Incontri bizzarri

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Il tempo. Ognuno di noi posside una concezione diversa di tempo. Per alcuni può essere "un artifizio umano così come il bello e il giusto", come per Aristotele, per altri può essere portatore di gioie e fonte di avventure, per altri ancora è poesia. Io, invece, lo vedevo solo come un capriccioso ragazzino che si diletta nel fare scherzi infantili. E' ingiusto, fugace, ed illusorio, e correndo per il grande cortile alberato, oltre alla miriade di maledizioni che mi infliggevo a causa sua, c'era una parola che risuonava nella mia mente come un mantra, e quella parola era merda.

Ero tremendamente in ritardo - un altro piccolo peccatuccio - per un importante lezione. Più volte rischiai di scivolare sul tortuoso sentiero ghiaiato, e la tentazione di fermarmi per riprender fiato anche per un solo istante era alta, ma cercai comunque di andare avanti, scacciando quella micidiale sensazione di bruciore che si andava ramificando lungo i miei polmoni anneriti, e promettendo loro, come da manuale, che non li avrei mai più violentati con quel fumo passivo che ormai mi soggiogava da anni.

Ad un certo punto però, più in fretta di quanto mi aspettasi, cominciai ad intravedere in lontananza il vecchio edificio, il quale mi aspettava severo lanciandomi dure occhiate di disprezzo.

Boria. Eleganza. Soggezione. Compostezza. Odore di cuoio e vecchi libri. Tutto ciò che celava al suo interno, sotto spessi veli di ipocrisia, poteva essere racchiuso in queste poche parole. Ad ogni mio passo sul pavimento marmoreo del semideserto atrio, risuonava tra le affrescate volte a vela dell'alto soffitto un fastidiosissimo scricchiolio, che alla fine dei conti si scoprì provenire dalle suole bagnate delle mie scarpe. Riuscivo quasi a palpare gli sguardi gonfi di biasimo dei pochi presenti che stavano oziando su delle poltroncine in pelle sparse qua e là vicino il solenne atrio. Sentii le mie guance infuocarsi, ma abbassai il capo ed imbarazzato più che mai accelerai il passo, fingendo di ignorare quello scricchiolio che andava crescendo, e sperando di mettere fine il prima possibile a quel supplizio.

Entrai annaspando in uno dei molteplici corridoi, e seppur avessi percorso quella strada almeno un centinaio di volte, cominciai a farmi guidare dai vari quadri e manifesti appesi sulle quelle pareti arancio sbiadito che sembravano tutte uguali, e finalmente mi ritrovai dinnanzi la temuta aula. Presi un bel respiro e aprii timoroso la pesante porta in vetro satinato, sgattaiolandovi dentro proprio come un ladro, aggrappandomi saldamente alla speranza di passare inosservato, ma subito una potente voce da soprano sbraitò il mio nome ai quattro venti.

«Signor Smith!»

Merda.

«Che magnifica sorpresa! Sono lieto che ci abbia deliziato con la sua presenza. Suvvia, venga a sedersi. Le ho lasciato un posticino proprio qui giù!» disse con voce colma di sarcasmo «Eh per l'amor di Sant'Andrea si dia una sistemata!» il suo tono diventò glaciale.

Scesi a testa bassa e con le spalle ricurve dal peso delle risatine dei miei compagni di studi i numerosi gradini, dritto verso il posto a me designato. Seduto, tolsi il cappotto ormai fradicio, srotolai le maniche della candida camicia, strinsi il nodo della soffocante cravatta, e solo allora il suo sguardo simile ad oro liquido abbandonò la mia sciagurata persona.

Il modo in cui mi presentai fu come un insulto alla persona sempre impeccabile qual era Theodor Farey, stimato professore di anatomia umana e animale da oltre vent'anni. Farey era un uomo brillante, carismatico, amante o maniaco - questo dipende dai punti di vista - dell'ordine, del sarcasmo e del buon whiskey. Un'altra cosa che amava, oltre naturalmente alla sua professione, era ridicolizzare i suoi studenti, o almeno con me non perdeva mai l'occasione.

«Fazzolettino?» domandò una voce seduta affianco a me.

Mi voltai a guardarla, e la prima cosa che ricordo della sua singolare figura furono i suoi capelli, o meglio, le tante matite colorate che aveva incastonato al loro interno per formare un'acconciatura molto disordinata. Le sorrisi maldestro, ad accettai il candido fazzoletto ricamato a mano per pulire le lenti appannate dei miei occhiali. Quel suo piccolo e gentile gesto mi scaldò il cuore.

«Benvenuto nel lato oscuro dell'aula Smith.» sorrise di rimando.

Non avevo bisogno di sontuosi benvenuti, non era la prima volta che sedevo in quella precisa parte dell'aula, nella fila che Farey riservava agli studenti a lui particolarmente detestati o ai ritardatari, ed io rientravo in entrambe le categorie.

«Pss... Smith! Sai, una volta ho sognato le sette pia-»

«Signorina Caulfield! Vedo che la chiacchiera non l'è passata.» la richiamò.

«Ma professore! Gliel'ho già detto! Sono una persona estremamente estroversa, dunque il mio livello di socialità cala più in fretta.»

«Allora soddisfi questo suo bisogno all'infuori della mia aula!»

Normalmente non mi avrebbe permesso già in principio di porter prendere posto in aula, o avrebbe già sbattuto fuori la ragazza seduta al mio fianco, ma quella era una lezione molto importante, su cui Farey aveva lavorato a lungo e voleva che tutti i suoi studenti vi partecipassero.

Durante il tempo restante cercai di restare concentrato, anche se la mia mente tendeva ad andare un po' ovunque. Di tanto in tanto ricevevo bigliettini di carta dalla strana - in senso buono s'intende - ragazza che mandavano in fumo ogni mio tentativo. Erano battute, più che altro freddure ma ugualmente divertenti, che ci costarono più volte sguardi arcigni da parte del severo professore a causa delle risate trattenute. Sembrava di essere tornati alle scuole secondarie.

Terminata la lezione schizzai fuori dall'aula in men che non si dica, per timore di arrivare nuovamente in ritardo. Ero già arrivato a metà dell'affollato corridoio quando sentii richiamare la mia attenzione.

«Smith!» urlò in lontananza quella ragazza «Aspettami!»

I suoi capelli neri come basalto, ormai liberi dalla fragile prigionia delle colorate matite, ondeggiavano ribelli dietro il suo viso apparentemente angelico. Lo sguardo furbo era tormentato da un'aria di assoluta spossatezza e le guance nivee andavano tingendosi di rosso.

«Oh Gesù!» Si piegò in avanti sulle ginocchia ansimante «Come hai fatto? Insomma... non sei nemmeno... io invece morta.» si abbandonò sulla parete chiudendo gli occhi.

«Gambe lunghe.» alzai le spalle.

In confronto a me era così minuta.

«Non sei un tipo molto loquace, eh?» allungò la piccola mano verso di me, ogni unghia era dipinta di un colore differente «Comunque io sono Grace.»

«James... ma puoi chiamarmi Jem.» dissi con un filo di voce.

«Ah, Jem!» esclamò arricciando il naso «Ho la gola secchissimissima, ho bisogno di bere qualcosa. Ti va di venire con me alla caffetteria?»

«Ehm...» la guardai assente per un istante «M-molto volentieri ma devo... p-proprio andare. Ci si vede in giro, okay?»

«Ci conto!» rispose entusiasta.

Ma tanto, trovai lo stesso un modo per arrivare in ritardo.

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