1. Come tutto ebbe inizio.

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Ero seduta su una panchina del Washington Square Park, con lo sguardo perso ad osservare il cielo azzurro, era una splendida giornata d'autunno. Le foglie avevano creato un tappeto delle più varie sfumature arancioni e gialle, sul prato verde. La brezza autunnale mi scompigliava i capelli, che raccolsi in una coda di cavallo. Intorno a me c'era già molta gente che passeggiava, le mamme che portavano i figli a scuola, i padroni con i propri cani. Alcuni facevano jogging, probabilmente per scaricare lo stress e mantenersi in forma, prima di andare a lavorare. Uomini in giacca e cravatta attraversavano il parco correndo, forse perché erano in ritardo. Mi divertivo a fantasticare sulle storie nascoste dietro a tutte quelle persone.

Stavo aspettando Emma, eravamo d'accordo per andare a prendere un caffè e fare due chiacchiere e lei, come al solito, era in ritardo.

Mi ricordo ancora perfettamente quando ci siamo conosciute.
Era il secondo giorno d'asilo, io non avevo ancora parlato con nessun bambino e non volevo lasciare andare mia madre. Sono da sempre molto timida e odio dover fare amicizia. Con il passare degli anni non è cambiato nulla.
Piangevo come una disperata e Silvia, la maestra, cercò invano di farmi giocare. Rimasi tutto il giorno in un angolo della classe, senza aprire bocca e respingendo tutti quelli che venivano a presentarsi. Continuavo a chiedermi perché mia mamma mi avesse lasciata in quell'orribile posto. Mi sembrava che il tempo non passasse, ma finalmente arrivò l'ora di tornare a casa. Mia madre era in ritardo e in classe eravamo rimaste solo io, la maestra e una bambina bionda con gli occhi color ghiaccio, bellissima. La bimba si avvicinò a me -Ciaaoo, sono Emma!- Sembrava simpatica, ma non volevo darle troppa confidenza, così non risposi. La guardai per un momento e poi tornai ad osservare la finestra, sperando di intravedere, al più presto, mia mamma spuntare dall'angolo del palazzo di fronte. -Ehii!- insistette lei, toccandomi più volte la spalla. A questo punto mi voltai scocciata. -Ciao, sto aspettando la mamma.- doveva lasciarmi in pace o avrei iniziato a gridare. -Anch'io! Come ti chiami?- -Giulia- dissi bruscamente, in fondo ero contenta di non essere più sola.

Il suono del cellulare mi distolse dai ricordi. Sul display apparve EMMA.
Preoccupata che le fosse successo qualcosa, risposi un po' agitata. Avevo una brutta sensazione e il mio sesto senso non sbagliava mai. -Ehyy! Emma, in ritardo come al solito?- -Giu..- Dalla voce sentivo che c'era qualcosa che la turbava. -Che succede?- -Non riesco a venire, ci vediamo domani?- disse quasi tutto d'un fiato. Riuscii solo a rispondere sì, prima che riattaccasse. Provai a  richiamarla, ma si inserì subito la segreteria telefonica. Dopo la terza volta decisi di lasciarle un messaggio in segreteria. -Emma.. sono preoccupata, richiamami subito.- Perché avrebbe dovuto spegnere il cellulare?

Persa tra i pensieri non mi ero accorta che fossero le 8.30, dovevo riuscire a raggiungere l'ufficio molto velocemente.
Facevo la stagista in uno studio di architettura, ultimamente ero riuscita a presentare qualche progetto di cui ero molto fiera. Speravo che dopo la laurea mi avrebbero presa a lavorare lì.
Ormai ero al terzo anno alla NYU (prestigiosa università di New York).

Presi un taxi e dopo pochi isolati rimasi bloccata nel traffico. -Sa mica che succede?- mi rivolsi al tassista. -Ho sentito parlare di un incidente, alla radio.- Trasalii, non sarei mai arrivata in tempo. -Signorina, le posso essere utile?- impiegai qualche secondo per capire quello che l'autista stava dicendo. -Tranquillo. Scendo qua, grazie.- Pagai e mi incamminai, a passo svelto, verso l'ufficio.

Non ce l'avrei mai fatta, ma non era la mia priorità, in quel momento volevo sapere se Emma stava bene e dove si era cacciata.

Ultimamente eravamo distanti, ognuna nel proprio mondo. Quella mattina avremmo dovuto chiarire la situazione. Entrambe eravamo molto impegnate dalla carriera. Lei stava sfondando nel campo della moda, come fotomodella; mentre io mi impegnavo a fondo per riuscire a conciliare i corsi all'università, lo stage e il lavoretto che mi ero trovata come cameriera nel bar di fronte a casa. Oltre alla borsa di studio che ero riuscita ad ottenere avevo bisogno di soldi per poter pagare l'affitto e avevo intenzione di comprarmi presto una macchina. Avevo poco tempo per le amicizie, tutto il resto passava in secondo piano.

Inoltre ben presto sarebbe venuta a sapere la verità e io non potevo permetterlo, dovevo impedirgli di aprir bocca, altrimenti mi avrebbe rovinato la vita, il mio compito era proteggerla e non volevo soffrisse più del necessario.

Girai l'angolo mentre cercavo il cellulare per provare a richiamarla per la decima volta. Pochi secondi dopo andai a sbattere e mi ritrovai a terra, frastornata. La rabbia e la frustrazione mi stavano per far esplodere. Ero appena caduta in mezzo al marciapiede tra il via vai mattutino di New York, cos'altro poteva succedermi? La sua voce anticipò le mie lamentele. -Oh, scusi! Mi dispiace moltissimo.- Alzai lo sguardo, per vedere da chi provenisse, pronta a riversare il mio malumore addosso a un povero sconosciuto. -Scusi?! Ma la guarda la strada o..?- iniziai con tono davvero poco amichevole, ma appena incontrai il suo sguardo mi bloccai. Davanti a me un ragazzo alto, moro con due occhi azzurro intenso mi stava porgendo la mano per aiutarmi. -Tutto bene?!- continuò preoccupato, facendo finta di non avermi sentita. Annuii, non riuscendo più a parlare, forse per lo shock, o forse, per i pettorali che lasciava intravedere la maglia bianca aderente. Continuavo a guardarlo, immobile. -Sicura che sia tutto okay?- disse tirandomi su per un braccio, senza mostrare segno di alcuno sforzo. -Si..graz..ie.- balbettai. Lui accennò un sorrisetto divertito e gli spuntò un'adorabile fossetta sulla guancia destra.

Aveva notato sicuramente lo sguardo ebete con cui lo stavo fissando da più di cinque minuti. In quel momento persi l'equilibrio andandogli addosso. -Scu..sa!- dissi, diventando rossa per l'imbarazzo. Di bene, in meglio! Lui mi prese per le spalle, e le nostre guance si sfiorarono, quando mi rimise in piedi. Aveva un profumo buonissimo e continuava ad osservarmi divertito. Non avevo il coraggio di incrociare il suo sguardo per paura che notasse il mio rossore, così continuai a guardarmi la punta delle scarpe.

Sentivo i suoi occhi su di me. -Dove stavi andando? Vuoi un passaggio?- chiese. Alzai gli occhi e venni pietrificata dai suoi, avevano una sfumatura grigia, più verso il centro della pupilla, che fino a quel momento non avevo notato. Ci volle tutta la mia buona volontà per riuscire a pronunciare una frase senza balbettare. -Non posso, davvero, grazie lo stesso.- dissi, senza prendere fiato. -Insisto, voglio farmi perdonare.- capii che non si sarebbe arreso facilmente e sapevo che avrei finito per accettare. -Devo scappare al lavoro.- conclusi, procedendo verso l'ufficio, a passo svelto, senza voltarmi.

L'amore è una malattiaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora