Prologo

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Alexander era un ragazzo piuttosto mattiniero, non riusciva mai a dormire per più di cinque o sei ore per notte. Non aveva un sonno tormentato, ma era come se il suo cervello fosse troppo attivo per restare a lungo assopito.
Anche quella mattina aveva aperto gli occhi prima che la sveglia avesse la possibilità di suonare, rotolando su un fianco e alzandosi immediatamente dal letto.  Si era passato una mano tra i capelli corvini mentre strascicava i piedi verso il piccolo bagno. Uscendo dalla sua stanza era passato accanto a quella della sorella, aprendola appena per controllare che le fosse effettivamente nel suo letto. Isabelle era completamente diversa da lui, amava uscire la sera con i suoi amici e faceva anche tardi, a volte. Aprì appena la porta della sua stanza, facendo correre lo sguardo al suo ampio letto matrimoniale e vedendola: era sdraiata a pancia in giù, con i capelli a ventaglio sui cuscini e le labbra leggermente schiuse. Sorrise vedendola, aveva sempre pensato che sua sorella fosse una creatura meravigliosa e felina, ma vederla dormire gli mandava sensazioni di quiete e dolcezza. Vivevano insieme, in quel piccolo appartamento a Brooklyn, da poco più di un anno. Izzy perseguiva il desiderio di fare la modella, di girare il mondo e indossare i migliori abiti degli stilisti più famosi; lui era un umile assistente universitario di un docente di Letteratura, il suo compito era solo quello di aiutarlo a sostenere gli esami, preoccuparsi di fare tutoraggio a chi lo richiedeva e altre mansioni. Amava quella materia ed era orgoglioso di essere riuscito a raggiungere quel suo obiettivo, aspirando un giorno a diventare un vero e proprio docente universitario.
Era estremamente presto, erano da poco passate le cinque e una lunga giornata gli si stagliava davanti. Si era recato velocemente in bagno, concedendosi una lunga doccia ristoratrice. Amava il getto d'acqua calda che lo colpiva sul corpo, che gli riscaldava le ossa, soprattutto in quel periodo, visto che era iniziato l'autunno e New York iniziava a tingersi di colori scuri, dal marrone al rosso mattone; si sentiva già l'aria di feste in arrivo, come Halloween, il Ringraziamento e poi il Natale. Alexander non sapeva se esserne entusiasta o meno, perché nonostante tutte quelle feste lui avrebbe comunque lavorato. Ma amava Halloween, era la sua festa preferita. Lui e Isabelle si vestivano sempre in coppia, partecipando alla solita annuale festa organizzata da vecchi amici di infanzia. Era l'occasione dove poteva fingere di essere qualcun altro, era l'occasione dove per un giorno non doveva vestire i panni di Alexander Gideon Lightwood, poteva uscire dalla sua pelle ed essere chiunque lui voleva.
Sospirò e spense l'acqua, uscendo dalla doccia e cercando un asciugamano pulito nell'armadietto del bagno. Avvolse il suo corpo all'interno di quel tessuto morbido, mentre gocce d'acqua gli calavano da alcune ciocche di capelli e scendevano sulla schiena, facendolo fremere. Si avvicinò allo specchio e controllò le occhiaie, che sembravano intenzionate a non lasciare mai il suo giovane ed etereo volto, circondando i suoi profondi occhi blu. Quelle occhiaie lo buttavano giù di morale, perché non riusciva a trovarsi per nulla affascinante in quel modo. Molti studenti gli chiedevano spesso se stesse bene e lui rispondeva sempre di sì, che lavorava molto. In realtà non riusciva proprio a dormire e forse avrebbe fatto bene a farsi vedere da un medico. Non era troppo importante per lui l'aspetto fisico, ma piacere a qualcuno faceva solo piacere, anche perché erano secoli che non usciva con qualcuno e sentiva sempre di più la mancanza di un abbraccio che non fosse quello della sorella. Qualche studentessa gli aveva fatto qualche avance, ma ormai aveva superato gli anni della confusione sessuale da un pezzo e aveva capito che non era per niente interessato alle donne. Ricordò che ci aveva provato, era stato insieme a questa ragazza per qualche mese quando andava al Liceo, ma la loro storia era franata rovinosamente. In realtà, si disse, aveva provato a stare anche con un ragazzo durante il College, ma anche in quel caso non era andata a buon fine quella specie di relazione. Sospirò, tornando nella sua camera e pensando che probabilmente lui non era fatto per stare con qualcuno. Al mondo esistevano delle persone che erano destinate a stare sole, che non erano capaci di costruire qualcosa con qualcuno, e forse lui rientrava proprio in quella categoria.
Entrò nella sua stanza e osservò il suo letto completamente sfatto, con le lenzuola che andavano ovunque. Non aveva avuto tempo di sistemarlo da giorni, ma si era ripromesso che quel fine settimana si sarebbe dedicato alle pulizie. Si tolse l'asciugamano, lasciandolo cadere ai suoi piedi e avvicinandosi al suo grande armadio, dal lato opposto dal letto. Si fermò a guardare il suo corpo di sfuggita, ma non si soffermò perché non si piaceva mai. Si trovava troppo magro, troppo pallido, con i muscoli leggermente pronunciati. Ecco un altro proposito che non aveva mai rispettato: andare in palestra. Ci aveva provato un paio di volte, ma era una cosa faticosa e che richiedeva tempo, cosa che lui non aveva. Scosse il capo, cercando di non pensare a tutte quelle cose negative, e aprì l'armadio. Tolse un paio di jeans scuri e una maglietta a maniche lunghe verde militare, aprì poi il cassetto della biancheria ed estrasse un paio di boxer neri e dei calzini neri. Chiuse tutto e lanciò i vestiti sul letto, indossandoli senza fretta e spostandosi finalmente davanti allo specchio. Si passò le mani tra i capelli, pettinandoseli velocemente in quel modo barbaro. Gli erano leggermente ricresciuti e arrivavano poco sotto la mascella, pizzicandogli il collo con le punte. Li spostò con la mano, ma ricaddero esattamente dove erano prima, e ci rinunciò, ripromettendosi di trovare un paio d'ore di tempo per andare dal parrucchiere e farsi sistemare quella strana capigliatura. Rise mentre si infilava le scarpe, perché lui non aveva mai tempo. Aveva orari assurdi e poco pratici. Con Isabelle continuava a lamentarsi della sua vita lavorativa frenetica e indaffarata, ma la amava più di ogni altra cosa al mondo. Era la sua vita. Gli studenti erano la sua vita, l'insegnamento, quella responsabilità... tutto quello lo rendeva fiero e orgoglioso di quello che era riuscito a diventare, dei suoi obiettivi sempre più vicini.
Si recò in cucina e si preparò velocemente un caffè nero, sedendosi al tavolo dove c'era il suo computer portatile. Lo accese mentre sorseggiava il suo caffè bollente, aprendo subito la sua casella di posta e leggendo tutti i messaggi di studenti che gli scrivevano. Cercò di rispondere a tutti, provando ad essere esaustivo e utile. Doveva aiutare qualcuno con delle tesi e incontrarli quel pomeriggio, quindi sarebbe certamente rientrato tardi quella sera perché sarebbe restato nell'ufficio del docente di Lettere fino a tardi, per aiutarlo a correggere qualche relazione. Isabelle aveva provato a spronarlo per ritagliarsi qualche momento di pausa, ma non capiva che quel lavoro era la più grande aspirazione della sua vita.
Finì il caffè in pochi sorsi e si alzò dal tavolo, lasciando la tazza nel lavandino e chiudendo il computer. Lo infilò nella sua custodia e poi corse all'ingresso del piccolo appartamento, afferrando dal divano la sua borsa a tracolla e infilandovici dentro tutto il suo materiale, computer compreso. Afferrò la sua giacca e la sua sciarpa grigia dall'attaccapanni all'ingresso e li indossò, uscendo velocemente di casa. Voleva arrivare presto all'Università, così magari guadagnava un po' di tempo nella correzione di qualche relazione arretrata che aveva. Scese velocemente le scale, mentre la prima aria fredda gli pungeva il volto e gli tingeva leggermente le gote di rosso. Infilò le mani in tasca e si immerse nelle vie di Brooklyn, dove già qualcuno passeggiava: c'era il solito senzatetto che dormiva in un angolo, avvolto da coperte che lui e Izzy non usavano da tempo e gli avevano dato in vista dell'inverno; c'era la solita signora che passeggiava con il suo cagnolino e fingeva di non vederlo mentre faceva i suoi bisogni; c'erano dei ragazzini che si incontravano tutti i giorni prima di andare a scuola per giocare ai videogame. Sorrise, perché era tutto come ogni mattina e lui amava quella routine, era una delle poche cose stabili della sua vita pazza e indaffarata. Scese alla fermata della metro e salì sulla linea che l'avrebbe portato a Manhattan, che era meravigliosa in quel periodo dell'anno. Le foglie assumevano tinte scure che rendevano la città oltremodo meravigliosa, nonostante i suoi ritmi caotici e le imprecazioni dei tassisti. Quando uscì dalla metropolitana finalmente respirò, perché sentiva di appartenere più a quell'ambiente che a Brooklyn, al quartiere dove viveva. Era accogliente, ma non aveva nulla a che vedere con la maestosità di Manhattan. Alzò lo sguardo al cielo che iniziava ad illuminarsi, agli alberi che iniziavano a spogliarsi e all'atmosfera di festa che lo circondava. Era talmente assorto, con lo sguardo all'insù, che non si accorse di aver sbattuto contro un'altra persona, spalla contro spalla.
«Mi scusi!»



Autumn in New York | Malec AUDove le storie prendono vita. Scoprilo ora