1- Capitolo

8 0 0
                                    

Era ottobre. Il cielo sembrava sempre di malumore, nuvoloni neri intrisi di sofferenza liquida, lacrime pesanti si abbattevano sull'auto mentre mi dirigevo verso la biblioteca del paese, chiamarlo così era un eufemismo, le dimensioni erano paragonabili a quelle di una tana per topi ma infondo a me andava bene così, non amavo le persone. Una volta posteggiato accorsi verso l'entrata, un forte odore di libri vecchi mi investì ed un flebile sorriso apparve sul mio volto appagato dal profumo di storia e cultura, un misto di caffè e libri ingialliti. Era uno dei miei posti preferiti, principalmente perché le persone che lo frequentavano erano davvero poche tanto che ormai le conoscevo tutte. Il lunedì, solitamente, vedevo Marika, una vecchietta minuta e bassina, capelli grigi e corti ed un paio di occhi anch'essi grigi e spenti a causa dell'età. Ogni volta che entrava si portava dietro un magnifico odore di biscotti alla vaniglia che ricordavano tanto la dolcezza. Si sedeva sempre nel reparto di libri dedicati alla storia, era un'amante del vecchio e del passato. Quando mi conobbe cambiò la sua postazione, iniziò ad avvicinarsi fino ad iniziare a sedersi nel mio stesso tavolo. La mia facciata da solitaria la indusse a muoversi con molta più lentezza di quando avrebbe fatto solitamente, tanto che inizialmente era restia a sedersi accanto a me, poi invece sembrò determinata ed un giorno mi venne vicino e mi disse che aveva preparato dei biscotti anche per me. Ero così scossa, non sapevo come reagire, per molti sembrerà banale un dono così, ma per me, era così tanto. Era come se mi stesse offrendo un pezzo di se, un po' un invito ad essere parte di lei ed io non ricevevo mai inviti del genere. Iniziò a raccontarmi della sua vita, mi disse di avere un marito che morì qualche anno prima, mi raccontò la loro storia: si erano conosciuti a causa delle loro famiglie, lei non voleva e per questo cercava di fuggire, ma al contrario lui le disse che sarebbe potuta andare, che non l'avrebbe trattenuta, ma, se solo lei avesse voluto, lui avrebbe potuto attraversare il mondo per lei. Non giurava di amarla, perché amare aveva un peso grosso, ma aveva promesso ed era determinato a portare a termine la sua promessa. Passarono i primi anni a conoscersi, come avrebbero fatto due semplici fidanzati con l'unica differenza che loro erano già sposati. Lui era bello come pochi ed aveva un carattere difficile, un carattere che attirava tutte le donne. Un anno dopo lui le disse di provare qualcosa di forte e per non spaventarla non le pronunciò mai quelle paroline; lei, terrorizzata, scappò. Lui non andò a cercarla anche se sapeva perfettamente dove si trovasse, aspettò che fosse lei a tornare da lui e così fece. Passavano gli anni e loro si amavano sempre di più, lei divenne la sua ombra e lui la sua. Ogni notte, prima di andare a dormire, o quando lei aveva un incubo, lui la prendeva con sé e le raccontava frammenti storici. Lui era un'amante della storia e questo spiega come lo diventò anche lei. Diceva che la storia era importante, solo conoscendo i nostri errori e dei nostri antenati potevamo porre rimedio. Ebbero due figli: Joseph e Juliet. Da cui ebbero quattro splendidi nipotini. Soffrì tantissimo della sua scomparsa, ma dentro di se, nel suo cuore, era ingabbiato il ricordo ardente di lui, un marchio che nessuno avrebbe potuto togliere.
Il martedì venivano due gemelli, Kylie e Jacob, avevano dieci anni, la madre li lasciava perché svolgessero i loro compiti. Lei aveva i capelli lunghi e neri, due grandi occhi blu ed una carnagione chiarissima, suo fratello la chiamava "Biancaneve", soprattuto perché era solita portare una mela rossa come merenda. Lui era come lei, ma al maschile: enormi occhi blu e capelli scuri corti. Erano uguali, fatta eccezione del carattere. Lei era dolce e timida, lui, invece, era una macchina da guerra, non smetteva di parlare nemmeno un secondo e per questo motivo si beccava continui rimproveri. Il mercoledì, la biblioteca, era stranamente affollata, per quanto potesse esserlo. Oltre i gemelli ed io vi erano anche Denis e Eleonor, due graziose ragazze. Erano migliori amiche, suppongo, molto affiatate e solitamente passavano il tempo con i gemelli. Il giovedì toccava ad un vecchio signore. Un signore che portava dietro la saggezza di ben ottant'anni. Un tempo doveva essere stato davvero un bel uomo. Era discreto, sembrava uscito da un libro. Aveva l'aria di chi sapeva, ma preferiva tacere perché sapeva bene quanto pesassero le parole e quanto prezioso fosse il silenzio. Poi c'era Madison, la bibliotecaria, una donna grassoccia con paio di occhiali piccolissimi e di un rosa scuro che coprivano i suoi piccoli occhi color nocciola. I capelli castani, lisci e corti incorniciavano il suo viso. La bocca piccola, che quando rideva mostrava i suoi minuscoli denti. Una donna unica nel suo genere. Amava i suoi libri e teneva quel posto come fosse il suo regno, nulla le sfuggiva, aveva una parola per tutti. Non c'era libro che non conoscesse, non c'era autore che le sfuggisse ed era finita per diventare un personaggio. Camminava con la sua andatura lenta ed un passo cadenzato, il suo lungo cappotto verde bottiglia fasciava il suo grassoccio corpo ed una borsetta nera sempre nella sua mano. Non mancava mai il caffè, nero ed amaro un misto che faceva contrasto al suo essere. Era come un arcobaleno in un giorno di pioggia. Con il tempo divenne la mia roccia, un po' come una grande mamma, una donatrice di affetto.
Rimaneva solo il venerdì in cui raramente si intravedeva qualche studente ed il sabato in cui la biblioteca rimaneva chiusa.

Entrando salutai Madison, mi sedetti nel mio solito tavolino sotto la finestra e presi un po' di tempo per guardarmi attorno, assaporare quel profumo di sicurezza e accettarmi che fosse tutto al suo posto, nulla di nuovo, in fondo ho sempre odiato i cambiamenti, mi destabilizzano, mi rendono insicura ed io ho sempre avuto un'immensa paura di perdere il controllo. Mi soffermo in particolare modo ad osservare quel vecchio pianoforte nero a coda, un arredo insolito per una biblioteca eppure sembrava parte di quel posto, un pezzo di puzzle che attaccava perfettamente. Un tempo quello strumento veniva suonato dal marito di Madison, ma appena lui andò via, non rimase che un vecchio strumento, ora pezzo di arredamento. Presi il mio libro, uno dei miei preferiti, incominciando ad esplorare un altro dei miei mondi ottocenteschi fatti di dame orgogliose e mariti traditori, amori tormentati e morti dolorose.
«Piccola, da quanto tempo non dormi? Hai delle brutte occhiaie.» una dolce voce mi fece tornare nel mondo reale allontanandomi da una dama addolorata.
«Sto bene e solo che non ho molto sonno ultimamente» dissi irritata, non volendo realmente prendermela con lei, ma lo stress mischiato alle notti insonni e lo stomaco vuoto non porta mai nulla di buono. Ed era vero, i pensieri sono continui e corrosivi, lentamente mi stavano divorando. Era come se ci fosse qualcosa, qualcosa di oscuro che si stava avvicinando e cercassero di avvisarmi, ogni notte, da giorni, si ripeteva lo stesso incubo che finiva in egual modo: "non è ancora finita" una frase che mi perseguitava, una frase che faceva da colonna sonora alle mie notti bianche. Avevo sprecato il mio tempo a capire cioè che volesse dirmi la mia mente eppure non avevo trovato nulla che mi desse una risposta e questo mi mandava in paranoia.
«Bambina mia, cosa c'è che non va?» domandò ancora; il non arrendersi davanti ai miei muri era da sempre stata una sua caratteristica.
«Ti ripeto che-» il solito rumore che indicava l'entrata di qualcuno mi interruppe. Una figura slanciata entrò. I miei occhi furano catturati come calamite da quella figura misteriosa. Sembrava un'ombra nella notte, un alone di oscurità lo nascondeva da occhi indiscreti, non faceva trasparire nulla, muri su muri lo isolavano dal mondo, era cupo e chiuso. Intimoriva e ghiacciava, il suo imponente corpo ti allontanava, non prometteva nulla di buono. Lo guardai mentre si sedette in un posto isolato, prese un diario in pelle ed incominciò a scrivere e notai come solo era, solo con i suoi demoni che ballavano a ritmo dei suoi battiti. Ero affascinata da tale pericolo che quasi non mi riconobbi e fu Madison a destare i miei occhi peccaminosi da quella figura. «Chi sarà mai quel ragazzo?» chiese in una domanda retorica mentre il suo corpo viaggiava verso quel fumo nero, perché di sostanza non possiamo parlare.
Era fumo, fumo malato e tossico che si attacca, si impregna dentro di te e non ti lascia andare, ma non resta poiché fumo vola via e lui di restare, non era capace.
Vidi la donna prendere il suo posto dietro il bancone, vidi lui completamente ignaro di quattro occhi che cercavano di esaminare la sua anima eppure non ci riuscivano, anche da lontano riusciva a respingere occhi penetranti come i nostri. Decisi di scacciare ogni pensiero su quel ragazzo giustificandomi che fosse perché non l'avevo mai visto e continuai a leggere e così facendo passai il resto del mio pomeriggio in un mondo a cui non appartenevo. Alle sette in punto, come era mio solito, non so bene per quale motivo andassi via a quel orario, ma sarà perché sono un'abitudinaria, conservai ed andai via. Quando fui fuori vidi il riccio appoggiato al muro, il diario in una mano e la sigaretta nell'altra. Era il dolore e il vuoto al tempo stesso, sembrava essersi plasmato da una nube di peccati. Ammirai mentre faceva fuoriuscire il fumo dalle sue labbra rosse, come lentamente si lasciava morire mostrandosi apatico e distaccato anche davanti ad una nemica come la morte. Rimasi a guardarlo come una bambina incuriosita per un tempo indeterminato, non mi importava se mi avesse scoperto a fissarlo, lui era un quadro, un quadro dipinto da un pittore maledetto, un pittore pieno di rabbia; era il frutto di lacrime e pazzia, era follia. Era così bello, così a pezzi, nascondeva così tanto che nessuno avrebbe potuto salvarlo, lui non voleva che qualcuno lo salvasse. Voleva solo che qualcuno lo aiutasse a ricomporsi, il problema era che quei pezzi non erano altro che granelli di sabbia.
«Hai finito?» spaventata feci un passo indietro e un leggero rosato si espanse sulle mie gote, sperai che la notte nascondesse le mie debolezze.
«Di fare cosa, scusa?» esordì con fare glaciale e e per la prima volta incontrai i suoi occhi. Feci un ulteriore passo indietro, quei meravigliosi occhi si poggiarono su di me e mi tolsero qualsiasi controllo avessi su me stessa, ogni mio nervo vibrò come scosso da qualcosa. Con uno sguardo mi penetrò fin dentro le ossa.
"Non è ancora finita." Si ripeteva quella frase nella mia testa, vorticava e mi annebbiava i sensi ed io cercai di mandarla via, come scacci via una mosca fastidiosa.
Forse, avrei dovuto ascoltare la mia mente malata.
«So che hai capito benissimo, ragazzina» guardò davanti a se, gettò il mozzicone per terra calpestandolo con sdegno come amareggiato del fatto che fosse finito così presto, come se non fosse riuscito ad assaporarlo, come bramasse qualcosa di più forte.
Mi lasciò immobile, con i sensi inebriati dal suo profumo, la mente ovunque tranne che lì e quella sensazione che sarebbe venuto a riprendermi.

La biblioteca dei segretiDove le storie prendono vita. Scoprilo ora