Mancata solitudine

176 13 10
                                        

_______________

Quella mattina mi ricordava molto la tela di Penelope, non giungeva mai al termine. Non facevo altro che osservare come un dannato le timide lancette del mio orologio, tanto da metterle così in soggezione che, poverine, ad un certo punto parvero non muoversi più per l'imbarazzo. Era più forte di me. Seppur armato di tanta buona solerzia, non riuscivo a restare concentrato anche solo per più di cinque minuti. Mi sentivo soffocare. Forse, perché il nodo della cravatta era troppo stretto, o forse, perché sedevo inerme, come carne da macello, in quel covo di imperialisti contro la mia volontà.

Quando finalmente giunse l'ora di pranzo, nonostante la trepidazione, uscii dall'aula di patologia generale con tutta la calma del mondo, divertendomi ad osservare gli altri studenti accalcarsi nei corridoi, proprio come pecore durante la transumanza. E più mi guardavo intorno, più realizzavo di star affogando in un mare di occhi la cui unica preoccupazione era quella di trovare qualcosa di buono per pranzo, o che cosa mettersi per un'imminente festa. La consapevolezza di sapere che gli sguardi alimentati dall'ardente desiderio di agire, a cui ero tanto affezionato, erano stati progressivamente piegati da una spaventosa rassegnazione generale nei confronti della vita, mi lasciava l'amaro in bocca, perché sapevo, in cuor mio, che stava piegando anche me e che non potevo far nulla per impedirlo.

Raggiunta la vasta e chiassosa mensa tra spintoni e affanni, mi misi in coda per prendere il solito insipido pasto, di cui durante la pausa estiva non ebbi sentito minimamente la mancanza. Ma futili chiacchiere, sedie trascinate qua e là senza alcuna grazia e il tintinnio di alcune posate cadute al suolo, non facevano che accrescere quel forte mal di testa che, senza un apparente motivo, non faceva altro che darmi il tormento da giorni. Così decisi di sedermi ad un tavolo remoto in fondo alla sala se non in compagnia di me stesso, in modo da ovattare tutta quella confusione.

Ad un certo punto però, mentre ero totalmente immerso nella lettura di un buon libro, sperando così di allontanarmi pero un po' da quel mondo decisamente fuori dalle mie corde, con la coda dell'occhio vidi che qualcuno occupò il posto di fianco al mio. Mi voltai e una strana gioia mi irradiò il petto.

«Chi non muore si rivede!» rubò una patatina dal mio piatto «Allora chiacchierone, hai sentito un po' la mia mancanza?»

«Non immagini quanto...» annaspai un po' in cerca della risposta «Grace, giusto?»

«Memoria d'elefante.» rise.

«Scusa, ma con i nomi sono un disastro.» mi sistemai gli occhiali imbarazzato.

Si portò le ossute dita, piene di anelli tempestati da piccole pietre colorate, tra le labbra sorridenti e rimase a guardarmi per qualche istante con aria dolce. Le lunghe e scure ciglia non facevano altro che conferirle, insieme alla minuta statura, ancor di più un'aria da bambina. Nel complesso delle sue piccole imperfezioni era bello starla a guardare, ed era ancor più bello averla accanto. Era strano, ma mi sentivo stranamente a mio agio con lei, tanto da percepire una sorta di euforia dentro di me, anche se avevo appena avuto il piacere - e la fortuna - di fare la sua conoscenza.

«Che leggevi di bello?» domandò curiosa.

«"Fiesta", di Hemingway.» le porsi il libro.

«Ah, il vecchio Ernest!» se lo rigirò tra le mani «Secondo me, sotto sotto, era solo un pallone gonfiato.» arricciò le labbra con affare malizioso.

«Oh... sono punti di vista.» rimasi un po' ferito dalle sue parole.

Cominciò ad osservarmi nuovamente, ma questa volta con un'espressione seria che non l'era affatto padrona. Questo piccolo gesto bastò a spezzare la delicata armonia che si era andata a creare, e iniziai a sentirmi nervoso, proprio come se fossi sotto esame.

Senza TempoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora