Un secondo sole

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"Cosa stiamo facendo?"
"Solo il nostro lavoro"
Non aveva tutti i torti, ma mentre l'aereo sfrecciava verso la nostra destinazione, non potevo fare a meno di pensare che quello che facevamo non era giusto, una mossa da codardi.
Non avevo paura di morire, l'avevo già considerato ovvio quando mi ero arruolato, ma pensavo di morire sul campo, combattendo il nemico ad armi pari, guardandolo negli occhi, non così, non c'è onore in questo.
"Come si chiama la città?" Chiesi mentre volavamo sul Pacifico; l'unica risposta fu il silenzio del pilota.
Non potei fare a meno di pensare al bersaglio: una città sulla costa, abitata da centinaia di uomini, donne, bambini e nessuno che se l'aspetti; "Arriveremo verso le otto di mattina"
mi disse il pilota; ancora una volta il mio pensiero cercò di fuggire verso luoghi amici, casa mia, la mia famiglia, il giardino dove giocavo con mio figlio a basket.Il rumore del motore non mi lasciava andare, lacerava le ali del mio pensiero, intrappolandolo in quel mostro di metallo.
"Torniamo indietro" dissi poco convinto;
"Anche a me piacerebbe, ma non possiamo, moriremmo comunque"
"Ma almeno salveremmo migliaia di vite"
"Che qualcun'altro mieterà al posto nostro; è solo questione di tempo"
Mi rassegnai e passai il resto del viaggio in silenzio, pensando ai fatti miei.
Arrivati sopra la città, guardai un'ultima volta il pilota, con occhi pieni di lacrime; anche lui stava piangendo, eppure ebbe ancora il coraggio di tirare la leva e sganciare il nostro carico; ci abbracciammo, piangendo e riconfortandoci a vicenda, impauriti dalla morte che avevamo appena sganciato; guardammo in basso, solo per scorgere la bomba un'ultima volta prima che detonasse in una palla di fuoco incandescente che rase al suolo tutte le case in poco più di un secondo, prima che l'onda d'urto ci raggiungesse anche noi, insieme al calore e alle radiazioni; le nostre carni si dissolsero, come tutto di noi e dell'aereo, venimmo cancellati dal mondo, purificati dal nostro stesso peccato, vivemmo la stessa sorte dei nostri bersagli per una fine ugualmente lancinante.
A qunto pare poco dopo la guerra è finita, "salvata" da noi due e da un'altra coppia di aviatori con lo stesso ingrato compito.
Quando impareremo che la guerra non è portatrice di pace?

Era una mattina come le altre, mi sveglai alle sette e trenta per andare al mio nuovo lavoro: un vero colpo di fortuna averlo trovato in una città così popolata come Hiroshima; tutti quegl'anni di studi intensi avrebbero finalmente servito a qualcosa; da quel giorno sarei diventato un uomo vero, rendendo fieri i miei genitori, come ogni giapponese dovrebbe fare.
Uscii di casa alle otto e presi la macchina per recarmi in centro: le strade che univano la periferia e il centro erano molto trafficate ma per fortuna riuscii a farmi strada per arrivare alle otto e dieci in centro; parcheggiata la macchina andai a piedi verso il mio ufficio ma a metà strada incontrai una piccola bambina che cercava sua madre piangendo; le presi la mano e cercai la madre, trovandola poco dopo tutta preoccupata per sua figlia; gliela consegnai e alzai lo sguardo al cielo: un aereo stava volando sopra di noi; non mi preoccupai, era normale in quel momento, fino a quando vidi cadere una cosa dall'aereo. In poco meno di un minuto quella che ormai ero sicuro fosse una bomba era arrivata a poche centinaia di metri da noi e in quel momento esplose, facendo cadere l'inferno sulle nostre teste; guardai verso la bambina che stava prendendo un gelato e vidi che anche lei stava piangendo, poi più niente, i miei occhi si evaporarono nell'aria, seguiti dopo poco da tutto il mio corpo, facendomi risentire un calore inumano. L'ultima cosa che pensai era il viso di mia moglie, che stava per partorire nell'ospedale a poche centinaia di metri da me.
Quando impareremo che la guerra non è portatrice di pace?




Che ne dite? Va bene? Consigli per migliorare oppure suggerimenti per una prossima storia?
Per il prossimo racconto sto preparando qualcosa abbastanza speciale, state in cuffia!

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