Trincee

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Ormai non ricordo quando sono arrivato: un giorno? Un mese? Un anno? Chi lo sa, quì tutti i giorni sono uguali, le uniche cose che cambiano sono le facce delle nuove reclute, venute per rimpiazzare i miei compagni caduti.
Il fango e gli spari mi hanno tolto ogni emozione: rabbia, paura, terrore, una pappa omogenea che una volta faceva di me una persona; adesso sono solo una giacca e un fucile.
Oggi è una giornata limpida, una volta erano le mie giornate preferite per andare in giro, passare del tempo con mia moglie, i miei figli, mio padre; adesso li detesto, è più facile essere visti dai cecchini e i bombardamenti sono più precisi.
Mentre vado a prendere la mia pagnotta scavalco un cadavere, un giovane a cui stava crescendo appena la barba, la quale forma piccole zone di peluria sul suo viso sporco di terra. Arrivato nelle retrovie e presa la mia pagnotta mi chiedono come al solito se voglio delle munizioni; rispondo di no, non ne ho mai sparata una, non so come si fa, e non capisco perché dovrei uccidere un altro uomo; questa non è la mia guerra, ero un contadino prima che la polizia venisse e mi portasse via tutto.
Torno alla mia piccola postazione, che non è altro che un solco nel fango, ma a fine giornata è come un letto morbidissimo; li faccio tutto, mangio, bevo, dormo...
Guardo la trincea nemica, sono come noi: stanchi, spossati, feriti, vuoti; i generali questo non lo capiscono, si limitano a parlare e a stare nelle retrovie; eccone uno, punta la pistola verso l'alto, a breve si combatterà, devo sopravvivere.
La carica viene lanciata dall'avversario, i soldati escono dalle trincee aiutandosi con i corpi dei loro amici caduti prima di loro, la baionetta montata sul fucile.
Ma ecco che si accende la belva, la mitragliatrice crea un muro di proiettili che non possono attraversare, la prima fila cade a terra sul filo spinato, finita dai proiettili, la seconda cerca di scavalcarli, cadendo anche loro, strappati dalla loro giovane vita non vissuta.
Lanciano le granate, non vogliono continuare a combattere, devo sopravvivere.
Cala la sera, vado all'albero sul quale ogni giorno che passo in questo inferno faccio un piccolo buco con la baionetta; ormai non assomiglia neanche più ad un albero. È quasi come uno specchio della mia anima, ogni giorno si consuma un po' di più, fino a non assomigliare più a niente, la carcassa di un uomo, sfigurato dalle avversità. Vado a dormire nel mio solco, dico una barzelletta ma nessuno ride, il mio conpagno si sarà spostato, oppure è morto, chi lo sa.

Oggi c'è una bella nebbiolina, che nasconde e protegge tutti, noi e loro, e che ci rende tutti uguali.
Vedo arrivare qualcosa simile ad una granata dall'alto; si rompe a poche decine di metri da me; da essa esce un gas marroncino. Non so di cosa si tratta, ma inizio a scappare; il sergente cerca di organizzare la ritirata, ma non lo ascoltiamo.
C'è un ragazzo a terra, tossisce, sta male, devo sopravvivere, lo aiuto ad alzarsi, lo guardo in faccia, avrà 17 anni, ha gli occhi pieni di lacrime, devo sopravvivere, il gelo mi congela le mani, gli dò la mia gacca, deve sopravvivere, gli dò un pezzo di stoffa per coprirsi la bocca, il mio fucile carico, deve sopravvivere, mi chiede il mio nome, non me lo ricordo, lo lascio scappare, deve sopravvivere; mi adagio al suolo trapassato dal freddo, aspetto l'inevitabile.
Quando arriva il gas mi riempie i polmoni già sfiancati dalla polvere da sparo, non provo dolore, non so più cos'è.
Il ragazzo si chiamava Giuseppe, a quanto pare è diventato poeta.
Anni dopo sotto al mio albero fu posizionata una lapide, per l'uomo che aveva salvato una vita; ne è valsa la pena, è sopravvissuto.


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