Solchi e gradinate - parte 1

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Le scale del palazzo sono il crocicchio degli imputati alla corte di Minosse; marmo che conduce alle fiamme più accecanti dell'ottava bolgia, o alle acque limacciose della palude Stigia.
Sono lo Winston Smith di queste dimore in rovina, ma senza annesso tiranno che mi osserva freddo mentre affondo nel pantano della civiltà, non mi è concesso neppure quello. Intorno a me c'è solo la decadenza occidentale che mi punta gli occhi addosso, più violenta di qualsiasi repressione, più alienante di qualsiasi distopico futuro.

Sulle bianche pareti, sgrammaticate scritte si alternano a dediche e cuori stilizzati, in un tripudio di ricordi dimenticati, di attimi impressi da preadolescenti con il pallino per le abbreviazioni. Deformi sentenze di vita, panegirici alla solitudine.
Tutto intorno è già deciso, immutabile, incontrovertibile prassi popolana. Qui la psicopolizia dei quartieri borghesi non entra, qui solo pedate per chi non si omologa alle scelte dei molti, solo iniqui sguardi per chi vuole salire i gradini. Restano tutti a terra a portata di sputo, qui dove nessuno è veramente in alto.

Sono al confine e non mi resta che uscire, respirare l'aria di questo tempo falsato, dove tutto si ferma in attesa di ricominciare. Passo dopo passo più vicino alla luce, verso l'esterno, e in un attimo vengo investito dal tocco molesto del sole, imprigionato in una gabbia più grande.
Lento, inesorabile, cammino per le strade del quartiere come in una via crucis volontaria. La vita è il mio fardello, pali e vedette le mie stationes. Sono un brigante con la stessa destinazione del seme divino: buio e silenzio nell'ovulo della morte. Metto un piede davanti all'altro in un movimento meccanico e continuo. La volontà di potenza è una carica a molla. Sono diverso da un giocattolo perché fingo di poter scegliere la direzione dell'Inevitabile Tragitto che ci accomuna.

Su questi muri coperti di scritte non c'è niente, niente che valga la vernice usata; solo il testamento di gente tanto distante dal pensiero unico da non poter neanche aspirare al ruolo di materiale per statistiche. Murales illeggibili mi guidano verso lo stargate per il centro cittadino, dove cominciano i verdi prati e finiscono i rappezzi sull'asfalto. Una scia di antichi emblemi ed incisioni rituali si allunga sulle pareti dei vecchi edifici abbandonati. Il rosso e il nero delle tinte scolorite dal tempo si fonde al bianco dei cartelloni pubblicitari strappati. L'euritmica composizione di colori da Impero tedesco decora gli stretti viottoli. Archi tricentrici segnano l'entrata dei dormitori di senzatetto e condannati, superflui slogan da oratorio ornano gli anacronistici simboli. Questi quartieri erano fucine ideologiche, ora divenuti rifugio delle paranoie hipster.

Più avanti, propagandistiche icone e personaggi televisivi coprono le vecchie croci battezzate col sangue, a testimonianza dell'incontenibile progresso verso l'apocalisse sociale. La cultura pop ha preso possesso delle periferie dopo aver infettato i quartieri dabbene. Ci ha confuso con i suoi colori sgargianti e infangati con la sua superficialità. La nostra ultima resistenza fatta di rifiuto a priori ed abnegazione è stata annientata da luccicanti ammennicoli e spettacolose promesse. Vedo nei timorati anziani che oltraggiano Dio il solo presente sano, nei letterati semicolti dai tatuaggi sconnessi il solo probabile futuro. Tremo nella calda mattina domenicale.

Non mi resta che lasciare tutto e darmi all'ecoterrorismo, ma mi dicono che anche Tyler Durden sia diventato di moda, in questo cervellotico meccanismo che estremizza il banale per renderlo interessante, e banalizza l'estremo per renderlo accettabile. Le poche persone che mi seguono in questo mio peregrinare hanno testa bassa e occhi sommessi: sono abituati al calare della scure, a nascondere il collo. Sono il solo che riesca a godersi questo cielo grigio e torbido, giusta scenografia per il giorno appena iniziato.

Passeggio tra i miasmi metropolitani, incurante della solitudine. Quello dei miei passi è il solo rumore che si ode qui intorno; sono il padrone di queste terre desolate, imperatore del niente. Mi cingono case popolari dall'architettura sovietica, avvolte dal caldo e accogliente abbraccio della morte; ruderi per disperati intenti a sognare un'altra vita. Si ristorano dopo un ciclo, l'ennesimo. Lavorano per riposare, riposano per lavorare, in un vortice continuo fino allo sfinimento, fino alle pensione, per poi perdere ogni cosa.
Sono la rassegnazione di Jack che cita Palahniuk e Nietzsche, ma che non dovrebbe.

Continuo questo mio viaggio verso il nulla, occhi alle scarpe e picca nella tasca. Intorno a me ancora frasi colorate, ancora murales che non riesco a leggere; ancora false parole d'amore per tutti, parole di odio per gli altri. Solo qualche altro passo in questo scantinato del tempo, poi giungo a destinazione ancora in piedi, senza mai cadere, segnando un punto sul Cristo che mi ha preceduto.

Ancora troppo umanoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora