Capitolo 10

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  Questa volta le mie note sono all'inizio della storia.  Il capitolo era pronto prima di quello Sizzy, ma lo sentivo incompleto e sbrigativo, l'ultima modifica risale appunto a ieri. Perché lo pubblico ora e non domenica? Perché non vi aspettavate un capitolo oggi e perché il .5 non era assolutamente previsto nel mio piano della storia, però mi piaceva pensare che la stessa notte i fratelli Lightwood avrebbero aperto il cuore alle loro persone e volevo mostrarvelo. Questo è il flashback della vita prima di New York, o comunque un breve estratto di quello che erano. Sinceramente non so come definire questo capitolo, so solo che l'ho scritto di getto dopo che ho finito di leggere "The Song of Achilles".
Spero di essere riuscita a comunicarvi qualcosa, spero di avervi fatto comprendere le mie parole. Non è facile scrivere di un lutto, soprattutto di un lutto con cui non si è familiari completamente. Mia nonna ha perso suo figlio quando aveva 21 anni, il più piccolo della famiglia. Io ne avevo 6, ma non ricordo. Ho solo provato a scrivere ciò che vedo tutti i giorni negli occhi di mia nonna, che si è letta TMI e ha sofferto quando Max è morto perché si è messa nei panni di Maryse. Quindi questo capitolo, un po' e nonostante non lo sappia, lo dedico a lei e le chiedo scusa per averle fatto leggere quella parte, che l'ha investita di ricordi.









Era una calda giornata di luglio e la casa sembrava essere vuota. Nessun rumore proveniva dall'interno, così come nessun rumore dall'esterno rimbombava nella sua camera. Alexander non tornava a casa da un po' e trascorrere le vacanze estive a Turlock era sempre un piacere, soprattutto perché poteva passare il suo tempo con i suoi fratelli minori: Max e Isabelle.

Il sole era alto nel cielo da poco tempo, filtrando appena dalle bianche. Poche macchine passavano per strada, qualcuno aveva iniziato quella meravigliosa giornata estiva facendo jogging o portando a spasso il cane, ma la maggior parte delle persone ancora dormiva.
Alexander era profondamente addormentato in camera sua, che era restata immutata dopo la sua partenza per i suoi studi: gli scaffali erano pieni di libri, la si nascondeva sotto una pila di quaderni scritti, qualche poster era appeso sulle pareti bianche. La camera era sempre stata quasi spoglia, non amava lasciare le cose in disordine. In compenso, però, per tutta la sua adolescenza non aveva fatto altro che scrivere, relegando poi i suoi infiniti quaderni in vecchi scatoloni che giacevano nel garage.
Non appena era arrivato a casa, qualche giorno prima, il padre aveva deciso di partire per un viaggio d'affari, anche se Alexander dubitava che la nuova amante fosse effettivamente un affare. Nonostante padre e figlio non si vedessero o sentissero da mesi, Robert Lightwood aveva preso il suo aereo privato e aveva volato fino ad Acapulco. La madre, invece, era molto impegnata nella sua attività politica. Era presente in casa, ma stava spesso al telefono oppure era indaffarata con il palmare. Tutto come sempre era stato durante la sua adolescenza, tutto come aveva lasciato. Per fortuna c'era Max, che restava il solito bambino pieno di vita, che dava luminosità alla casa. Senza di lui, probabilmente, l'equilibrio famigliare si sarebbe spezzato con la partenza di Alexander per gli studi.

Max si era svegliato molto presto, nonostante fosse estate. L'arrivo del fratello maggiore l'aveva mandato su di giri e voleva cogliere ogni minuto libero da passare con lui prima che partisse nuovamente. Max era un bambino mattiniero, con l'energia di mille persone in corpo. Si era svegliato nel suo pigiamino rosso, accanto a lui giaceva un fumetto che Alexander gli aveva portato come regalo. Lo aveva iniziato a leggere la sera prima, ma si era addormentato dopo poche pagine. Il bambino si era stiracchiato e poi aveva allungato una mano al comodino, afferrando i suoi occhiali e inforcandoli sul naso. Si era alzato immediatamente in piedi sul materasso, calciando via le coperte euforico. Senza indugio, si mise a correre fuori dalla e a percorrere il corridoio. Arrivò alla camera del fratello maggiore e vi entrò senza nemmeno bussarvi. Vide Alexander con indosso solo un paio di boxer profondamente addormentato, coperto solo a metà dal lenzuolo. Sorrise innocentemente e saltò sul letto con slancio, iniziando a saltellare. Alexander si spaventò e aprì di scatto gli occhi, credendo di star per morire.
‹‹Non dormire, Alec! C'è il sole e voglio andare al parco.››
Alexander si stropicciò gli occhi e si mise a sedere, trattenendo uno sbadiglio. Tutta quella energia era disumana.
‹‹Max, ma... che ore sono?››
Il fratellino smise di saltare furiosamente, sedendosi accanto al fratello e guardandolo negli occhi.
‹‹Non lo so, mi sono appena svegliato.››
Alexander emise un mugugno esasperato, carezzando i capelli del fratellino. Ecco cosa doveva aspettarsi con il suo ritorno: non riuscire a dormire fino all'ora di pranzo.
‹‹Ok, mi dai... mezz'ora? Il tempo di fare una doccia e ti preparo la colazione, ok? Intanto vai a svegliare Izzy.››
A Max si illuminarono gli occhi e annuì entusiasta, scendendo dal letto del fratello e sparendo nel corridoio. Mentre Alexander si alzava e si trascinava in bagno, Max percorse solo pochi passi prima di arrivare davanti alla porta della camera della sorella. Su di essa c'erano un paio di cartelli con scritto di non disturbare e stare alla larga, ma il bambino sapeva che lui poteva entrare ogni qual volta avesse voluto. Anche quella volta non bussò, ma abbassò semplicemente la maniglia ed entrò nell'oscurità di quella stanza. Isabelle odiava che il sole le colpisse il volto la mattina, la indisponeva molto, così chiudeva sempre le imposte. Buio, ecco quello che riuscì a vedere Max entrando in quella camera. Isabelle giaceva completamente addormentata tra le sue nere, con i capelli che le coprivano e solleticavano il volto. Max le si avvicinò piano, restando in piedi accanto al letto. Con la mano le scostò i capelli dal volto, per poi scuoterle delicatamente una spalla.
‹‹Izzy! Izzy? Alec mi ha detto di svegliarti. Izzy!››
La ragazza emise un lamento basso e debole, aprendo un occhio e puntandolo al fratellino. Era così tutte le mattine, vivendo in quella casa era impossibile dormire fino a tardi. Max ogni mattina la svegliava presto, a meno che la madre non lo portasse con sé.
‹‹Max...››
‹‹Alec ha detto che fa la doccia e ci prepara la colazione!››
Isabelle richiuse gli occhi e annuì, con le labbra arricciate in una smorfia.
‹‹Arrivo, tu vai a lavarti. Ok?››
Max annuì e si sporse a darle un bacio sulla fronte, per poi scappar via dalla sua camera, prestando attenzione a non calpestare i vestiti della sorella che avevano trovato posto sul pavimento. Isabelle sorrise nell'oscurità e decise di alzarsi, giusto per accontentare come sempre il fratellino. Se Max non fosse stato presente, lei non avrebbe trascorso un minuto in quella casa senza Alexander. Da quando era partito, la sola cosa che l'aveva intimata a restare era Max. Senza di lui sarebbe stato solo un lungo litigio con la madre, che non si sforzava mai di capirla. Le aveva presentato dei ragazzi facoltosi, ma lei li aveva rifiutati tutti. Non perché non ci trovasse nulla di bello in loro, ma era una questione di principio. Per Maryse, lei doveva trovare un ragazzo di rango elevato e impegnarsi con lui. Ne andava dell'onore della famiglia, a quanto sosteneva. L'unico che ogni tanto si esponeva in suo favore era il padre, ma spesso era assente e lei doveva condurre da sola quella battaglia. Per fortuna aveva trovato un lavoro come commessa in un negozio di abiti d'alta moda e Max riempiva ogni suo momento libero, altrimenti sarebbe scappata insieme ad Alexander.

Dopo una mezz'ora, i tre fratelli Lightwood si erano ritrovati in cucina, seduti ognuno al proprio posto a consumare una deliziosa colazione preparata dal maggiore. Max e Isabelle si godevano i pancake, mentre Alexander si stava godendo una fumante tazza di caffè nero bollente. Isabelle lo osservò e alzò un sopracciglio, pronta a prenderlo in giro.
‹‹Ormai Alec è diventato troppo sofisticato per i pancake, lui si beve il caffè come uno snobbettino. Lui studia! Lui è il migliore!››
Alexander roteò gli occhi, sbuffando.
‹‹Chi sei? Nostra madre per caso?››
‹‹No, ma a quanto pare riesco a imitarla bene.››
Max si mise a ridere, coprendosi la bocca e osservandoli con i suoi occhioni grigi.
‹‹ È vero, Izzy la imita sempre.››
Isabelle si mise a ridere e si alzò in piedi, assumendo una finta aria seria. Prese un tovagliolo e finse che si trattava di un palmare. Si avvicinò a Max e lo guardò alzando un sopracciglio.
‹‹Maxwell, hai finito i tuoi compiti? Non potrai andare al corso di pianoforte se prima non termini i tuoi obblighi scolastici. Vuoi fare la fine di tua sorella Isabelle? Tu, Maxwell, hai un futuro roseo in una delle più prestigiose aziende americane. Se non termini i tuoi compiti adesso, cosa farai in futuro?››
Max aveva cercato di trattenersi, ma non era riuscito a farlo. Era scoppiato in una fragorosa risata cristallina, che aveva riempito l'intera stanza. Persino Alexander si era ritrovato a ridere, così aveva appoggiato la tazza sul tavolo e si era avvicinato alla sorella minore.
‹‹Oh Maryse, non pensi di essere fin troppo dura con il ragazzo? È solo un bambino, lascialo divertirsi. Altrimenti quando lo farà?››
‹‹Robert, bisogna insegnargli che il dovere arriva prima del piacere già durante questa età infantile.››
I due fratelli maggiori avevano iniziato a inscenare un simpatico teatrino domestico, una delle tante discussioni alla quale avevano assistito durante la loro infanzia. Max li guardava e rideva, mentre i due si sforzavano di restare seri e impersonare i due genitori. Continuarono quello sketch ancora per qualche minuto, finché Maryse non comparve sulla soglia della cucina. Aveva indosso uno dei suoi soliti tailleur grigi, i capelli erano stretti in uno chignon, le mani erano poggiate ai fianchi.
‹‹Spero che voi due vi stiate divertendo alle mie spalle.››
I due smisero immediatamente di improvvisare, voltandosi increduli verso la madre. Calò un silenzio che durò pochi secondi, ma che per tutti fu un'eternità. Max poi si mise ancora a ridere, scendendo dal suo sgabello e correndo verso la madre, abbracciandola. Maryse ricambiò l'abbraccio, abbassandosi a baciare il capo del figlioletto.
‹‹Isabelle, dovresti crescere invece di fare sempre questi teatrini.››
Mentre Maryse si avvicinò alla caraffa del caffè, dando le spalle ai figli, Isabelle strinse i pugni e guardò il fratello maggiore con sguardo di fuoco e chiedendogli, in un sussurro, per quale motivo se la prendeva sempre e solo con lei.
‹‹Ragazzi, io devo andare via un paio d'ore. Potete stare con Max?››
‹‹Sì, ma io dopo devo andare al lavoro. Attacco a mezzogiorno.››
‹‹Ti ci portiamo io e Alexander, così portiamo Max a comprare un nuovo paio di. Cresce a vista d'occhio!››
Alexander dovette concordare con la madre. Non vedeva il fratellino da diverse settimane e aveva subito notato quanto fosse cresciuto, non solo d'altezza. Max si avvicinò al fratello maggiore, prendendolo per mano e guardandolo dal basso della sua statura.
‹‹Un giorno diventerò alto come te.››
Alexander gli sorrise, scompigliandogli i capelli.
‹‹Non ne dubito, piccoletto.››
Isabelle tornò a sedersi, finendo di consumare la sua colazione.
‹‹Lo portiamo al Donnelly, ok? Così vediamo se ci sono i tuoi amici di scuola.››
Max ne restò entusiasta, iniziando a saltellare per la cucina, non stando più nella pelle. Alexander e Isabelle risero, finendo la loro colazione alla svelta e uscendo da casa. Maryse li osservò uscire dal vialetto e incamminarsi a piedi vero il parco, mentre Max stava tra i due fratelli maggiori e camminava tenendoli per mano. In quei mesi, il figlio minore non aveva fatto altro che chiederle come mai Alexander era partito, a riempirla di domande. Lei cercava sempre di spiegargli le cose e lui le capiva al volo. Max era un bambino prezioso e pieno di vita. Maryse sapeva che con Isabelle aveva sempre sbagliato, ma non riusciva a trovare un punto d'incontro con la figlia. Max era quell'anello che le teneva ancora unite, perché riuscivano ad avere un vero e proprio rapporto madre-figlia quando Max era tra di loro. Con lui, Maryse ce la stava mettendo tutta per essere una madre migliore. Sapeva che aveva sbagliato in passato, perché ad Alexander aveva dato troppe responsabilità, gli aveva affidato il compito di assistere alla sorella minore. A quei tempi, Maryse era una donna veramente impegnata nella sua carriera e il tempo trascorso a casa era sempre più raro. Con Max aveva deciso di cambiare, anche se il tempo a sua disposizione non era comunque molto. Ma appena aveva qualche minuto tornava a casa dal figlio. Max era diverso da Alexander e Isabelle, Maryse non sapeva davvero da chi avesse potuto prendere quel meraviglioso carattere. Era come se un angelo avesse scelto di approdare in quella famiglia per riempirli di gioia e felicità. Ogni volta che Maryse lo vedeva sorridere, il suo cuore si scioglieva. Era così anche con Alexander e Isabelle, ma ormai loro due la vedevano come una matrigna cattiva.
La donna sospirò, finendo di bere il suo caffè. Prima di uscire per i suoi impegni mattinieri, salì nella sua stanza da letto e tolse una scatola delle scarpe dall'armadio. Si mise sul letto e la aprì, estraendo vecchie fotografie. Erano foto che non aveva mostrato nemmeno ai figli, anche se non capiva nemmeno lei il motivo per il quale le teneva segrete. In una foto era seduta sul divano del soggiorno, una Isabelle di soli sette anni seduta sulle sue gambe: le stava facendo le treccine con qualche fiocco rosa. Lei rideva, mentre Alexander era sdraiato sul tappeto a leggere un vecchio classico. In un'altra foto, Isabelle teneva tra le braccia Max appena nato, erano tornati a casa dall'ospedale qualche minuto prima. Alexander era seduto accanto alla sorella e li osservava sorridendo, mentre Max dormiva beatamente tra le braccia di Isabelle, che lo teneva come se si sarebbe potuto spezzare da un momento all'altro. Maryse sospirò e la chiuse, infilandola sotto il letto. Pensò che le sarebbe piaciuto tornare a quel tempo, quando i suoi errori non avevano ancora influito sulla vita dei suoi figli. Ma con Max si era ripromessa di essere una madre migliore.


I tre fratelli tornarono dal parco un paio d'ore dopo, giusto una manciata di minuti dopo che Maryse era rientrata a sua volta. Miracolosamente, Max non era sporco di terra o altro. Tirò un sospiro di sollievo e lo aspettò sull'uscio di casa. Lui la vide e lasciò le mani dei fratelli, correndo verso la madre che lo prese tra le sue braccia.
‹‹Mamma, mi sono divertito tantissimo. Alec è salito con me sull'altalena, ma si è incastrato nel sedile.››
Isabelle scoppiò in una fragorosa risata, spingendo divertita il fratello maggiore per una spalla.
‹‹Oddio mamma, avresti dovuto esserci. È stato esilarante!››
Alexander, offeso, le prese una ciocca di capelli e la tirò, facendole male.
‹‹Non lo è stato affatto, ero circondato da bambini che mi prendevano in giro.››
Isabelle scoppiò a ridere insieme a Max, mentre la madre entrava in casa. Max si mise subito a raccontarle la sua mattinata al parco, mentre la figlia saliva a cambiarsi per andare al centro commerciale dove lavorava. Alexander spiegò alla madre che non era propriamente colpa sua, perché i sedili erano troppo piccoli. Max riprese a ridere, correndo verso di lui e abbracciandolo.
‹‹Grazie per essere tornato, Alec!››
Lui non riuscì a restare adirato, così suo malgrado sorrise e lo abbracciò a sua volta. Maryse prese le chiavi della macchina, mentre Isabelle scendeva di corsa le scale e gliele prese dalle mani. La donna restò stupita dalla velocità della figlia, seguendola mentre usciva da casa.
‹‹Isabelle, cosa fai? Tu non guidi.››
Max prese per mano il fratello maggiore, che si fermò a chiudere la porta di casa prima di raggiungere le due donne in macchina.
‹‹Dai mamma, sono pochi metri. Il centro commerciale dista cinque minuti!››
Maryse restò in silenzio qualche istante, per poi sbuffare e salire al posto del passeggero accanto al guidatore.
‹‹Va bene, ma solo questa volta.››
Max si sedette al suo posto dietro il guidatore, allacciandosi la cintura. Accanto a lui prese posto Alexander, che roteò gli occhi al cielo mentre la sorella e la madre iniziavano a bisticciare. Max si voltò verso di lui e gli sussurrò che lo facevano sempre e che ormai era diventato divertente guardarle. Alexander concordò con lui, perché nonostante la lontananza era abituato a quello scontro madre-figlia. Vi aveva assistito anche lui durante tutta l'adolescenza. A volte entrambe esageravano e non si rivolgevano la parola per qualche giorno, ma spesso erano litigi su cose così futili che bastavano un paio d'ore per calmarle entrambe.
Isabelle si fermò ad un semaforo rosso, facendo delle smorfie mentre Maryse giudicava il suo stile di guida. Appena il semaforo tornò verse, spinse il piede sull'acceleratore e ripartì. A sinistra dell'incrocio, un paio di macchine si fermarono.

Tutto, in quel momento, andò al rallentatore.

Un SUV nero ignorò la luce rossa che gli intimava di fermarsi, arrivando velocemente da sinistra. Maryse si mise ad urlare, Isabelle si voltò alla sua sinistra e vide il muso della macchina che si avvicinava pericolosamente. Max si voltò verso Alexander, che cercò di slacciare velocemente la cintura per coprire il bambino con il suo corpo.
Ci fu un rumore assordante di vetri infranti, qualcosa scoppiò.
Alexander sentì un dolore lancinante che gli attraversava la parte destra del corpo.
Isabelle perse i sensi.
Ci fu buio e i secondi rallentarono, divennero interminabili.
Isabelle perse i sensi. Maryse era sopra di lei che le carezzava i capelli sporchi di sangue, urlando il suo nome.
Alexander osservò la scena incredulo e abbassò gli occhi su Max. Sembrava stesse dormendo.
Gli occhiali erano rotti sul suo naso, la testa cadeva all'indietro sul sedile. Sangue, c'era sangue ovunque.
Non sapeva se fosse il suo o no. Non gli importava.
Chiuse gli occhi e li riaprì. Sentì delle sirene in lontananza. Si facevano sempre più vicine.
‹‹Max.››
Il bambino non gli rispose. Lo abbracciò, stringendolo al suo petto. Una lacrima gli sfuggì, percorrendo solitaria la sua guancia sporca e incrostata di sangue ormai secco.
Stava ancora dormendo?

Qualcuno aveva aperto le lamiere della macchina e aveva preso Max dalle sue braccia.
Qualcuno aveva preso Isabelle, priva di sensi.
Maryse piangeva.
Alexander scese dall'auto, o da quello che ne restava, e si mise in strada.
Una folla di persone si era radunata e li guardava.
Il cofano del SUV nero era accartocciato.
Si guardò attorno.
Sua madre lo prese per mano e lo fece salire sull'ambulanza della sorella.
Maryse salì poi con Max.


Non li avevano fatti entrare. Maryse piangeva in un angolo della sala d'aspetto.
Alexander era sporco e dolorante. Un medico gli si avvicinò per medicarlo.
Rabbia. Da quando era così arrabbiato? Lo aveva bruscamente spinto via.
Dovevano curare Max e Isabelle. Lui stava bene.


Isabelle era fuori pericolo. Un dottore era arrivato per avvisarli.
Ma Robert dov'era?


Un altro dottore era spuntato nel suo camice bianco.
‹‹Mi dispiace, Max non è sopravvissuto all'impatto.››
Alexander sentì la risata nascere dalla pancia. Non riuscì a trattenersi. Così come le lacrime non riuscirono a fermarsi.
Uno scherzo, un maledetto scherzo. Lui era in vacanza. Stavano andando al centro commerciale a mangiare. Max voleva un fumetto.
Maryse urlò. Alexander afferrò il dottore.
Un'infermiera lo divise, qualcun altro lo fece sedere a forza su una sedia della sala d'aspetto.

Robert arrivò di corsa, raggiungendo la famiglia.
‹‹Non ce li fanno vedere!››
Maryse era piccola tra le sue braccia. Robert minacciò qualcuno.
Li portarono da Max.
Dormiva beatamente senza i suoi occhiali. Era pulito. Era bianco.
‹‹Perché non lo coprite? Può sentire freddo!››
Alexander rubò una coperta dal letto accanto, Robert provò a fermarlo. Maryse fermò il marito. Alexander coprì il fratellino, gli carezzò i capelli.
Pianse. Maryse abbracciò il figlio e pianse a sua volta. Robert abbracciò la sua famiglia e trattenne le lacrime di tutti.

Isabelle si era svegliata quella sera. Una benda attorno alla testa. Ventitré punti di sutura lungo il fianco. Quattordici sulla coscia. Piccoli tagli disseminati sul corpo.
‹‹Come sta Max?››
Silenzio.
Disperazione.
Senso di colpa.
‹‹Dovevo morire io!››



La sera prima del funerale, in ospedale Isabelle sembrava un fantasma. Il senso di colpa le pesava sul cuore, che sembrava perdere sempre più battiti. Il sorriso di Max le era rimasto impresso nella mente, mentre i suoi occhi fissavano un punto vuoto di quella stanza asettica. Era sola. Era stata colpa sua. Si passò una mano sul volto, i capelli erano legati in cima alla testa. Lacrime fredde e salate le sgorgarono dagli occhi, scendendo temerarie sulle sue guance. Sentì dei singhiozzi scuoterle tutto il corpo, incontrollati e frequenti. Il suo corpo si era completamente svuotato, non le restavano solo che lacrime e terrore. La paura e il senso di colpa si erano impossessati di lei, di tutto ciò che la riguardava. Se apriva gli occhi, vedeva la sagoma del fratello ai piedi di quel letto d'ospedale, con il suo peluche stretto tra le mani e il volto affranto, chiedendole "perché?". Se chiudeva gli occhi, vedeva Max correre da lei sorridente, avvolto in quel suo pigiamino rosso che sicuramente l'anno dopo non gli sarebbe più andato bene. Ma che importanza aveva, oramai? Max, per colpa sua, era restato bloccato a nove anni, per colpa sua non sarebbe più cresciuto, non sarebbe diventato un ragazzo. Non avrebbe mai provato l'amore.
Una mano le aveva squarciato il petto, aveva afferrato il suo cuore e lo stava stritolando. Sentiva le sue ferite pulsare, i punti stretti attorno alla sua pelle. Sanguinava. Il suo corpo le ricordava ciò che aveva fatto. Sentì il sapore del sangue nella sua bocca, mischiato al sapore delle lacrime che avevano aumentato a sgorgare come cascate, come un fiume che straripava dai suoi argini. I suoi genitori l'avrebbero odiata per sempre per ciò che aveva tolto loro: l'amore di un figlio. Si morse il labbro inferiore fino a farlo sanguinare, sporcandole la bocca e il mento del suo stesso sangue. Perché lei meritava di vivere? Quale Dio giusto strappava la vita dalle mani di un innocente bambino di nove anni? Urlò, non riuscendo più a tenere il suo dolore. Si era liberato di lei. Isabelle aveva gettato il capo all'indietro, chiuso gli occhi e aperto la bocca. Un grido aveva spezzato la notte, il suo lamento di dolore inondò la stanza ed eruppe nei corridoi. Un'infermiera entrò velocemente nella stanza, allarmata e preoccupata. Il suo viso era contratto, il suo corpo cosparso di sangue e sudore. Altre infermiere entrarono, iniziando a muoversi agitate. Isabelle non si oppose. Un'infermiera la strinse tra le sue braccia, facendole posare il capo sul suo petto, carezzandole la testa. "Andrà tutto bene", la sentì sussurrare. Ma lei aveva ucciso il fratellino, come poteva andare tutto bene?

Alexander era a casa, nascosto nella sua camera da letto, avvolto solo dal buio di quella notte stellata. Il cielo non piangeva quella scomparsa, era nervosamente calmo. Portava anche lui i segni di quella disgrazia, un filo che gli avrebbe lasciato una lunga cicatrice. Max se ne era andato e lui non era riuscito a fare nulla, si era mosso troppo lentamente. Si ricordava il momento esatto in cui i suoi genitori lo avevano portato a casa dall'ospedale, avvolto in una piccola tutina bianca, la sua testa piena di capelli scuri. Era una creaturina tra le sue braccia, aveva avuto quasi paura di romperla. Maryse aveva scattato una fotografia, che ora lo stava fissando dal suo comodino. Alexander era seduto al centro del suo letto, le gambe al petto, le braccia le cingevano, il mento poggiato sulle ginocchia. Lui era il fratello maggiore e non era nemmeno stato capace di proteggere la sua famiglia. Se si fosse mosso un secondo prima, Max probabilmente sarebbe ancora vivo. Abbassò la fronte sulle ginocchia, chiudendo gli occhi mentre una lacrima sfuggiva al suo controllo. Si alzò in piedi e scese dal letto, uscendo dalla sua stanza e camminando a piedi nudi nella notte. Quelle mura lo stringevano, si sentiva intrappolato in una prigione. Persino il suo cuore lo stava facendo sentire in gabbia, mentre sentiva il rimorso che lo stava divorando e consumando dall'interno. Uscì dalla portafinestra della cucina, correndo in cortile. Si accasciò sull'erba, inginocchiato come fosse in preghiera. Non era mai stato un praticante, nonostante fosse stato battezzato. Non aveva mai pensato a Dio, nella sua vita non ne aveva mai avuto bisogno. "Perché?", gli uscì come un sibilo dalle labbra contratte in una smorfia di dolore. Si strinse le braccia al petto, abbassò il capo e un lungo pianto gli spezzò il fiato. In quel cortile, Alexander aveva giocato con Max mille volte con il pallone, si erano rincorsi, lo aveva lasciato vincere, ma lo aveva anche battuto. Si portò la mano destra al cuore e con disperazione cercò di stringerlo, un modo sciocco per lenire il dolore, che lo fece soltanto graffiare. La mano sinistra era allungata sull'erba bagnata dalla notte, stretta così forte che aveva strappato qualche ciuffo. Avrebbe potuto salvarlo e doveva convivere con il resto della sua vita con questa consapevolezza. Come fratello maggiore aveva fallito. Aveva giurato di proteggerlo sempre, gli aveva promesso che sarebbe stato il suo Angelo Custode. Quale angelo fallisce il suo lavoro?


Maryse si era aggirata per tutto il giorno come un fantasma nella sua stessa casa, così vuota che faticava a pensare che fosse mai stata abitata. Sarebbe voluto restare in ospedale con la figlia, ma stava organizzano il funerale di Max. Robert l'aveva aiutata, soprattutto rispondendo a tutte le chiamate di cordoglio che avevano ricevuto. Non era pronta a sentire le parole delle persone che non sarebbero riuscite a comprendere il suo dolore. Aveva perduto il suo bambino, quando avrebbe preferito che le avessero strappato un arto. Il dolore sarebbe stato sicuramente minore. Quella sera si era coricata nel suo letto accanto a suo marito, che le aveva accarezzato i lunghi capelli neri in silenzio. Che cosa avrebbe potuto dire? Anche Robert si sentiva estremamente vuoto, un dolore fisico si era impadronito del suo corpo. La moglie era fragile tra le sue braccia, tremava e singhiozzava. Ogni lacrima che le vedeva solcare una guancia era una pugnalata al petto. Le aveva baciato la fronte, stava cercando di proteggerla con il suo abbraccio. Forse, tenendola così stretta, il male per un po' l'avrebbe dimenticata. Ma era una mera illusione, perché quel dolore avrebbe fatto per sempre parte della loro famiglia. Si erano addormentati a notte fonda, consapevoli che nessuno si sarebbe intrufolato nel loro letto chiedendo di essere ospitato a causa di un incubo. Più nessuno lo avrebbe fatto. Robert non avrebbe più raccontato nessuna favola a lieto fine per tranquillizzare suo figlio; Maryse non lo avrebbe più coccolato al suo petto, dandogli leggeri baci sulla fronte.
A notte fonda, Maryse si svegliò recuperando fiato. Era stata in apnea, si era sentita mancare il fiato. Il tormento tornò a impadronirsi di ogni cellula del suo corpo, scuotendola. Scivolò via dalle braccia del marito, uscendo dalla loro camera da letto e fermandosi davanti ad una porta che ben conosceva. La aprì piano, ma poi si ricordò che non sarebbe stata un'altra di quelle sere in cui controllava che Max stesse dormendo tranquillamente. Quando aveva aperto la porta, vide la stanza esattamente come era stata lasciata quel giorno. Il pigiamino rosso di Max giaceva a terra, il suo fumetto era ancora aperto sul letto alla pagina dove era rimasto. I suoi giocattoli erano sparsi sul suo tappeto, nonostante lei la sera prima gli avesse raccomandato di rimetterli al loro posto. Il suo armadio era aperto e Maryse si avvicinò, notando che alcuni vestiti erano a terra. Sbuffò e li raccolse, piegandoli diligentemente e sistemandoli. Si avvicinò al letto del figlio con tutta l'intenzione di sistemare le lenzuola, ma non ci riuscì. Maryse si infilò tra le coperte, poggiando la testa sul cuscino opposto a quello che di solito usava Max. Strinse tra le sue braccia il piccolo pigiama, chiuse gli occhi e inspirò a fondo. Aveva l'odore del suo bambino, del suo piccolo tesoro di vita. Altre lacrime scesero lungo le sue guance arrossate e secche, chiedendosi come fosse possibile che ancora avesse acqua in corpo. Si sentiva consumata e logorata, improvvisamente vecchia e stanca. Il nome di suo figlio gli si ruppe in gola, mentre un lungo tremito gli scuoteva le spalle. Si alzò dal letto, stringendo il piccolo indumento al cuore. Pianse silenziosamente, portandosi una mano alla bocca per non fare troppo rumore. Non voleva svegliare il silenzio di quella casa, così surreale da sembrare impossibile.
D'un tratto sentì una voce. Non stava parlando, era una canzone. Sembrava lontana, ma Maryse sapeva a chi apparteneva la voce e riconobbe la canzone come la preferita di Max. Si voltò verso la finestra e lo vide: suo figlio stava inginocchiato sull'erba bagnata mentre cantava, il volto rivolto al cielo, le lacrime che gli cadevano sugli zigomi e atterravano ai suoi piedi. Abbandonò il pigiama sul letto e uscì di corsa dalla camera, scontrandosi con Robert.
‹‹Hanno chiamato dall'ospedale, è per Isabelle. Sto andando da lei!››
La donna annuì carezzando la guancia del marito.
‹‹Io vado da Alec.››
I due coniugi si separarono, correndo dai loro figli.
Una famiglia si era spezzata, una lunga crepa li divideva e si allargava sempre di più.


Il corpo del piccolo Max era stato adagiato in una candida bara bianca in legno di frassino, con un morbido tessuto azzurro che avvolgeva il suo corpo. Gli avevano fatto indossare un completo, sul suo naso vi erano i suoi occhiali da vista, accanto a lui, in quello spazio piccolo e angusto, vi era il suo orsacchiotto di peluche, quello dal quale non si separava mai la notte. Tutto il funerale si era svolto nel modo classico, la famiglia Lightwood aveva mostrato cortesia per tutto il tempo, ascoltando le parole di ogni persona che si avvicinava loro per porre le loro sentite condoglianze. Nessuno, però, aveva ascoltato davvero le loro parole. Qualcuno aveva deciso di fare un piccolo discorso, onorando la memoria di Max. Isabelle e Maryse erano scoppiate più volte a piangere, mentre Robert aveva fatto gli onori di casa. Erano tutti riuniti nel loro salotto, gli averi di Max che erano sempre stati ovunque erano magicamente scomparsi, rilegati nella sua stanza. Non per dimenticarsene, ma per gelosia. Nessuno di loro voleva che qualcuno li toccasse, li contaminasse. Alexander era riuscito a mascherare il suo dolore, indossando una veste che non gli si addiceva. Chiunque, da lui, si aspettava un crollo da qualsiasi momento. La notte prima aveva raggiunto il punto più basso della sua esistenza, era stato letteralmente raccolto dalla madre e messo a letto, come quando era un bambino timido e impaurito. Ma aveva deciso che non lo sarebbe più stato, che da quel momento lui sarebbe diventato la rocca che avrebbe sorretto ogni cosa. Vedeva lo sguardo dei parenti e degli amici puntato su di lui, aspettandosi che quel bambino che era stato sarebbe tornato per impadronirsi di lui per farlo cedere. Ma non sarebbe accaduto. Alexander, durante quella giornata, era riuscito a sorreggere sua madre e sua sorella, due donne che erano sempre state forti, che ora si erano spezzate. Quelle due donne lo avevano sempre sorretto, lo avevano sempre preso per mano e lo avevano aiutato a camminare. Cosa aveva fatto lui per loro? Era giunto il momento di ricambiare. Alexander aveva percepito un cambiamento, il padre era diventato emotivamente staccato. Non poteva lasciarsi andare, non poteva più piangere. Altrimenti chi sarebbe stato forte? Max non era più nelle loro vite, era stato strappato via dalle loro braccia improvvisamente. Avrebbero omaggiato sempre il suo ricordo, avrebbero portato sui loro corpi le ferite di quella perdita inumana. Dio forse esisteva, ma Alexander non sapeva quanto fosse giusto. Tutti gli avevano detto che aveva un piano, un piano così grande che era difficile da comprendere. Alexander non era arrabbiato con Dio, non lo era più. Non capiva il suo grande piano e non si sarebbe nemmeno sforzato di farlo, non gli interessava comprenderlo. Ad Alexander importava solo una cosa: la sua famiglia.   

Autumn in New York | Malec AUDove le storie prendono vita. Scoprilo ora