12. Passato e presente

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Louis

Come tutte le mattine, la mia sveglia incominciò a suonare squarciando di netto il mondo dei sogni, catapultandomi nella realtà.
Il ricordo vivido della sera prima mi faceva esaltare ancora dalla gioia.
Mi aveva detto di passare a trovarlo, più o meno.
Avrei voluto andarci ora stesso, ma avevo scuola. Ma il solo pensiero che aspettava una mia visita, mi mandava in eatasi.
Sbuffai e scesi dal letto andando in bagno a prepararmi. Subito dopo tornai in camera e cercai per tutta la stanza lo zaino, ma non c'era nessuna traccia di quella sacca.
Mi sedetti sul letto e percorsi con la mente le cose che avevo fatto ieri sera una volta tornato a casa, ma non ricordavo proprio di aver appoggiato da qualche parte lo zainetto.
E ora? Non potevo mica andare a scuola senza un qualcosa per metterci dentro i libri, per non parlare del fatto che dentro a quello che avevo perso c'erano molte cose che mi sarebbero servite.
Spazientito lanciai un piccolo urlo e mi scompigliai i capelli con forza con le mani, come se così riuscissi a far uscire qualche idea.
Aprii l'armadio verdastro, dove c'erano un mucchio di vestiti accartocciati, e cercai un qualcosa di decente per contenere il materiale didattico almeno per oggi, poi nel pomeriggio avrei provveduto ad una soluzione migliore.
Ma da quella scatola gigante attacatta al muro, che era un vero caos, uscì solo un saccottino arancione. Anche se lo trovavo orrendo, me lo feci andare bene. Ci misi dentro una penna mangiicchiata che avevo trovato nel primo cassetto della mia scrivania, sperando che funzionasse, e i primi due quaderni che mi passarono dalle mani.
Seppur la giornata di ieri si era conclusa inaspettatamente magnifica oggi, invece, stava andando tutto storto. Ma c'ero abituato, la mia vita era cominciata male e doveva finire altrettanto.
Sin dalla nascita, dopo la prima ora di vita, avevo tolto la vita a chi me l'aveva appena data, mia madre. Sembrava proprio che mi avesse ceduto la sua, di vita. Dopo un parto naturale e pressoché normale, aveva avuto un'emorragia post-partum precoce. La causa era stata affibbiata per aver partorito troppo presto, avevo troppa fretta di nascere. E a costo di questo, persi l'unica persona che forse mi avrebbe apprezzato.
Mia nonna materna, prima di lascermi anche lei, mi ripeteva sempre queste parole: " Sono sicura che, anche se tua madre avesse saputo in anticipo che facendo nascere te le sarebbe costata la vita, avrebbe rifatto cento volte quel gesto." E poi continuava: " E, secondo me, tua madre lo sapeva, se lo sentiva che sarebbe successo qualcosa di brutto. Lei..." E finiva lì. Gli dicevo sempre di continuare ciò che stava raccontando ma, come un disco rotto, si fermava sempre in quel punto preciso. Con il tempo avevo capito che forse, non voleva parlarne, che più raccontava di lei, dell'unica figlia che non aveva più, e più sentiva il dolore della sua mancanza. E mi accorsi troppo tardi che la morte di mia madre aveva depositato un qualcosa di marcio nel corpo di mia nonna, e questo, anno dopo anno, non aveva fatto altro che crescere, crescere e ancora crescere; espandendosi da tutte le parti, perché era questo che faceva il dolore: ti si conficcava all'interno, ti sentivi sempre sporco dentro, e man mano ti distruggevi da solo.
Mi arrampicai il mini-zainetto sulle spalle e andai di sotto. Lì Mario, mio padre, era vicino alla porta d'entrata intento a mettersi una vecchia felpa a cerniera che non cambiava da anni, infatti era tutta logora, consumata, scolorita. Sin da bambino non mi aveva mai permesso di chiamarlo in quel modo, a detta sua non ne ero in grado, non mi meritavo di chiamarlo tale. Aveva un ripudio verso di me, lo aveva sempre avuto, come se avessi la peste o la lebbra; eppure ero sanissimo. Cercava sempre di evitare contatti, sia verbali che non. Quando mi doveva parlare per una causa maggiore, si limitava a muovere le labbra mentre gli occhi vagavano altrove, a volte perfino chiudeva le palpebre pur di non fissarmi in faccia. Non riuscivo proprio a capire perché facesse così.
La nonna mi consolava sempre dicendo che, forse era solo il fatto che non assomigliavo a mia mamma, o meglio, avevo preso solo i capelli da lei: neri, lunghi e folti. Invece, per quanto riguarda il resto l'ho preso da lui, fatta eccezione per gli occhi chiari di mia nonna. Anche se, quest'ultima, mi diceva di non provare nessun rancore o altro per lui, ma sotto sotto non potevo non arrabbiarmi. Per tutti i miei quindici anni mia nonna mi aveva fatto sia da madre e sia da padre allo stesso tempo, e per questo le ero grata: cercava sempre di capirmi, di aiutarmi per qualsiasi minima cosa e pensava lei a tranquillizzare mio padre se mai facevo qualcosa che non avrei dovuto fare, ed era anche merito suo se in quegli anni non mi aveva mai alzato un dito. Infatti, a volte mi chiedevo come sarebbe andata se lei non ci fosse stata; che vita farei.
Mi avvicinai a lui, di solito mi dava un passaggio quasi fino a scuola, mai fino all'ingresso: si vergognava pure di farci vedere insieme. E molte volte, ringraziando sempre mamma, mi veniva l'idea di come sarebbe stata meglio la vita senza di me. Poi però, scacciavo via quel pensiero brutto, soffocante.
Uscii per primo io da casa e, una volta sbucato via dal portone, rimasi senza fiato nel vederlo. Cosa ci faceva lì?
Appena mi vide, Walter suonò il clacson stonato della sua piccola vettura e io finalmente ripresi a respirare.
Intanto uscì dall'auto, appoggiando un braccio sul tettuccio.
Mi avvicinai verso di lui, nello stesso punto dove c'eravamo salutati ieri sera, e andandogli più vicino mi accorsi che indossava un paio di occhiali da sole che lo rendevano ancora più figo, ma che, ancora una volta, c'era qualcosa a nascondergli gli occhi.
<Che ci fai qui?> domandai con una voce quasi squillante, e me ne vergognai subito. Non era da me avere una certa voce.
Lui, però, non ci diede importanza, anzi mi diede una piccola pacca sulla spalla.
<Ho una cosa per te.>
Rimise la testa dentro l'auto, e ne estrasse magicamente il mio zaino blu.
Rimasi basito e meravigliato nel vederlo, allo stesso tempo. Lo avevo cercato in tutta la casa diventando pazzo quando lo aveva lui.
<Qualcosa, come la tua faccia, mi dice che lo stavi cercando ma che non lo trovavi.> disse ridendo.
Alzai gli occhi al cielo e lo guardai di traverso.
<Dai scherzo. Almemo un grazie.> replicò, poi spiegò: <Te lo sei dimenticato ieri sera in biblioteca, poi mentre tornavo indietro da casa tua una mia collega mi ha chiamato, e mi aveva detto se per caso avessi lasciato uno zaino a lavoro. Poi mi venne in mente che poteva essere tuo, insomma.. dopo quello che è successo era facile dimenticarsi, così sono tornato indietro e ci avevo visto giusto.>
Rimasi di nuovo a bocca aperta. Mi aveva pensato! Ma continuava a guardarmi aspettando una mia risposta.
Mi schiarii la voce e ribattei sarcasticamente: <Si si, sembra proprio che vuoi fare colpo su di me.>
In quel momento, mio padre uscì fuori sulla strada con la testa china e con il passo indirizzato verso la sua macchina. Nel momento in cui sollevò di poco la testa, mi guardò. Poi schernì il ragazzo che mi stava accanto. La sua espressione come al solito vacua. Non ci diede molta importanza, anzi, si mise nella macchina e con la velocità sgommò sulla strada e se ne andò.
Il rumore che provocò fece uscire un piccolo insulto dalle labbra di Walter.
<Ma chi cavolo era quello?!>
<Mio padre.> sputai fuori.
E scoppiai a ridere appena vidi la sua espressione corruciata.
<Tranquillo, puoi dire tutto ciò che vuoi su di lui tanto non me ne importa.>, si risollevò alle mie parole, <Per me vale meno di zero.>
Già, era proprio così. Mi potevo chiamare orfano, o come preferivo definirmi io: il figlio di nessuno.
Mentre ero intento a guardare la strada, Walter si era alzato per qualche secondo gli occhiali e mi giardava, ma nel momento in cui mi girai lui se li riabbassò. Ma ora non avevo tempo per pensarci, se non mi muovevo arrivavo tardissimo a scuola, e la professoressa di letteratura mi avrebbe fatto entrare alla seconda ora per quel piccolo ritardo.
<Scusa, ma ora devo proprio andare; il mio passaggio se n'è andato e sono rimasto a piedi e se non mi muovo arrivo in ritardo.> dissi aggiustandomi l'altro zaino sulle spalle.
<Scemo salta su.>
Sbattei gli occhi più volte prima di rendermi conto che mi aveva invitato per la seconda volta nella sua macchina.
<Guarda che potrei abbituarmici, eh.> annuncia appena salii in auto.
Si mise a ridere di gusto, quel sorriso che coinvolse anche il mio. E io ero raro che ridessi, ma con lui mi sentivo a mio agio.
Girò la chiave, mise in funzione la macchina e partì.
Chissà, forse lui era quella persona di cui parlava la nonna.
"Un giorno troverai quella persona che ti strapperà ogni sorriso nascosto."

Salve cari lettori.
Se ve lo state chiedendo, sì ho preso gusto nel fare questi spazio autore. Comunque volevo solo scusarmi se ci sono errori di vario tipo nel capitolo, ma siccome mi riesce di aggiornare solo la sera tardi... beh il sonno si fa sentire.
Spero che la storia vi stia prendendo, e niente.
Al prossimo capitolo!

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