13. Famiglia pt.1 (Capitolo revisionato)

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"Ciao bambini, buona giornata! Ciao Mirai, e grazie!"-saluta me e i suoi figli la signora Miyoshi, socchiudendo la porta dinanzi ai nostri occhi, e scomparendo dalla nostra vista; con un sorriso a trentadue denti e delle mani svolazzanti, i bambini ricambiano e concedano la loro madre. Sorrido anch'io ad entrambi, mi assicuro di stringere le loro piccole mani, guardo prima a destra, poi a sinistra, per attraversare in tutta sicurezza la strada, e, dopo aver camminato per un po', posso già intravedere la scuola che frequentano i figli del signor Shinohara. Mi sono offerta di accompagnarvi i bambini, per due motivi principali. Innanzitutto, sto cercando di darmi da fare con le faccende domestiche e aiuto la moglie del mio capo ogni qual volta la vedo stanca o in leggera difficoltà, perché voglio ringraziare lei e suo marito della loro disponibilità, e per essere stati tanto gentili con me: per Shinohara sono soltanto un'estranea, eppure l'investigatore ha insistito tanto per avermi a casa sua, saputo ciò che era successo e come stavano le cose nella mia.
Inoltre, e può sembrare strano, ma non mi dispiace affatto passare del tempo con due angioletti come quelli che continuano a saltellarmi vicino, e i cui saltelli non sono poi così drastici da permettergli di arrivarmi alla vita: Yuno e Yuki, così si chiamano i figli del mio capo, sono due gemelli e hanno appena compiuto 8 anni, ma, per la loro età, sono già abbastanza maturi e molto educati: inoltre, non parlano spesso, o se lo fanno, quasi sussurrano. Ed io adoro il silenzio.
Continuiamo a camminare, quando, ad un certo punto, Yuno si ferma, e, tirandomi per la veste che indosso, mi costringe a piegarmi, e ad abbassarmi alla sua modesta altezza, per poterla guardare negli occhi.
"La scuola è lì!"-mi informa la bambina, per poi indicare con il dito la meta, e costringermi a seguire la sua mano con lo sguardo; ma io sapevo già di essere arrivati.
"Puoi aspettare qui, perché noi sappiamo attraversare la strada da soli!"-continua Yuno, quindi io le sorrido e, dopo averle dato un bacio sulla fronte, e dopo aver fatto lo stesso con il fratellino, guardo come i due bimbi attraversano la strada, tenendosi per mano, e, dinanzi ad una simile immagine, quasi mi sciolgo. Li vedo, poi, raggiungere l'altra parte della strada, e salutarmi con la mano, ma non mi distraggo dai loro piccoli corpi, fino a quando non raggiungono il cancello della scuola, e vi entrano dentro.
In realtà, conosco fin troppo bene questo posto: anche io, come i figli del signor Shinohara, vi ho trascorso la mia infanzia.
Mio padre lavorava in questa scuola come insegnante e, dopo le lezioni, molto spesso, capitava che lo accompagnassi a varie riunioni e che, quindi, oltre a trascorrervi tutte le mattine della settimana, mi ci fermassi anche di pomeriggio.
Ma prima di mentire, e di dichiarare di avere nostalgia di una parte del mio passato che, invece, voglio soltanto dimenticare, mi volto, distolgo l'attenzione dall'oggetto dei miei pensieri, e da uno dei luoghi più opprimenti di sempre, per me, e inizio a percorrere la strada che mi ha condotta qui, per tornare a casa. Insomma, in quella del mio capo; la mia, in fondo, vuota com'è adesso, molto più di quanto lo è sempre stata, non posso nemmeno definirla tale.
Continuo a camminare, cerco di non pensare a cose tristi, ma, d'improvviso, perdo il sorriso con cui mi sono dolcemente rivolta ai bambini prima: chissà come sta mio padre! Mi sento quasi colpevole; ma, in fondo, cosa gli ho fatto di male? Sono, soltanto, scappata dalla sua crudeltà, dalla prigione in cui mi aveva rinchiuso; ho deciso di fuggire dalla realtà in cui mi ha costretto a vivere, e ho, soltanto, chiesto aiuto. Era da così tanto tempo che volevo farlo: la situazione si era fatta difficile. Eppure, ogni volta che ripensavo alle sue possenti braccia, e al suo sguardo cattivo, alla voce feroce con la quale si rivolgeva a me, tremavo al sol pensiero di urlare agli altri la bestia che mio padre era diventato, e avevo paura di confessare che, quella bestia, attaccava anche me. O, forse, più che paura, la mia era vergogna; e mi vergognavo già troppo di me, per ammettere di essere ancora più sola, di quanto già non fossi. Fin da bambina, infatti, sono sempre stata invidiosa dei miei compagni: loro avevano una madre sempre presente, attenta e premurosa, mentre io non ho mai provato la gioia di essere accompagnata a scuola dalla mia. Gli altri bambini avevano il permesso di gettarsi tra le braccia del proprio padre, quando tornava da lavoro; il mio, invece, non è mai stato in grado di stringermi a sé, e mi ha, in silenzio, proibito di abbracciarlo. Tanto è vero che, addestrata all'odio e al distacco, abituata alla freddezza che regnava in casa mia, non ho mai cercato amore; e non ho mai tentato di seminarlo: quando ne ricevevo un po', quello era troppo prezioso, affinché io potessi donarlo agli altri. Così tenevo ogni gentilezza per me, e mi rifiutavo di condividere il bene con gli altri: in fondo, perché mai donare al prossimo qualcosa che, difficilmente, lui stesso sa darti? Insomma, ero avara di amore, e incapace di offrirne al mondo. Forse, lo sono ancora oggi. Ma perché mai nessuno mi ha insegnato a condividere. E mentre tutti i miei compagni sorridevano felici, io ero sempre triste e insoddisfatta: loro avevano una famiglia, e io no. Io ne ho mai avuta una, e mai ne avrò: è troppo tardi, per iniziare a pensare agli altri.
Eppure, per una volta, una soltanto, vorrei sentirmi amata davvero.

•••••••

Finito di pranzare, avrei voluto aiutare la signora Miyoshi in cucina. Ma lei, rifiutando la mia offerta, mi ha chiesto di uscire a fare una passeggiata: la moglie del mio capo ha detto che le sembravo stanca e che, a suo parere, avrei dovuto distrarmi un po'. In realtà, mi sento benissimo. Insomma, mi sento come mi sento sempre.
Tuttavia, sono uscita comunque, perché mi sarebbe dispiaciuto ignorare il consiglio della donna, ovviamente dettomi a fin di bene; e, di certo, non avrebbe fatto piacere neppure a lei venire ignorata.
Ho optato, dunque, per girovagare nel centro della città, e adesso sto percorrendo una delle strade più trafficate di Tokyo. Come al solito, tanta gente è per negozi o, semplicemente, passeggia, come me, per le strade, e si limita a dare un'occhiata alle vetrine.
Mi fermo dinanzi quella di un costoso emporio, quando, ad un tratto, sento che qualcuno mi chiama, e la sua voce sembra essere familiare. Mi volto e riconosco, tra la folla, una persona sorridente, che agita la sua mano, per salutarmi.
"Juuzou!"-urlo, dopo aver riconosciuto l'albino, e devo ammettere di essere contenta di averlo incontrato: anche lui è solo e potremmo farci compagnia a vicenda.
"Come stai?"-mi chiede l'investigatore, anche se non credo sia veramente interessato alla mia risposta.
"Bene e tu?"-rispondo, notando un taccuino, o una sorta di agenda, nelle sue mani.
"Cosa ci fai con quello?"-chiedo, indicando l'oggetto misterioso, e costringendo anche Juuzou a guardarlo, per capire di cosa io stia parlando.
"Cerco un soggetto interessante da disegnare!"-mi spiega l'albino sorridendo, e contento che qualcuno gli abbia finalmente chiesto di parlare del taccuino, a cui sembra tenere particolarmente.
"Ti va di venire con me allo zoo?-mi domanda poi.
"Vedi, mi piacerebbe disegnare gli animali che ci vivono..."-infine, si giustifica.
"Ehm...va bene!"-dico, accettando l'invito. Allora, sbadatamente, iniziamo a camminare, ma, per fortuna, mi accorgo presto di non sapere dove si trovi lo zoo, quindi mi fermo, per un attimo.
"Conosci la strada per arrivarci, giusto?"-chiedo, ad un tratto, un po' preoccupata.
"Certo che la conosco! Segui me, ti guido io!"-mi dice il mio collega, mantenendo un'aria contenta, quasi soddisfatta. E udite le sue parole, la mia preoccupazione aumenta: mi guida lui? Povera me, mi perderò sicuramente!

Mi sono innamorata di te [In revisione]Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora