8. Forza (Capitolo revisionato)

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"Papà, questa sera mi trattengo un po' di più alla CCG. No, non ti preoccupare. Non è successo niente. Si, allora ci vediamo più tardi.
Ti voglio bene anche io. Ciao, papà."-dico, rassicurando mio padre, al telefono.
"Come mai non gli hai detto la verità?"-Juuzou mi chiede, con aria innocente e interrogativa
"Come mai, dici? Bhe...ma è ovvio!
Se sapesse la verità, mio padre si arrabbierebbe. Lui ha già tanti problemi a cui pensare..."-ammetto, e il mio tono di voce diminuisce ad ogni parola, mentre perdo il sorriso, che prima mi illuminava il volto; che, stranamente, lo caratterizza, quando sono con il mio capo.
"Problemi? Io direi che il più grande problema che lo affligga sia tu, Mirai cara."-confessa l'albino, socchiudendo leggermente le palpebre, e sorridendo, maliziosamente. Ma io non capisco: perché queste parole?
"Cosa intendi dire?"-dico, sperando in una risposta intelligente o, quantomeno, esaustiva.
"Insomma, se io fossi costretto a vivere con te, credo mi suiciderei per la noia!"-continua a confessare Juuzou, mentre le sue parole sono sempre più prepotenti e forti. Proprio non glielo permetto: io non permetto a nessuno di trattarmi in questo modo. Anzi, la mia pazienza, con il grande idiota che mi ritrovo davanti, è arrivata al limite. Quindi, le mie guance si tingono di rosa, fino a diventare del tutto rosse, per la rabbia crescente.
"Lascia che ti dica ch-"-mi preparo ad urlare, dimenticandomi di essere a lavoro; dimenticandomi di stare parlando con il mio capo.
"Prima che tu possa dire qualcosa, stavo scherzando!"-dice l'albino, scoppiando in un'immensa risata, che mi mette in imbarazzo, impedendomi di dire altro. Rimango, infatti, a bocca aperta. Poi, però, dopo essersi divertito, per avermi provocata, il mio collega piega il viso, e lo rivolge a terra.
"Vedi, Mirai...io volevo che tu ridessi, ma sono riuscito soltanto a farti arrabbiare,  perdonami."-si scusa Juuzou, prendendomi a guardare, e lasciandomi, ancora, senza parole; un'altra volta, l'ennesima volta. Facendomi sentire in colpa, per qualcosa che non ho fatto, ma che stavo per fare. Infatti, stavo per trattare male la persona che mi ha trattato meno male, tra tutte. E, anche se non so proprio cosa dire, mi preparo a prendere la parola, invano, perché preceduta dall'albino.
"Sai, mi sono accorto che ridi poco e, secondo me, chi non ride è un po' triste. Inoltre, in quanto tuo superiore, devo prendermi cura di te. Anzi, a questo proposito, io vorrei dirti una cosa."-dice, poi decide, nuovamente, di guardare il pavimento, come se si vergognasse, o avesse paura di confessare ciò che pensa.
"Dimmi pure..."-lo incito a continuare: voglio che continui a regalarmi quelle dolci parole, mentre lo vedo giocare con le mani, come se fosse in imbarazzo o, addirittura, spaventato. Ma io non mi arrendo, e continuo ad insistere con lo sguardo, perché ho estremamente bisogno della sua innocenza, della sua dolcezza; e della sua forza.
"È da un po' di tempo che me ne sono accorto. Vedi...tu hai una grande macchia nera sulla gamba destra!"-confessa l'albino, alzando, lentamente, lo sguardo su di me: ma come diamine ha fatto ad accorgersene?
"Insomma...a prima vista non si nota ma, se si guarda il punto attentamente, ci si accorge della sua presenza..."-continua a dire, sempre con lo stesso tono di voce; muovendo le mani, e agitandole: come diamine ha fatto a notarla?
"Adesso non pensare che ti guardi le gambe..."-lo sento giustificarsi, ma non presto nemmeno un po' di attenzione all'ultima frase pronunciata dal mio capo, che mi concentro a formulare una risposta, per la confessione di prima.
"N-no...i-io...sono caduta e...e credo che questa sia la conseguenza..."-dico a fatica, balbettando per la vergogna, cercando di sorridere. Un sorriso forzato, infatti, mi illumina il volto spento; ma Juuzou riprende a guardare il pavimento.
"Ti sarai fatta male..."-con voce dispiaciuta, risponde alla mia giustificazione; alla mia menzogna.
"Molto. Mi sono fatta molto male."-ammetto, stavolta senza mentire. Ed ecco che il mio capo si volta di nuovo a guardarmi.
"Sono cose che capitano.
Io cado sempre dal letto durante la notte!"-mi rassicura, ma non c'è niente al mondo che, oramai, possa consolarmi: sono cose che capitano, è vero; ma capitano troppe volte, in quest'ultimo periodo.
Allora, l'albino mi sorride dolcemente, e a me non resta che ricambiare il suo meraviglioso sorriso.

               •••••••

Terminato il turno di lavoro alla CCG, sono sulla strada di casa. Alzo lo sguardo al cielo, ma questa sera non si vedono stelle, soltanto nuvole grigie, che ingombrano l'aria e lo spazio; che sono di troppo: probabilmente, molto presto pioverà, eppure io non ho alcuna voglia di tornare a casa. Anzi, più riesco a trattenermi fuori, e più sono felice. Ad un tratto però, sebbene abbia cercato di mantenere un passo lento, posso vedere, presto, il mio appartamento; una luce accesa che mi mette tanta angoscia.
"Sono a casa, papà."-dico, a voce bassa, sperando di non essere sentita; di essere dimenticata, di essere ignorata.
"Tesoro, vieni in cucina."-mi ordina mio padre, che non si è dimenticato di sua figlia. Anzi, che mi attende con ansia. E allora, controvoglia, obbedisco. Ma, seppure cammini molto lentamente, e cerchi di impiegare il più tempo possibile a raggiungere quella maledetta stanza, arrivo in cucina. Non appena vedo mio padre, lo osservo in volto, abbasso il viso, ma non per vergogna; per paura. Poi un calcio, poi un altro. E poi uno schiaffo, un pugno. Uno, due.
"Dove sei stata per tutto questo tempo?"-il suo sguardo è severo, mentre io lo guardo da terra, inchinandomi dinanzi alla sua forza. O dinanzi alla sua debolezza? Cerco di non piangere, l'ho promesso. Ma infrango la promessa più grande che mi riguarda, e piango, in silenzio e di nascosto.
"Papà, perdonami...io..."-cerco di giustificare il mio ritardo, la voce spezzata dal pianto, ma mio padre non me ne da il tempo. Un calcio, un altro, e poi un altro ancora. Ma è la stanchezza, lui non ha colpe. Mio padre è solo una vittima di questa guerra: della guerra contro i ghoul, che hanno strappato una madre alla sua famiglia, a sua figlia, e a suo marito; alla persona che più l'aveva amata.
"Volevi fuggire da me, non è così?"
"N-no..."-mento, mento ancora. Piango, continuo a piangere. Poi un altro pugno; uno sull'occhio. E, distesa sul pavimento, riesco a vedere fuori dalla finestra: ha appena iniziato a piovere. Penso e ripenso al mio lavoro; ad un lavoro che non merito. Io, infatti, non sono forte, anzi, non lo sono mai stata. Sono debole, proprio come mio padre. E nonostante dica che abbia superato la morte di mia madre, questo non è mai accaduto. Io sono debole, maledettamente debole, e, esattamente come mio padre, che camuffa le sue debolezze con una falsa forza, ho paura; paura di vivere, e di lottare. Una paura folle, che si impossessa del mio corpo e mi impedisce di fare qualunque cosa io voglia, sogni o desideri. Perché io non sono forte, né coraggiosa, ma lo giuro. Io te lo giuro, Juuzou: ti prometto che combatterò al tuo fianco, cercando di imitare la tua forza.

Mi sono innamorata di te [In revisione]Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora