dodici

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Girammo la testa così in fretta che ci scrocchiarono all'unisono le vertebre del collo: per prima cosa, perché eravamo talmente presi dalla nostra discussione che non ci eravamo accorti di una finestra socchiusa lì vicino; in secondo luogo, perché la voce che ci aveva sorpreso era quella di una ragazza, e una ragazza che ti rivolgesse la parola, e non per insultarti, era merce piuttosto rara.

Si trattava, nientemeno, che della figlia del vice ambasciatore (o qualcosa del genere) degli Stati Uniti, quella che girava sempre intorno a Federico; aveva aperto la finestra e ora se ne stava appoggiata con gli avambracci al davanzale, sporgendosi per puntarci meglio con quei fanali azzurri che aveva al posto degli occhi. Sorrideva e non sembrava affatto imbarazzata per aver messo il naso in una riunione che stava decidendo le sorti della nostra scuola.

"Da quanto tempo stavi lì ad ascoltare?" esclamò Aureliano, sgarbato.

"Um, about... circa un minuto," rispose lei, senza scomporsi. "È un problema?" Il suo accento straniero fece ondeggiare le parole con una cadenza bizzarra.

Aureliano sembrò preso in contropiede dalla disinvoltura della ragazza. "Beh... dipende," disse.

"Dipende di cosa?" chiese lei.

"Vuoi andare in giro a raccontare a tutta la scuola quello che stavamo dicendo? Magari anche a La Torre e agli amici suoi?" fece Aureliano, di nuovo a muso duro.

"Uh... no?" replicò l'altra, arricciando il naso in un'espressione che diceva chiaramente: per chi mi avete preso? "Io penso che è una buona idea." Pronunciò l'ultima parola come aidìa.

"Eh... grazie," disse Aureliano, spiazzato. Mi accorsi che dietro la sua aria da metallaro feroce, il mio amico non aveva più esperienza di me nel parlare con le nostre coetanee, e questo mi diede il coraggio di aprire bocca.

"Allora pensi anche tu che dovremmo metterci contro i coatti di scuola?"

Lei sembrò soppesare la questione. Atteggiò la bocca a una smorfia che sarebbe apparsa affettata, se non fosse stata invece così graziosa, e ruotò gli occhioni verso l'alto.

"Certo," disse infine. "A me, personamente... cioè personalmente, non mi hanno mai dato fastidio. Però pensano che la scuola è di loro, e vedo quello che fanno agli altri, come dicevate voi prima. Prendere in giro, picchiare la gente, fare i bullies, insomma. Especial... specialmente La Torre. È uno stronzo!"

La parolaccia, pronunciata con quell'accento, era semplicemente irresistibile. Scoppiammo a ridere tutti insieme.

"Però non avete ancora detto come volete fare," aggiunse la ragazza.

"A fare cosa?" chiese Aureliano.

"To beat the bullies," disse lei; subito strizzò gli occhi, accorgendosi che aveva scelto la lingua sbagliata. "Oh, cioè... a battere i bulli."

Io, Aureliano e Sandro ci guardammo. Non avevamo ancora pensato a quella parte.

"Escogiteremo un piano durante l'estate," dissi infine io, sperando di non suonare troppo stupido. Oddio, di sicuro suonava stupidissimo, a chi volevo darla a bere?

Ma la ragazza sembrò, invece, soddisfatta della risposta.

"Cool," disse, scoccandomi un sorrisone che mi fece formicolare le guance. "Perché non venite in... dentro casa?"

"Ok," rispondemmo tutti insieme, trattenendo a fatica l'entusiasmo. Una ragazza ci aveva rivolto la parola, e voleva continuare a rivolgercela!

Una mano si allungò verso di noi con gran scampanellare di braccialetti.

"Casey," si presentò la nostra interlocutrice.

Ci presentammo a nostra volta, sempre più increduli. Tutti gli odiosi coatti della scuola, da La Torre all'ultimo dei suoi cloni, erano improvvisamente spariti dalla mia mente.

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