Solchi e gradinate - parte 4

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Il sogno lucido continua, sento il freddo fin dentro le ossa; l'alcol riscalda il corpo come fosse reale. Spingere, caricare, lanciarsi. Le urla intorno a me si intensificano, rompendo la parete di questo inganno sensoriale. Urlano, si disperano, si scoprono fragili. Il confine tra la realtà e le memorie si confonde, è una linea gotica.
Divento il centro del mondo, in bilico tra gli inganni della mente e una realtà fatta di bandiere sventolanti. I pensieri si affollano, si confondono, si intersecano tra loro.

Vago tra le sponde. Mi guardano mentre prendo un altro sorso, solitario e assorto in questa tremenda notte. Non capisco se stia vivendo o immaginando ciò che vedo, ma mi lascio trasportare dagli eventi senza curarmene troppo. Realtà e ricordi stanno mischiandosi come universi che coesistono nello stesso spazio.
Tutto è confuso, perfino la narrazione. Leggi e basta, fai scorrere le parole.
Ti sei perso?

Sono vestito di stracci umidi che fomentano il vento. Non ho più nulla, più nessuno. Il ricordo di quella notte di Settembre mi scuote il cuore in questa ressa di grida e bestemmie. Sono in totale e perfetta stasi, sui gradoni di pietra che mi separano dallo spettacolo di scimmie in fibrillazione; eppure sono ancora su quella panchina, con il gelo che mi entra nella pelle, distante da ogni altra cosa. I miei compagni mi hanno abbandonato, mio padre mi ha abbandonato, Dio mi ha abbandonato, o forse sono stato io ad abbandonare tutti loro. 

Sento lo sguardo della gente spogliarmi dell'armatura appena indossata, come un crociato fedifrago ai piedi di una cortigiana. Mesi e mesi lontano da casa, con la spada come unica compagna, malinconica amica. L'amore in cambio di una notte. La dignità mi costringe a nascondere la bottiglia, mentre il pudore mi grida a gran voce di scappare. Li sento sparare sentenze, insultarmi. Hanno ragione. Ho perso tutto. Dignità e pudore sono costrutti per chi ha un posto in cui tornare, io non ne ho bisogno.

Prego un Dio ammazzato, mentre gli schiamazzi intorno a me si intensificano. Perdo per un attimo il filo del ricordo, accompagnato dal pogo che mi trascina in una danza lenta e ritmica, come in una culla solitaria al centro di una città in fiamme. Nessuno se ne cura, tutti pensano a scappare.
La notte in cui mio padre è morto, in cui sono scappato per le strade fantasma gremite di tossici. Un prurito, scherzo del deposito memorie.

Centro cittadino, celebrazione ecumenica. Le luminarie circondano le strade ancora affollate, le bancherelle colorano i viali altrimenti spogli, il frastuono dei molti mi rimbomba nel cervello. Famiglie e coppie innamorate festeggiano l'arrivo di non so quale divinità cristiana dal carattere politeistico. Urla e bisbigli si fondono al rumore di passi svelti in una sinfonia che ha il sapore dell'autunno. Molte facce felici, nessuna veritiera. Sono in piedi, nel bel mezzo di questo paradiso per pecore belanti. Mi abbasso i pantaloni. Mi sembra di poter ancora scorgere le facce esterrefatte delle madri che tentano di coprire gli occhi dei bambini venuti a godersi lo spettacolo di luci e caos, le cui stridule grida si mescolano a quelle feroci della curva.

Apro gli occhi. Di nuovo. Purtroppo. Mai fatta pisciata più soddisfacente di allora.
Gli spalti si stanno svuotando, segno che devo aver perso conoscenza abbastanza. I miei compagni di guerra sono già in fila per uscire, ammassati in una lenta e disorganizzata coda che ha la parvenza del paradosso. Il tono dei loro canti ha ormai perso vigore, come dopo un orgasmo mancato che lascia addosso l'acre sensazione della futilità dell'esistenza. È masturbazione di gruppo: ansimiamo violenti lasciando tracce di noi stessi sparse a terra, poi il buio.

Intanto, anche il settore ospiti comincia rapidamente a perdere pezzi. È l'ora di destarsi. Mi faccio strada verso l'uscita assieme agli altri miei fratelli nella morte, superando a fatica la fiumana dalle orecchie sfiancate che ci si para davanti. Spintoni, insulti, sputi. I preliminari li offre la casa. Ci muoviamo rapidi planando a grandi passi sugli ampi gradoni. Siamo fiere che avanzano sicure verso la canna del fucile, pronte ad udire il suono rombante del fato. Sentiamo la terra tremare funesta allo scoppio dei nostri passi.

Sacrifici umani volontari. Corriamo verso l'esterno scacciando la tensione. Il grigio e arrugginito cancello che ci separa dalla strada è il Rubicone di questa periferia. Nero, letale, silenzioso. Passo dopo passo più vicini all'abisso, ad osservare ed essere osservati, a trarre il dado e a sentirne il tonfo. Abbiamo cattivi propositi. Un fedele scudiero aspetta alla soglia per riconsegnarci le armi sfuggite ai controlli, ripagato da inutili pacche. Stringo il manganello telescopico tra le mani. Il freddo acciaio dell'impugnatura smorza il bollore della pelle ormai fumante.
Che il torneo smetta di essere gioco.

Ancora troppo umanoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora