Prologo

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Quartieri popolari: crocevia di untori e dannati. Mi alzo dal letto con ancora il sapore della morte in bocca, che nello specifico questa volta sa di Gin e vomito. La routinaria trafila di bestemmie che attraversa le pareti in cartongesso è il mio canto del gallo; uno stridulo rumore di lamiere collidenti mi accompagna nella risalita verso il limbo quotidiano. Un piede, poi l'altro. Per strada solo silenzio misto ad urla da chiesa pentecostale, intrecciati nell'antitetico groviglio armonico di chi vive tra queste mura.

Vago nel mio appartamento come un fantasma richiamato la notte prima da un medium maldestro. Le lampadine penzolanti sfavillano ad intermittenza in una danza macabra di luci ed ombre. Il corridoio è vivo: si allunga, si accorcia, si contorce come a prendermi in giro. È un miglio nero pece che ha la salvezza come patibolo. Nei quadri appesi alle pareti solo morti, ho l'impressione che mi osservino di sbieco in attesa che li raggiunga, ridono di gusto mentre cerco di scontare la mia condanna. Urlo, impreco i loro nomi, chissà poi perché li ho comprati.

Il girone infernale dal pavimento in gres scadente mi lascia andare, così come gli spiriti tormentati che vi dimorano. La cucina è un eden dalle piastrelle incrostate di grasso, anticamera per una redenzione che non merito. Sogno l'acqua bagnarmi l'arida gola, e umidi rivoli scorrermi lenti all'estremità della bocca, ma nel troneggiante frigo caldo dall'odore di scorreggia ovolattica, non ce n'è neppure l'ombra.

Mi siedo muto e assetato, sconfitto dalla luce che filtra violenta dai vetri. Fisso una bottiglia semivuota di birra sul tavolo; la bottiglia semivuota di birra sul tavolo fissa me. Ci guardo dentro troppo a lungo, così da permetterle di ricambiare lo sguardo come un abisso avido di attenzioni. Mi decido a berla in fretta, prima che mi scopra l'anima.

L'odore è quello del piscio, il sapore non saprei: non ho mai assaggiato il piscio, ma immagino ci vada vicino. Un sorso e corro in bagno, a vomitare anche l'ultima briciola di umanità rimastami, chino e atarattico sulla tazza, genuflesso a pregare una divinità assassinata da cent'anni. Quella roba aspettava solo di fregarmi.

Mi sdraio a terra con le braccia larghe e le gambe incrociate, come Cristo sul Golgota. L'unica differenza è che io non sto per morire, sfortunatamente. Mi sciacquo la bocca con acqua di rubinetto, a tratti gialla, a tratti marrone. Acqua di cadaveri infetti, morti ammazzati, di topi incastrati nelle tubature.

Noto un reggiseno sgualcito ai piedi del lavandino, probabile lascito di una prostituta a buon mercato. Sento ogni goccia di vita scivolarmi tra le mani lacerate dal freddo. Profumo dozzinale, sesso con sifilide annessa, piattole in agguato: erezione mattutina smorzata.

La doccia dura poco, il getto incostante mi snerva. Sono un cherokee in cerca della pioggia: troppo paranoico per una danza, troppo poco per piume e pitture tribali. Osservo il mio volto glabro nello specchio distorto: il naso più volte rotto, la mascella sbilenca, le occhiaie da folklore haitiano. Attraverso nudo il corridoio passando tronfio davanti ai non redenti, sbeffeggiandoli per il loro essere sostanzialmente dei mezzi busti inanimati su tela.

Sul pavimento della camera da letto si alternano vestiti sporchi e preservativi usati. Peli di animali sconosciuti fluttuano nell'aria; raggi solari frantumati dalla veneziana spiegazzata evidenziano una scia di pulviscolo. Scavo in quel cimitero di cotone e lattice con vergognosa fretta. Mi vesto alla buona, sono già in ritardo.

La porta di casa traccia il confine tra il mio spazio e quello che condivido con gli altri; tra il marcio personale e quella fogna a cielo aperto che chiamano mondo. Ho preso tutto ciò che mi occorre: il manganello telescopico è una protesi domenicale, braccio estendibile per balli di gruppo; il coltello solo un deterrente per evitare uno spiacevole vuoto di violenza.

Ancora troppo umanoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora