Solchi e gradinate - parte 3

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Le due scimmie sono con lui, materia organica così insignificante da non meritare neanche posto nel mio campo visivo. Per fortuna è quasi ora di partire.
I secondi mi spingono inarrestabili verso la fossa dei leoni, come detriti ammassati in un'eterna montagna di tempo gettato via nell'ignoto; sempre più grande, sempre più ingombrante.

Distolgo lo sguardo e la mente. Mi faccio guidare dal demone con la clessidra come una carcassa accompagnata alla deriva dal mare, inconsapevole di me stesso come un animale allo specchio, spettatore e nient'altro dei miei pensieri, ufficiali giudiziari che bussano imperterriti alla porta. Qualche volta penso che masturbandomi di più risolverei una volta per tutte il problema psicosi, ma le finte pubblicità dei porno che promettono improbabili soluzioni per l'impotenza maschile mi mettono una certa tristezza, e il sangue mi sale dritto al cervello.

Scopro il tempo più labile di quanto non sia. I pensieri, come sirene, mi hanno fregato di nuovo. Ho navigato troppo a lungo tra i miei insensati pensieri, e mi accorgo di stare camminando solo quando ormai già a ridosso dello stadio.
Sono una laboriosa ape nell'alveare delle mie paranoie, volo a mente spenta verso la destinazione designata dal mio istinto. Mi mimetizzo tra i fiori marci, ho un pessimo gusto per i divertissement.
Siamo tutti in fermento per la partita, una marmaglia di ultimi arrivati davanti alla cattedrale del dolore. Siamo qui per nostra scelta, entriamo per scelta altrui, di questo mondo che genera e abbandona.

Documenti alla mano mi avvio verso l'entrata, stringo tra le mani un biglietto che porta stampato il mio nome. Sento già i canti di festa domenicale, di famiglie che vengono a godersi lo spettacolo, di adolescenti tossici, di sciarpe colorate. Di tutto questo falso calore m'importa una sega, ma fatta bene, che non si sa mai.

Lo steward mi lascia ingenuamente entrare nella bolgia dei dannati; un feto riportato nell'utero materno. Il ciclo si ripete: girano i tornelli, le orecchie si riempiono di scoppi vocali, il verde del campo da gioco illumina il cielo come un faro invisibile puntato sul mare; il contrasto tra la fosca cecità del tunnel e il grido del sole, ospite inatteso, infiamma le pupille dilatate dal buio. Maschere e bandiere guidano il vento lungo i solchi delle gradinate, mani che cingono dolcemente un insetto, pronte a chiudersi per frantumarne l'inutile esistenza. Siamo formiche, la nostra vita non vale niente.

La partita è cominciata da un pezzo. Dalla piccole figure che vedo in lontananza dipende la nostra sorte. Non proverò più nulla, ora e per altri sessanta minuti.
Seguo il capo verso il centro della curva, avvicinandomi a grandi passi verso il nucleo della fornace. Saluta tutti come ad una festa, ma non c'è niente da ridere, non c'è mai niente da ridere. Mi siedo in mezzo alla trepidante folla, circondato da vampe in disordine. Medusa mi guida e stringe tra le braccia, copre il mio sguardo maledetto con dita di seta. Morte a chi lo incrocia. Sono solo, in questo mondo e ancora oltre, non sento nessun altro cuore battere all'unisono col mio. Aspetto la vita, uno strascico di verità.

Nessuna attenzione per ciò che accade in campo, solo estetica di abnegazione, rifiuto di sporcarsi con qualunque cosa non sia dolore. Dura poco, la noia della competizione sportiva: questa messa in cui si prega per qualche rotula al vento, poi il sogno lucido si palesa attraverso l'aria intrisa di fumo. Mi prende alla gola, mi squassa. Mi travolgono i postumi dell'insonnia. Attimo dopo attimo il buio mi cinge dolcemente. La grottesca parata che mi circonda comincia a farsi labile. Mi abituo al nulla. Lentamente affogo in un silenzio da oltretomba, ringraziando le allucinazioni appena giunte per il loro tempismo. C'è soltanto una scintilla che irrompe nella magnificenza del baratro, un ricordo.

Come spettri che si aggirano furtivi nell'inconscio, i pensieri mi portano in dono un'immagine sbiadita, un vago ricordo che si fa vivido. Lo stadio muta in una stazione immersa nel vuoto, attraversata dal vento autunnale che esplode nelle iridi graffiate dalla polvere.
Mi ritrovo per strada, una panchina come casa. Gelo che abbraccia, solitudine, notte. Le formiche che si muovono caotiche lungo il mio mondo sono solo il passatempo di divinità annoiate. Si dice che le formiche appaiano solo ai più solitari, sono felice di rientrare in questo novero benedetto.

Ancora troppo umanoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora