Petrolio

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Fingendosi morto, aspettava che il lento fiume vitale si esaurisse sfociando in quel mare. 

Aveva più volte cercato di urlare per chiamare il suo banco, ma le urla seppur assordanti per le sue orecchie erano assorbite dal petrolio che lo circondava. 

Mai però si alzò in piedi cercando di risalire, mai tornò su quell'isola. 

Troppa era la sfiducia di cadere di nuovo, di perdere il controllo del suo destriero che a volte era pesce, a volte cavallo, a volte leone. 

Quando cadde quel giorno fu terribile. 

Aveva una maestria nel pilotare i suoi destrieri, sull'isola era il padrone di tutto e non falliva mai nelle sue imprese! 

Una volta si mise in testa di scalare la roccia di tufo più alta dell'isola, un'idea pazzesca che non era umanamente possibile data la conformazione della parete e la precaria stabilità del tufo.

Ma lui non era un uomo, o meglio non si credeva tale.

Beh quel giorno non mangiò neppure appena sveglio, con un panno che gli copriva il basso ventre si tuffò nel laghetto dove era solito far tappa tutti i giorni, i suoi occhi azzurri che fissavano la parete erano delle palle di ghiaccio incastonate in un volto duro e potente che ostentava certezza.

Non fu nemmeno difficile urlare al cielo -sono il migliore!- lassù dall'alto del monte, come per sfottere Dio, come  

se tutto il mondo sapesse chi fosse e cosa avesse fatto, ed invidiasse le sue doti. 

Non cadde no. Forse se fosse successo durante la scalata se ne sarebbe fatto una ragione.

-l'impresa era davvero disumana! Roba che nessuno avrebbe mai portato a termine, ci riprovo e ce la faccio- avrebbe pensato. 

No non cadde per sua sfortuna quella volta, molto meno ambiziosa era l'impresa che fallì.

Ai piedi di quella montagna di tufo lo stesso giorno dopo essere sceso, accadde il fatto. 

Il solito laghetto, quello di tutti i giorni quello delle sue vasche pomeridiane, quello.

Nemmeno era sceso ancora, tre o quattro metri di altezza appeso alla parete e si tuffò, sudato e stremato com'era cominciò a nuotare sicuro, negli occhi la certezza di essere vincitore ancora una volta. A metà strada, forse anche oltre la metà ad un passo dalla spiaggia, il suo corpo si fermò. 

Le gambe si  immobilizzarono, la vista si oscurò, le braccia rimasero tinche come bastoni galleggianti sull'acqua. 

Poi Svenne.

Rimase molle sull'acqua per ore prima di svegliarsi. 

Raggiunse la spiaggia a fatica, guardò il suo corpo, le sue mani, le sue spalle, la sua pelle, poi si specchiò sull'acqua. 

I suoi occhi erano davvero di ghiaccio stavolta, non nel colore bensì nello sguardo: apatico, senz'animo, erano gli occhi di una statua di marmo bianca potente che resiste per anni sotto la pioggia battente poi con il sassolino che un bambino lancia questa crolla, si sfalda completamente. 

Un ampolla di vetro finissimo, unica nel suo genere, pura e sferica, in sospensione nel nulla in equilibro con se stessa e la materia che la costituisce, che colpita da un ago lasciato cadere dall'alto si infrange in mille  pezzi. Mille vitrei rintocchi di quei cocci arrivano alle sue orecchie e il loro eco risuona schernendolo, ridendo di lui, sconfitto fra pezzi di marmo, cocci e sabbia.

Steso guardava il cielo, poi una domanda, la prima: -perché?-.

Immobile, orizzontale sulla sabbia, cercava di far tacere quelle voci e amplificare quelle certezze di uomo che aveva sempre avuto, ma che ora non decifrava più.

-Ho sbagliato. Ho fallito.-

Un robot fatto di nervi d'acciaio, carne di ferro, sangue d'olio. Erano comandi i suoi non più istinto.

I movimenti e le sue mossa erano calcolate, statiche, non più libere, erano i movimenti meccanici di uno strumento che modella la vita di un uomo alla perfezione, ma senza sensazioni, emozioni, calore.

Freddo.

Il giorno successivo durante il tentativo di scalare di nuovo la montagna di tufo allo statico-imposto movimento del braccio verso l'alto, la gamba sinistra non rispose rimanendo paralizzata. 

Le corde del burattino si erano allentate e il pezzo di legno cadde procurandosi un taglio sul torace. Una bella cicatrice che colava olio. 

Gli animali che popolavano l'isola ai suoi occhi divennero belve feroci, di notte le ombre gli urlavano -perdente-, le palme erano divenute altissime.

Sull'isola non c'era più motivo di restare. Per mesi riprovò a compiere le normali azioni giornaliere: la caccia, la pesca, la coltivazione, la corsa, senza mai riuscire in nulla. 

I cocci erano troppo piccoli per poter ricostruire l'ampolla, i pezzi di marmo si erano sbriciolati. 

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