Vittime e martiri - parte 1

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Pace. Fluttuo assorto, circondato da una flebile foschia e da corpi celesti in pigro movimento. Sono disteso su un soffice letto di nuvole, mentre osservo il sole dipingersi di ogni colore dello spettro. La vista si fa strada attraverso la candida bruma dall'odore dolciastro, fino a impattare contro il nero di un lungo vestito. Copre le grazie di una donna dalla carnagione bianca come la panna. La osservo; il vento le sfiora gentile i capelli violacei levigandone il viso.

Grido senza emettere alcun suono. Bracciate furiose per avvicinarmi a lei, respiro dopo respiro, attimo dopo attimo. Destarsi dalla quiete, frenetica stasi, desiderio del crepuscolo.
La sento. Il ritmo del suo battito mi percuote l'anima, guidandola in questo ballo febbrile e senza sosta. Manca solo un altro centimetro e potrò finalmente sentirne il gelido calore sulla dita, sfiorarne le guance carezzate dal nulla. Vicina. Più vicina. Nei suoi occhi smeriglio si nasconde il marasma del buio più tetro, oceano di miseria e compassione, spirito che arrota il filo della cupa falce. Occhi ammaliatori, fugaci, corrosivi.

Siamo ad un palmo di distanza. La liscia chioma si allunga lenta nell'aria, come la mano di un Dio pietoso che mi circonda fino ad oscurarmi la vista.
Contatto. Sono nell'utero della vita, non voglio più uscirne.
- È solo il sevofluorano, - sussurra una voce nella mia testa.
- Come?!
- Col Propofol fai sì e no un sonnellino, mentre il sevofluorano ti manda dritto nella tana del bianconiglio, - continua. - Questo lo so perché lo sai tu.
Mi sveglio.

L'assurdo beige del controsoffitto in alluminio è la prima cosa contro cui collidono i miei occhi.
Prima, il diprivan ti addormenta dolcemente, inesorabile lungo la flebo; poi il curaro ti paralizza i muscoli e il diaframma, impedendoti di respirare, così che per qualche secondo la tua vita resti affidata ad una maschera con sopra attaccato un palloncino; infine viene pompato il sevofluorano nel tubo endotracheale, poi sei pronto per il macello.

Corpo intorpidito, gola secca, testa in procinto di esplodere. È Il solito risveglio, ad essere diverso è solo il posto. Il dolore alla nuca mi irradia il corpo in un istante, seguito subito dopo da una fitta alla fronte che mi scuote definitivamente dal torpore. Le fasciature mi coprono il volto come l'allegorico simbolo della maschera a metà che porto. Ironia spicciola di un destino annoiato. L'ospedale, questo reparto: il limbo delle anime perse, sala riunioni per chi non ha nulla da dire. Maxillo facciale, di nuovo. La porta dell'inferno mi dà il benvenuto come in un sogno dantesco, ma in ritardo.

Qui si possono incontrare sostanzialmente due tipi di persone: i rassegnati ormai assuefatti alle pendici della sconfitta, palombari delle profondità più laide della vergogna; o quelli in cerca di vendetta, novizi del dolore che ancora salgono su questi gradini pericolanti. Io sono nel mezzo: piombo sui gradini per vederli franare, costringendomi alla rassegnazione del fondo. Anche se in verità qui siamo tutti uguali: tutte vittime, tutti sconfitti.

Le narici sono conduttori di falsa nostalgia, gli occhi uno schermo per film già visti. Il ricordo del caos mi percuote le orecchie come se fossi ancora al centro della mischia, con il frenetico valzer del cuore a tenermi vivo, con il vuoto dolore agli arti come testimonianza della mia esistenza data alle fiamme. Il sonno chimico mi strangola incessante, sussurrandomi all'orecchio parole di conforto, lodi all'abbandono, preghiere alla rinuncia. È sale su carne viva.

Riesco a malapena a muovere la testa. Il mio compagno di camera, disgraziato sconosciuto, danza ancora con i gas anestetici. Mi chiedo se anche lui stia sognando di galleggiare tra le nuvole, o se sia solo la perversione di chi la fossa se l'è scavata con le proprie mani, dilaniandosi le unghie sotto il peso della terra.

I ricordi cominciano intanto a farsi vividi, di contrappeso allo scemare dei postumi dell'intervento, mentre l'incedere dei passi al di fuori della porta si fa sempre più insistente. La baraonda dell'ospedale mi trascina via dal mio letargo indotto, scuotendomi il cervello come ghiaccio attraverso le meningi. Mi riporta qui dove ho sognato di non essere, qui dove non mi resta più nulla, su questo mondo che mi dà le spalle mentre mi stringo una corda al collo.

Non voglio.

Se chiudo gli occhi riesco ancora a sentire le urla estatiche della battaglia, il sordo impatto tra le spade, le cotte di maglia insanguinate, gli elmi trafitti, le lacrime mai versate. Dove eravamo rimasti?

Ancora troppo umanoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora