Solchi e gradinate - parte 2

143 29 30
                                    

Al varco mi aspettano le solite anime guaste, stanche, in balia del fato, appoggiate al muro come aspettando un plotone d'esecuzione bloccato nel traffico cittadino. Passi come oboli d'argento, attimi come vogate. Il primo a vedermi arrivare è Davide, un essere abietto sulla quarantina; capelli brizzolati e occhi da internato, pelle vizza e guance scavate. Alza la mano per salutarmi, lo ignoro. Borbotta qualcosa, non capisco, lo ignoro ancora. Dieci anni di cocaina tagliata col cazzo gli hanno ridotto il cervello ad un quadro di Escher e la bocca ad una Berlino post-bellica. Ora riesce al massimo ad emettere versi incomprensibili ed oscuri, farfugli simili alle parole vere come una pozzanghera è simile all'oceano.

I rumori prodotti dalle sue corde vocali risuonano come il canto d'evocazione di una messa nera. Temo ogni giorno che quelle tetre formule richiamino le anime dannate dal lato non illuminato dell'oltretomba, sommergendo la terra di corpi putrefatti che hanno già lasciato la propria scia di fetidume. Col tempo ho imparato a schiacciare l'impulso di rispondergli anche solo con un cenno, ma più per estetica di fermezza che per onestà intellettuale, o forse perché ci sono un mucchio di morti con cui non voglio parlare. Orwell, ad esempio, ché vagli a spiegare l'equivoco.

Un passo alla volta mi immergo nella nebbia di questi spiriti volgari, entrando nel confine dei loro respiri. L'aria è irradiata da puro zolfo, pronta a incendiarsi alla prima scintilla. Gli occhi della legione sono rivolti alla strada, come ad osservare i difetti del nero bitume che segna la via per la liberazione. Volano chiacchiere sulla partita, sul lavoro, sulla vita. Melodie sprecate, buttate al vento, perse nel vuoto, abbandonate all'asfalto. Non appartengo.

Sono una camelia suicida in un campo di erbacce; ho partorito gambe e braccia dallo stelo finendo io stesso col conficcarmi in quest'arida terra. La scelta dell'oblio mi differenzia dal branco senza guida che ora mi circonda. La rassegnazione di una vita già appassita mi discosta da questi sciacalli come un antico muro di cinta. A volte ho l'impressione di poter far ricrescere le ali che mi sono strappato via dalle spalle, di poter sanare questi angelici moncherini che mi porto dietro come vessillo di resa, ma è soltanto una chimera.

Sono grigio inserito a forza in un arcobaleno di colori; una vera mancanza di scopo in un fiume in piena di vere scuse. Rabbia e ideologia, frustrazione e disfunzione erettile, piccola criminalità e sentore di grandezza, muovono i miei compagni di guerra sulle gradinate degli stadi, a scricchiolarsi i polsi e a giocare con il fato. Sentirsi parte di qualcosa come fine, il dolore come mezzo, inflitto o subito. Fingere di trovare chissà quale ideologia in un passatempo.

Nel mormorio della tensione ci dipingiamo segni di guerra sulle ossa, danzando intorno a un fuoco alimentato dal rombo incessante delle arterie fremitanti, come berserkir dei giorni feriali, segugi che rincorrono una trappola. L'attesa del caos è la nostra caccia.
Da buone foglie secche ci muoviamo solo all'arrivo del vento d'autunno, che nel nostro caso è una rossa sportiva che frena di colpo lungo la strada vuota che ci ospita. Le striature della carrozzeria spargono fasci di luce sfavillante in tutte le direzioni, creando caleidoscopici riflessi sulle pozzanghere agli angoli dei marciapiedi. Specchi d'acqua come memorie della pioggia che ha battezzato questi ciottoli ieri notte.

Dall'auto scendono tre individui con la faccia delle peggiori intenzioni: beceri animali ammaestrati in malo modo alla civiltà.
Aspettiamo distratti questi ultimi pezzi del puzzle, mentre si avvicinano guardinghi e con fare arrogante. In testa alla trinità c'è il capo, il nostro Arkan scelto per diritto di Pluto nel novero delle altre nullità. Più che una tigre, un cane cieco e stupido che abbaia ad un gregge sordo; un piccolo criminale di periferia cresciuto troppo lontano dalla strada, ossimoro vivente fra il male e l'idiozia.

La nostra vita è il suo passatempo, questo battaglione disastrato il suo magnum opus, specchio delle ambizioni di un codardo. Ha l'abitudine di parlare troppo pur non avendo nulla da dire, come si confà ai ragazzini viziati. Rifuggo le sue labbra. Sono qui per sentire il sordo rumore delle orecchie tappate da un cocktail di sangue e sudore, per udire il tintinnio dell'acciaio sulle ossa, per respirare il silenzio delle grida di dolore e incitamento, per sentirmi vuoto. Non per lui, mai, mai per qualcun altro, figurarsi per gente del genere.

Siamo figli bastardi dello stesso Dio: progenie del nulla. La sua unica sfortuna è stata quella di non aver sofferto abbastanza. Fu da odio e dolore che nacquero gli uomini nuovi, dire il contrario è un parlare da cani.

Ancora troppo umanoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora