Vittime e martiri - parte 2

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Il vento spira fiacco gonfiando la ridicola veste azzurra che mi copre dal gelo. Le nuvole scompaiono nell'aere come ceneri di fogliame disperso in un incendio. Sono passati circa venti minuti, ma non sento ancora nulla. Bori dice che gli effetti si avvertono solo dopo mezz'ora, ma ormai mi sembra chiaro stesse delirando.

Bori è il mio compagno di stanza, una specie di agglomerato di stereotipi sui serbocroati. Ha visto la guerra e non ne è più uscito, anche se ripete spesso che un uomo non è tale finché non sopravvive a qualcosa che non sia la vita. In realtà si chiama Borislav, ma dice che con un nome del genere non vai da nessuna parte, almeno non qui: ché al massimo ti scambiano per un tossico che ruba cavi di rame lungo i binari del passante ferroviario. Io gli dico che se Lombroso fosse stato preso sul serio, a quest'ora avrebbe potuto chiamarsi anche Gesù Cristo, ma con quegli zigomi da criminale l'avrebbero comunque rinchiuso in una cella senza finestre.

Parla a malapena la mia lingua: monosillabi, smorfie, vaneggiamenti e poco altro, ma alla fine riesce comunque ad esprimersi fin troppo chiaramente. Mi racconta del suo cazzo oblungo e delle scopate da bonobo che si è fatto, mimando furiosamente le sue eroiche gesta da macchina a vapore. Più lo ascolto, e più sono propenso a credere che non abbia mai toccato una donna senza prima averla pagata, e che al massimo deve essersi fatto fare qualche sega nel bagno della stazione da un travestito dalle mani troppo secche.

La sua storia è simile a tante altre, stupidamente banale. Prima c'è Bori che tenta di sfondare il finestrino di un auto, poi c'è Bori che cerca di sgattaiolare via dalle attenzioni del proprietario, infine c'è Bori che deve farsi aggiustare la faccia. Dopo tutte le volte che è finito qui dentro, si inventa ancora di dover pianificare la sua ripicca verso il mondo, di doversi rialzare dalla posizione fetale in cui finisce per piangere ogni santo giorno. Certi individui sono restii alla rassegnazione.

Bori è un veterano delle vendette mancate; è stato così tante volte vicino al baratro da poter giustificare tranquillamente il suo aspetto da creatura lovecraftiana, e forse addirittura un suo imminente e quasi certo omicidio-suicidio. Tanto sangue, budella e sperma sparso per la stanza. Un macello.
La sua faccia sembra un miscuglio di arte concettuale e pasta lievitata, i suoi tentacoli sgusciano madidi in ogni direzione.
Un attimo: le persone hanno i tentacoli?

Venticinque minuti.

Le infermiere sono poco attente a quello che succede in questo reparto. Con i perdenti non devi farci attenzione, al massimo qualche sorriso di compatimento. Bori è un tipo sveglio: sa sempre cosa fare e quando farlo; l'unico problema è che gli obiettivi che si pone sono per la maggior parte di una stupidità abissale. Le luci nella stanza assumono pose da danze africane fondendosi con il riflesso dei raggi solari che bivaccano tra le finestre asettiche della mia prigione condivisa.
- Non perdere il filo.
Ancora quella voce.

Sgattaiolare fuori dalla stanza non è facile, quando hai mezza faccia fracassata, soprattutto se il tuo unico obiettivo è decidere se restare o meno vivo abbastanza da non riuscire più a pisciare da solo. Superare il corridoio in punta di piedi mi ricorda gli anni passati a nascondere le ferite appena tornato da scuola. Ho di nuovo quindici anni, abito con estranei che riconosco a malapena.

Una rapida occhiata tra gli scaffali incustoditi permette a Bori di trovare il santo graal di questa fantastica avventura. Destrometorfano bromidrato in gocce, 375 mg diluiti in un bicchiere di latte acido rubato nella stanza di una vecchia più vicina alla salvezza, che all'inferno su cui vaghiamo.
- Giù in un sorso, - mi fomenta Bori.
Giù in un sorso, e ora siamo qui ad aspettare il nero treno del dimenticatoio, anche se è ormai chiaro che Yog Sothoth mi stesse mentendo.

Trenta minuti, e in un attimo tutto si fa buio.

Ancora troppo umanoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora