L'Ignoto- Yvette Allen

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Se c'era qualcosa che conosceva bene, erano gli umani.
Era sempre stato facile intuire cosa pensassero attraverso i loro gesti, cogliere ogni sfaccettatura del loro carattere grazie ad abitudini o modi di fare, compievano azioni con tanta semplicità e, spesso, ripetitività, ma allo stesso tempo sapevano essere davvero complicati.

O meglio, rendevano tutto più complicato.
Avevano paura di tutto, persino di interagire fra loro stessi, ciò era bizzarro ed innaturale.
L'essere umano,se era stato in grado di evolversi, doveva tutto ad un qualcosa che gli altri animali non avevano, il bisogno costante d'interagire, non erano mai stati in grado di sopravvive re da soli.

Eppure certe volte si ostinavano ad isolarsi, come se ciò avesse risolto tutti i loro problemi, mentre invece li avrebbe solo aumentati.
L'uomo per natura era un "animale sociale", bisognoso d'aiuto per tutto, ma ciò non era un male, non era motivo di vergogna o stronzate simili che la gente utilizzava come scusa alla loro trogloditità, anzi era solo la dimostrazione del fatto che gli umani possedessero il bene più prezioso che nessun'altra specie avesse potuto avere, l'intelligenza; il sapersi fermare e chiedere aiuto nel momento del bisogno e,soprattutto, il sapersi fermare per aiutare.

Questa si chiamava "umanità", cosa che, in teoria, dovrebbe far parte di ogni singolo individuo.
Si era chiesta spesso se anche lei possedesse un briciolo di questa famigerata "umanità", era un qualcosa di sconosciuto per lei.

Lei non era propriamente umana, lo sapeva, ma era sempre vissuta in mezzo a questi, circondata da una famiglia normale, dal calore e dall'amore, cose essenziali per la giusta crescita dell'individuo.
Era in tutto e per tutto un'umana, agli occhi di tutti, ma dentro di se era a conoscenza del suo vero io.

Yvette Allen, ottima studentessa dagli ottimi voti, conosciuta spesso anche per il suo carattere esuberante e,spesso, egocentrico, si ritrovava spesso a fare quelle sottospecie di sedute psichiatriche con la sua coscienza, pensieri a prima vista profondi, anche se a lei risultavano molto ridicoli ed un continuo sbattere contro una via chiusa.

Si era chiesta perché, fin da piccola, si sentisse così vicina, ma allo stesso tempo estranea dalla razza umana; da bambina era molto generosa e sveglia, le sue amichette le donavano caramelle o giocattolini in cambio di un aiuto, ovviamente la ragazzina non si tirava mai indietro, era sempre stata educata a fare così, ad essere quello che secondo tutti era il "buono".
Ma non per questo era debole.
Anzi, in età adolescenziale, ci fu il giorno in cui capì che lei, tanta umanità, non ne aveva, ma che, effettivamente, doveva il suo modo di fare soltanto al mondo pieno d'affetto in cui era vissuta.

Quello era il periodo dei "bulletti", dove i ragazzini erano costretti a nascondersi nei corridoi, di fare attenzione ai propri spiccioli e soprattutto al modo di fare e vestire che dovevano adottare, ovviamente l'età adolescenziale era anche la fase dell'etichettaggio da parte di tutti, in cui bastava una parola o una t-shirt per decretare chi eri e con chi dovevi stare.
Yvette era diventata una testacalda, una piccola ribelle che voleva avere la sua indipendenza e libertà, caratteristiche comuni negli adolescenti.
Ma lei era davvero l'estremo di questo concetto, tanto da attaccar briga facilmente con letteralmente tutti, soprattutto con chi le sapeva dar testa come i bulli.
Genericamente non era mai consona ad usare violenza, ma ci fu un episodio spiacevole della sua vita che la portò ad una non piccola e poco piacevole rissa, in cui si scatenò in lei una strana ira, una sensazione negativa, estranea al suo modo di fare. Questa sfociò in una violenza innata, tanto che il tutto si concluse con un braccio spappolato per la sua "vittima" ed una punizione, con tanto di seduta dallo psicologo della scuola, per lei.

Al tempo non vi diede importanza, certo, il fatto di aver provato qualcosa di a lei sconosciuto, che l'aveva portata ad un gesto tanto estremo quanto inusuale per lei, l'aveva fatta si riflettere, ma comunque non aveva mai visto la cosa sotto un punto di vista maturo come adesso.
Non aveva provato il minimo di umanità per il suo avversario, non si ricordava neanche chi diavolo avesse quel giorno davanti a se, non le importava chi fosse stato a provocare quella reazione in lei, sapeva solo che aveva agito perché il suo istinto l'aveva guidata, forse per autodifesa o solo per puro piacere personale per sfogare l'ira, ma non aveva agito con coscienza.
S'era buttata sull'altro, come un animale selvaggio che ha bisogno di sentire l'odore ed il sapore del sangue della sua preda, ella si era lasciata trasportare dalla situazione, ignorando il buonsenso.
Non aveva avuto pietà, il tutto era iniziato con spinte, poi era sfociato in pugni e calci, si concluse il tutto con una sua stretta al braccio dell'altro, una stretta forte tanto da lasciargli immediatamente un livido, e lo aveva bloccato con questo dietro la schiena.
Non si era fermata a tanto, aveva iniziato anzi a fare più pressione e a contorcerlo sempre di più, sentiva le sue urla di dolore ed il suo pianto, le sue suppliche, ma nulla sembrava scalfirla.
Fu un attimo.

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