4 ~ Dolore

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Stava correndo da ormai dieci minuti, ma non le sembravano abbastanza. Il sudore le imperlava la fronte, ma lei continuava a sfrecciare zigzagando tra gli olmi, le querce, i frassini, gli abeti. Schivava i rami bassi, saltava ogni pozza di fango e ogni albero caduto a terra. I suoi passi facevano scricchiolare i rametti che pestava con i piedi, spaventando i poveri animali che si trovavano in quella parte della foresta.

Le parole del nonno continuavano a risuonarle in testa e la ferivano ogni volta che ci ripensava.

«Li hanno condannati a morte» aveva detto.
Ardith era rimasta basita a quelle parole. I suoi genitori, stimati dalla gran parte della comunità, erano stati giustiziati? I suoi genitori, onesti, erano stati uccisi? I suoi genitori, che tutti amavano, erano stati etichettati come traditori?
L'elfa non poteva ancora crederci. Le pareva di vivere in un incubo, in una dimensione in cui spazio e tempo sembrano sospesi e quasi inesistenti.
Ormai non riusciva a percepire più nulla: suoni e rumori erano come ovattati e le uniche cose che riusciva a sentire erano i pensieri che cozzavano tra di loro.
Non capiva più niente, era completamente devastata e disorientata. Continuava a correre, un po' per sfogare la tensione e un po' per cercare di stremare il suo corpo, sperando così di poter momentaneamente acquietare i pensieri che le facevano quasi esplodere la testa.
«Perché?» pensava «Perché a me?».

Continuava a correre, mai stanca e mai sollevata dagli affanni, anche se correva da ore. Appena scoperta la verità sui propri genitori, Ardith era scappata all'abitazione del nonno senza dire nulla. Dal momento in cui aveva sbattuto la porta della capanna, aveva corso senza interruzione.
Stava ormai raggiungendo il Grande Salto, uno spiazzo roccioso a picco sulla Valle degli Elfi da cui si poteva osservare buona parte delle terre elfiche.

Ardith continuava a correre, ancora sconvolta, e non dava segno di volersi fermare. Da ore stava correndo a perdifiato, ma il suo fisico reggeva solidamente. Il fuoco che aveva dentro non accennava a estinguersi e probabilmente non l'avrebbe mai fatto.

Il cielo cominciava a rosseggiare. Il tramonto era vicino, ma lei non se ne accorse. Continuava a correre.

Quando raggiunse il Grande Salto, però, dovette fermarsi poiché era buio e rischiava di cadere. Si fermò proprio sul ciglio della roccia e guardò in basso. Poteva vedere, nell'oscurità, una marea di luci tremolanti: erano le case e le città degli Elfi, illuminate da fiammelle. Osservò tutta la valle, ma oltre alle luci non riusciva a vedere molto. Si sedette sulla nuda roccia dell'orlo del dirupo con le gambe penzoloni. Finalmente poteva riprendersi. Fece un respiro profondo e si distese a terra, piegando le braccia dietro la testa a mo' di cuscino. La canotta ancora fradicia di sudore le si incollò alla schiena, provocandole dei brividi di freddo.

Guardò verso l'alto e vide uno spettacolo magnifico. Il cielo era pulitissimo, non una nuvola. Le stelle brillavano come mai aveva visto fare in diciotto anni di vita. Il cielo era interamente coperto di puntini luminosi che in alcune zone della volta celeste si concentravano maggiormente e andavano a formare un ammasso di stelle. La Via Lattea.
Ardith si sentiva rinata: la libertà che aveva respirato su quella cima le aveva donato una nuova forza e determinazione. Mai come in quel momento si era sentita libera e forte. Si alzò in piedi con cautela, facendo attenzione a non cadere.
Gridò con tutto il fiato che aveva nei polmoni, un primitivo e selvaggio grido di liberazione. Dagli alberi lì vicino si levarono in volo alcuni uccelli, evidentemente allarmati dalle urla della ragazza.

Un'improvvisa folata di vento la fece, ancora una volta, rabbrividire: strinse le braccia attorno al proprio corpo per riscaldarsi un istante, poi si avviò alla ricerca di un riparo.
A una ventina di passi dallo strapiombo, Ardith notò nella parete rocciosa una fenditura abbastanza grande perché lei ci potesse passare. Prese da terra un ramo secco e ci avvolse attorno un pezzo di stoffa strappato dai pantaloni. Le bastò dire «Ardor» perché la stoffa prendesse fuoco. Facendosi luce con la torcia di fortuna appena creata, provò a infilarsi nella fenditura. Con fatica, graffiandosi le ginocchia e i gomiti nel tentativo di non far spegnere il fuoco, riuscì a entrare nella grotta. Vide uno spazio immenso, illuminato dalla fiamma che gettava bagliori tremuli sulle pareti. Tra le rocce della caverna spuntavano rampicanti che si abbarbicavano su ogni spuntone che riuscivano a trovare. Dal soffitto pendevano pericolosamente delle stalattiti appuntite, per niente rassicuranti.
Ardith appoggiò la mano sinistra, libera dalla torcia, su una delle pareti rocciose. Era fredda. Mentre avanzava, rasente la parete, faceva scorrere la mano sulla roccia e riusciva a percepire ogni irregolarità della pietra.

All'improvviso colpì qualcosa con il piede e finì distesa a terra. La torcia si spense e la caverna ripiombò nell'oscurità più totale.
«Ardor» disse, stringendo i denti dal dolore. Allungò la mano sinistra, che non le faceva male, per raccogliere la torcia ed esaminare i danni che si era procurata. Un ginocchio stava sanguinando e così anche il palmo della mano destra. Cercò con lo sguardo qualcosa con cui medicarsi e, poco vicino a lei, vide una pozza d'acqua che sembrava abbastanza pulita. Si alzò in piedi per raggiungere l'acqua, ma una fitta la colpì alla caviglia sinistra. Si chinò e tastò il piede: si era già gonfiato. Imprecò.
A fatica, zoppicò fino alla pozza e si sedette cercando di non dare il peso sulla caviglia dolorante. Strappò un lembo dei pantaloni e lo immerse nell'acqua fresca. Passò il pezzo di stoffa sulla ferita alla mano, poi tornò ad immergerlo nell'acqua. Pulì anche la ferita al ginocchio, che era meno grave di quello che sembrava.
Sciacquò di nuovo il panno: ormai l'acqua era diventata rossa del suo sangue.
Prese il panno e lo avvolse attorno al piede nudo, giusto per raffreddare un po' la caviglia che ormai era in fiamme.

Si allontanò dalla pozza, trascinandosi con il braccio sano. Era esausta, doveva essere notte fonda. Trovò uno spiazzo piano e decise che avrebbe passato lì la notte e sarebbe tornata ad Akraholt il giorno seguente. Si accoccolò in posizione fetale con la schiena appoggiata a una parete, tenendosi le gambe con le braccia per sentirsi più protetta. Si addormentò di botto, nonostante la caviglia le pulsasse terribilmente. Si abbandonò alla dolcezza del sonno, che finalmente le poteva concedere almeno qualche ora di pace.

Ardith e il segreto degli Antichi  Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora