Solchi e gradinate - parte 6

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Membra che impattano, tensione, tumulto.
Entrambe le cavallerie vengono a battaglia sulla strada che si estende per diversi metri dietro l'edificio che ha ospitato il pretesto per questa barbarie. È una mattanza disordinata di mani che calano feroci, di brutali grida levate al cielo. Ci si libera in fretta delle armi dopo aver inferto pochi colpi di fortuna. Sventoliamo le spade pregando la dea bendata di benedirci con sangue non nostro. Le braccia vibrano impazzite all'impatto dell'acciaio con le ossa, limite dello sfogo. Adrenalina. Dolore.

Qui l'apparenza non conta. Denaro, successo, credo, status sociale, felicità, va tutto in frantumi. Qui sei solo un piccolo e fragile soldato che si muove convulso in un marasma di sorde esplosioni. Da solo, in silenzio.
Tessuti strappati, sporchi di sangue, guidati dalla bora che irrigidisce i tendini. La gente intorno a noi scappa frenetica come allo scoppio dell'armageddon. Le fiamme ci avvolgono furenti mentre combattiamo per il nulla, mentre rendiamo grazie a divinità dell'oltretomba che continuano ad odiarci. Si dileguano stringendo i bambini tra le braccia, tenendo le donne lontane dalla strada, a spediti e surreali passi cartooneschi, con occhi di pietà mista a paura. È magnifico.

Si ode perfino l'umido rumore dei loro stomaci che si contorcono. Lo stridore delle ruote sull'asfalto accompagna questa nostra sinfonia, elogio alla morte. Braccio che si stende calando il manganello. Fracasso delle ossa. Cigolio dei denti. Sguardi di terrore. È libertà di essere se stessi, di non guardarsi intorno, di strappare ogni freno; è libertà di slegare l'istinto, di farlo scatenare nei meandri delle nostre perversioni, di sentirsi veri. Divide l'uomo dai maiali.

Si combatte con fervore da entrambe le parti. Non si cede neppure un metro. Ci difendiamo fino all'arrivo dei rinforzi, resistendo bene ai colpi che ci arrivano da ogni direzione. I nemici formano falangi di fortuna per prepararsi al nuovo assalto. Si compattano come formiche a pelo d'acqua. Ci voltiamo speranzosi di restare in minoranza, ma ecco che li vediamo arrivare, come un'onda che si abbatte su morbide spiagge carezzate dal sole. Urto frontale.

La carica dei nostri appena giunti fa arretrare la loro fanteria costringendola a perdere terreno, mentre cerchiamo di spezzarne la formazione. Li raggiungiamo ferini pregustando il loro sangue sulle nocche, allargando le narici per sentirne l'odore. Li vedo arrampicarsi sulle schiere nemiche colpendo dall'alto come bestie schizofreniche, lanciandosi suicidi per assaporare l'amaro nettare del sacrificio. Ci mischiamo ancora.

L'ala sinistra dello schieramento avversario viene aggredita e messa in fuga quasi subito, mentre quella destra preme ora violenta sui nostri, obbligandoli ad intercedere nello scontro al centro della carreggiata dove la rissa principale comincia però ad assumere le fattezze del massacro. Il nostro numero è superiore, così come le nostre forze. Al sopraggiungere della terza linea dei rinforzi, per i nemici suona rapida la ritirata. Numerosi come sono, si intralciano e accalcano tra loro, come scimmie troppo impaurite per una resa razionale.

Li inseguiamo con ancora maggior crudeltà, digrignando le fauci speranzosi di spaccarne il cranio. Ne vediamo alcuni che tentano di scavalcare il muro che li divide dal parco pubblico a due passi dall'arena, venendo però tirati giù in fretta e puniti per la loro impudenza. Altri scappano nella nostra direzione accecati dalla paura, col solo risultato di finire invischiati in una macabra mosca cieca. Ne facciamo strage.

Panico da guerra ne avvolge le tremolanti membra, mentre avanziamo stringendoli al limite dell'incrocio. Gridano, ci danno le spalle. Sono un cacciatore che bracca una preda già ferita; il colpo della bandiera prima di lasciarla andare.

L'ultima cosa che ricordo sono le laceranti sirene della polizia che si autoinvita alla festa sul più bello. È la campanella, il fischio finale, il rumore che decreta la fine della battaglia. Non ci resta che svicolare tra le vie laterali lasciando il campo agli sconfitti, alla loro vergogna, al loro sangue sparso a fiotti. Anche se molti dei nostri, me compreso, restano indietro mentre le gazzelle varcano il confine dell'arena. Bandana. Cappuccio. Fuga.

Non il tempo di pompare acido nelle gambe, però, che il vento si squarcia alle mie spalle sbranato da una spranga di gelido acciaio. Un solo colpo a guerra già finita, poi il buio.
Questo è quanto.

Ancora troppo umanoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora