Capitolo 2

4 0 0
                                    



Partii un mese dopo. Avevo deciso di volermi un po' ambientare a Los Angeles prima che iniziassero i corsi, poi sarei andata qualche volta al campus per informarmi dei programmi di studio.

Il viaggio fu devastante, otto ore di volo per Chicago e poi altre due per Los Angeles.

Ero stanchissima. Ma dentro di me sentivo un'energia primordiale, mi sentivo giovanissima, tutti i dolori, le debolezze, quel senso di oppressione erano svaniti. Sperai che anche gli incubi sparissero, così come erano arrivati, esattamente un anno prima.

Camminavo nei corridoi dell'aeroporto leggera. Varcando la porta d'uscita, mi ritrovai davanti un cartello con una scritta: "Sofia Edwards" in verde.

Avevo origini inglesi, da parte paterna, ma mi era rimasto solo il cognome di straniero. Per il resto, non avevo nulla che ricordasse la fisionomia british. Ero l'immagine della mediterraneità: il fisico morbido, la carnagione olivastra, i capelli scuri mossi che mi cadevano sulle spalle. Da parte materna avevo però ereditato il mio segno distintivo, gli occhi. Avevano un colore ambrato, cangiante ai raggi del sole. Quando ero molto piccola, mia madre, che aveva una letterale fissazione per gli alberi genealogici e le origini, mi diceva sempre che erano una caratteristica della nostra famiglia e che varie nostre antenate avevano il mio stesso colore d'occhi, così come documentato attraverso ritratti di chissà quanti secoli prima, che custodiva gelosamente in cantina.

C'era un messicano grassottello ad accogliermi. Non sapevo nulla del suo arrivo, ma mi sembrò abbastanza ovvio che fosse un'idea di Marta. Sorrisi del pensiero, era il suo modo di farmi sentire che c'era anche lei, anche se l'avevo voluta tener fuori da questa mia nuova avventura, e che non mi avrebbe lasciata affrontare le difficoltà da sola, ovunque fossi stata. L'avrei chiamata non appena fossi arrivata a destinazione, per ringraziarla. Mi mancava già.

Allungai il bagaglio all'autista e lo seguii silenziosa fino alla macchina.

Uscendo dall'aeroporto fui investita dal tepore della California, che scrollò via anche gli ultimi brividi dell'aria condizionata dell'aereo e, con loro, ogni traccia di grigiore nel mio stato d'animo.

Mi stupii nel notare che era già sera e la città risplendeva stranamente silenziosa nelle sue luci artificiali.

Il viaggio in macchina durò circa tre quarti d'ora, non ricordavo che Santa Monica fosse così lontana.

Avevo deciso di prendere casa vicino al mare. Mi aveva sempre trasmesso un'idea di pace, di gioia. Anche d'inverno. E avevo pensato che forse, se mi fossi sentita persa, il mare mi avrebbe accolta, mi avrebbe fatto compagnia.

Tra l'altro, per il momento non dovevo andare ogni giorno all'università. All'inizio dei corsi, mi sarei spostata nel campus. Per il momento ero solo in esplorazione, per cercare di scrollare via quella serie di dubbi e paure che mi si erano incollate addosso dal mio viaggio precedente.

Non dissi una parola lungo tutto il tragitto. L'autista messicano mi stava raccontando come fosse arrivato lì tanti anni prima, e come avesse costruito tutto quello che aveva. Ma io lo ascoltavo solo distrattamente, scorrendo le immagini di quelle autostrade dall'aria impersonale che mi stavano conducendo alla mia nuova vita.

Guardavo fuori dal finestrino la strada immensa scorrere sotto le ruote, le luci, le palme, la grandezza delle cose. La bellezza degli Stati Uniti era proprio questa. L'immensità. Degli spazi, dei palazzi, dei parchi. Si poteva essere qualsiasi cosa lì, diventare chiunque. Ci si poteva perdere in qualsiasi momento, tutto era così grande da farti sparire. Si era liberi.

You've reached the end of published parts.

⏰ Last updated: Feb 01, 2017 ⏰

Add this story to your Library to get notified about new parts!

Chasing lifeWhere stories live. Discover now