In ritardo con la vita

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3 anni dopo...
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La città scorreva veloce sotto i miei occhi ancora assonnati, fino a diventare un paesaggio confuso. Le persone sembravano muoversi così in fretta da diventare solo tante scie colorate. Il tempo, invece, pareva un vecchio pazzo, senza dare preavviso rallentava fino a fermarsi del tutto, dandomi un assaggio di ciò che mi circondava: dai graziosi vicoli brulicanti di negozietti tipici, alle rive del pacifico fiume.

Il cielo era di un pallido ceruleo, della consistenza di un lenzuolo di lino; all'orizzonte le montagne tanto adorate e al contempo odiate erano offuscate da un leggera foschia mattutina, ma quelle più vicine erano vive e sfavillanti sotto il mio sguardo e parevano avvolgere la città con affare protettivo. Si ergevano orgogliose in tutta la loro bellezza con dei deboli fasci di luce ad esaltarne i contorni. Mi sembrava quasi di poterli tracciare, sentendo sotto il palmo della mano le chiome di innumerevoli alberi sospinti da una leggera brezza.

Quel giorno l'aria era più prepotente del solito e stringendomi nel mio cappotto di panno, mi divertivo creando nuvolette di vapore con il mio caldo respiro, scambiandole per l'avido fumo di una sigaretta di cui sentivo enormemente il bisogno. E mentre vagavo dall'osservare distrattamente i vetri traballanti dell'autobus, all'udire futili pettegolezzi di paese la cui fonte erano due anziane signore sedute poco più distanti di me, la realtà circostante fu come svanita.

Era sempre stato uno dei miei tanti difetti - o come li definisco io, peccatucci - quello di cominciare a viaggiare con la mente e di perdermi rapidamente nei suoi meandri. Sin da quando ero bambino, tendevo a rifugiarmi in un mondo tutto mio, ed ho sempre avuto bisogno di qualcuno o qualcosa che mi aiutasse a rimettermi con i piedi per terra. In quel momento, ad esempio, la mia ancora fu una frenata troppo brusca, che mi aiutò a realizzare che la mia corsa era giunta al termine.

Una volta sceso, la leggera brezza si rivelò un freddo vento ostile che quando cullava i rami degli alberi, nell'aria penetrava il dolce profumo delle azalee e dell'eriche. Lamenti ed esclamazioni volavano in essa, seguiti dal rumore di un ombrello che si apriva, tutto a causa della fine pioggerellina che cominciò a cadere pigra ed indisturbata giù dal cielo. Alzai il bavero del cappotto per ripararmi dal gelido vento, e restai a guardare il vuoto lasciato dal vecchio pazzo che acquistava nuova velocità, scomparendo ben presto nella nebbia.

Mi incamminai lentamente lungo il grande cortile alberato, con il cinguettare di un passero come unico compagno. Non amavo molto la pioggia, ma essendomi trasferito in quella piovosa città nascosta tra le montagne scozzesi, dovetti farci ben presto l'abitudine. Una cosa che amavo invece, era la calma ed il silenzio dopo di essa. Ricordo con gioia quando insieme ai miei amici, perduti ormai da tempo, saltellavo in quell'acqua limacciosa che si andava a creare lungo le tortuose stradine del mio vecchio e lontano paese. Concentrandomi potevo ancora sentire le loro grida e le loro risate.

«Jem!» mi chiamavano felici.

Ma le loro voci pian piano si fecero sempre più lontane, finché non ne rimase solo una, roca e grave, che conoscevo fin troppo bene.

Mi voltai dopo numerosi richiami, e vidi un uomo dai folti baffi argentei che si avvicinava con andatura dondolante dovuta dal grosso pancione. Si trattava di John, il vetusto capo giardiniere del campus che nell'ultimo anno divenne mio amico. Trascorrevamo il nostro tempo chiacchierando del più e del meno, giocando a scacchi, e delle volte - quando il suo orgoglio me lo permetteva - lo aiutavo a trasportare di qua e di là carichi per lui ormai troppo pesanti. John - per gli amici Big Jo - nutriva un profondo affetto nei miei confronti, ed io nei suoi. Mi considerava membro a tutti gli effetti della sua grande e allegra famiglia, ed ogni scusa era buona per invitarmi a cena. Era un uomo estremamente gentile, di buon cuore e forchetta.

«Che ci fai qui tutto solo?» mi offrì riparo sotto il suo ombrello sgargiante «Buon Dio, così finirai per prenderti un bel malanno, sei fradicio!»

«Suvvia John! Un po' di pioggia non ha mai ucciso nessuno.» ridacchiai accendendomi una sigaretta.

«Beata gioventù! Quanto vorrei tornare indietro per non avere anch'io pensieri di troppo.»

«Finiscila, a volte sei più giovane di me.»

«Forse nello spirito, figliolo! Ma la pensione si fa sempre più vicina.» si guardò intorno con circospezione per poi passarmi la sua inseparabile fiaschetta «Tieni, qualcosa per scaldare l'animo.»

«Non è un po' troppo presto?» dissi riluttante «Magari più tardi.»

«Lo scotch non ha orari, ragazzo.» bevve un piccolo e fugace sorso per poi riporla nel taschino della giacca.

Continuammo a camminare in silenzio, ognuno immerso nei propri pensieri. Capitava spesso che nelle nostre conversazioni spuntassero fuori questi tipi di argomenti. Parlare della vecchiaia, della pensione o per giunta della morte con John, instillava in me un'abbondante dose di inquietudine.

Perché mi ricordavano che, in realtà, avrei dovuto avere la sua stessa età.

Ad un tratto, l'orologio del antico edificio della sede centrale segnò le nove, interrompendo così la nostra conversazione sulla partita di football della scorsa domenica. Ad ogni pesante rintocco, nella mia mente cercava con difficoltà di prender forma un pensiero confuso.

«Jem!» mi richiamò il mio interlocutore «Ma a quest'ora non dovresti avere-»

«Gesù!» lo interruppi «Ecco cos'era! Grazie per avermelo ricordato... ci vediamo John!»

E così cominciai a correre come uno scellerato sotto la sottile pioggia che andava sempre di più infittendosi, con le grasse risate del vecchio giardiniere alle spalle, e un angusto destino dinnanzi agli occhi.

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