella stessa giornata, parlarono di lui. «Bene, lui conosce tutto il contesto», disse il preside a un certo punto della conversazione. «Non penso che ci sia pericolo nel farlo semplicemente assistere. Ad ogni modo, occorre che ci sia uno psichiatra presente». «E per quanto riguarda l’esorcista? Qualche idea? Io non so a chi pensare». «Allora, vediamo, se non sbaglio Lankester Merrin è tornato». «Merrin? Sapevo che era ancora in Iraq. Mi pare di aver letto da qualche parte che stava partecipando a uno scavo nell’area di Ninive». «Sì, a sud di Mossul, esatto. Ma gli scavi sono terminati da circa tre o quattro mesi. Adesso si trova a Woodstock». «Sta tenendo dei corsi?». «No, prepara un altro libro». «Che Dio ci assista! Non pensi che sia troppo vecchio, comunque? Fisicamente come sta?». «Be’, dovrebbe stare bene, altrimenti non sarebbe ancora in giro per il mondo a scavare antiche necropoli, non credi?». «Sì, sono d’accordo». «E poi ha avuto molte esperienze, Mike». «Quando è successo?». «Oh, forse dieci o dodici anni fa, credo in Africa. Da quanto si sa l’esorcismo è durato dei mesi. Ho sentito dire che quella dannata cosa l’ha quasi ucciso». «Allora, se è così, dubito che avrà intenzione di farlo un’altra volta». «Noi facciamo quello che ci viene detto di fare, Mike. I ribelli ci sono soltanto tra voi preti secolari». «Grazie per avermelo ricordato». «Insomma, cosa ne pensi?». «Senti, lascio che decidiate tu e il referente provinciale». Nelle primissime ore di quel pomeriggio tranquillo, un giovane seminarista in attesa di prendere i voti percorreva a passo veloce il parco del seminario di Woodstock nel Maryland. Cercava un uomo magro, un vecchio gesuita incanutito dagli anni. Lo incontrò lungo un sentiero che attraversava un boschetto. Gli porse un telegramma. Il vecchio lo ringraziò, pacato, gli occhi pieni di serenità; poi si voltò, rinnovando la sua contemplazione e riprendendo il cammino in quella natura che tanto amava. A tratti si fermava ad ascoltare il canto di un pettirosso, a osservare le ali luminose di una farfalla che si sollevava in volo da un ramo. Non aprì la busta e non lesse il telegramma. Già conosceva il contenuto. Lo aveva sempre saputo. Lo aveva letto nella polvere del tempio di Ninive. Ed era pronto. Continuò la sua cerimonia di addii.

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