Fisso il cellulare in attesa che squilli ma non squilla. Quindi fisso l'ora sul display e conto i minuti che passano. Ne passano dieci, poi venti. Niente. Ne passano altri dieci e una macchina si ferma nel vialetto. Mi si ferma il cuore per alcuni istanti che sembrano infiniti. Mi alzo istintivamente dalla sedia, mi guardo allo specchio e passo una mano tra i capelli. Okay, respira. Mi avvio verso la porta e la apro un attimo prima che possa suonare. Mi guarda, lo guardo e non so che dire. Mi faccio da parte e lo lascio entrare.
Sembri disorientato, quasi fosse la prima volta che entri in questa casa. Eppure è tutto uguale, qui dentro. E forse è proprio questo il problema, che non ho spostato nulla da quando sei andato via, che questa casa è congelata, imbottigliata, intrappolata nella tua ragnatela. E' tutto uguale tranne l'atmosfera che si respira in questo momento. L'aria è tesa e la tensione tangibile, posso sentirla farsi più pesante ad ogni secondo che passa. Dovrei dire qualcosa ma ogni singola parola mi muore in bocca, prima di poter diventare reale. Tu, allo stesso modo, continui a guardarti intorno dandomi le spalle. Di cosa hai paura? Perchè non ti volti? Perchè non mi guardi?
Forse mi senti. Ti volti, mi guardi.
"Non credevo che mi avresti scritto."
"Neppure io."
"E allora perchè l'hai fatto?"
Non riesco a decifrare il suo sguardo, il suo tono.
"Non avrei dovuto?"
"Non lo so, a questo punto non lo so."
Tira fuori il cellulare dalla tasca, lo sblocca e me lo passa. In una frazione di secondo riconosco la scena immortalata.
"Posso spiegarti."
"No, non devi."
"Invece sì, io..."
"Paulo non sono nella posizione di chiederti nulla, per diverse ragioni. In questo momento ho solo bisogno di sapere perché mi hai scritto."
"Perché ho l'impressione che avresti preferito che non lo facessi? Perché ho l'impressione che tu sia dispiaciuto?"
Lui abbassa lo sguardo, si fissa le mani. Mi sembra svuotato, in questo momento, stanco, abbattuto. Continuo a non capire. Aspetto che mi guardi, che mi smentisca, ma non lo fa. Resta immobile e guarda l'orologio.
"Vai via senza una parola. Torni qui dopo due anni e mi cerchi. Mi chiedi di parlare e a malapena mi guardi in faccia. Al contrario, guardi l'ora come a supplicare il tempo di passare in fretta. Ne avrei tante di cose da dire ma non so quanto tu sia disposto ad ascoltare. Per cui, Àlvaro, credo che sia tu a dovermi spiegare il senso di quel biglietto. Sei tu a dovermi dire perché sei qui quando ogni parte del tuo corpo vorrebbe essere altrove."
"Ho fatto l'amore con un altro."
"L'ho fatto anch'io."
"Stanotte."
È come se il mondo avesse smesso per un attimo di girare e poi avesse ripreso a farlo al contrario. Non riesco a dare un senso alle sue parole. Messe insieme mi sembrano incomprensibili.
"Stanotte ho fatto l'amore con un altro."
Mi ha sentito ancora e ha dato un senso a qualcosa di totalmente insensato. Il mondo gira sempre più veloce.
"Vai via senza una parola. Torni qui dopo due anni e mi cerchi. Mi chiedi di parlare e fai l'amore con un altro. Mi sembra giusto."
Rido. Rido perché mi sembra uno scherzo, uno stupido scherzo. Mi aspetto che qualcuno, da un momento all'altro, mi dica che è uno scherzo o che qualcuno mi svegli da quest'incubo. Mi aspetto che la sveglia suoni e che non resti niente di tutto questo. Ma nessuno mi dice che è uno scherzo, nessuna sveglia mi sveglia.
"Perché sei qui Àlvaro? Perché diavolo sei qui?"
Scandisco bene ogni singola lettera di ogni singola parola. Ho bisogno che percepisca la mia rabbia, il mio disgusto.
"Non lo so."
"Non lo sai. Tu non lo sai. Stai scherzando, vero?" È una risata isterica la mia. Inizio ad aver paura di me stesso. Sento l'irrefrenabile voglia di sbatterlo al muro. Sbatterlo al muro e spaccargli la faccia. E obbligarlo a guardarmi, a guardarmi negli occhi. Ho paura di poterlo fare. Ho paura che se non lo faccio scoppierò a piangere, perché dentro di me niente è più al suo cazzo di posto. Vorrei scoppiare a piangere e implorarti di dare un senso a tutto questo ma non posso farlo. Non verserò neppure una lacrima, perché non lo meriti. Non meriti questa ennesima soddisfazione.
Quando sto per scoppiare, però, tu geli il tempo. Ti alzi, vai in cucina, prendi due bicchieri d'acqua. Ti siedi e fai scivolare uno dei due verso il lato opposto del tavolo, invitandomi a fare lo stesso.
"Mi sentivo in gabbia. Quando sono andato via, intendo, l'ho fatto perché mi sentivo in gabbia. Dopo i primi mesi di terapia credevo che le cose sarebbero andate sempre meglio. Mi illudevo che avremmo avuto una vita tranquilla, che quando tutto si fosse risolto saremmo riusciti ad andare oltre lo schifo che abbiamo passato. Lo credevo davvero, per i primi sei mesi. Poi la situazione ha iniziato a pesarmi. Mi sentivo in una campana di vetro. Non facevi che guardarmi impaurito, preoccupato. Ogni volta che aprivi bocca lo facevi pesando ogni parola, stando attento a cosa dire, a cosa no. Credo che avrei potuto fare qualsiasi cosa, in quel periodo, qualsiasi, tu non mi avresti detto niente. Senza accorgercene è passato un anno, un anno intero senza litigare, senza scontrarci, senza confrontarci. Neppure una notte separati, neppure un giorno lontani. Tu forse neppure te ne accorgevi, ne sono sicuro, ma io, io ti vedevo spegnerti lentamente al mio fianco. Ti ho visto annullarti, completamente. Ti ho visto rinunciare alle uscite con gli amici, agli allenamenti, ma mai ai miei incontri. Lì eri sempre presente. Ti stavo soffocando e all'improvviso mi sono sentito soffocare. Avevo una corda intorno al collo e l'aria ha iniziato a mancarmi. Poi è arrivata la convocazione in nazionale e quasi diventavo matto all'idea che potessi rinunciare. Ho fatto del mio meglio per convincerti a partire e quando mi sono ritrovato solo in questa casa ho pensato "o scappo o muoio. O scappo o muore." Così ho fatto le valigie e ho preso il primo aereo per Madrid. Nonostante la gravità, mi son sentito immediatamente più leggero. Finalmente ero libero dalla campana di vetro che mi avevi costruito attorno. Ho ripreso a respirare ma con un macigno sul cuore. Ho passato i primi mesi con il telefono in mano, componendo il tuo numero per poi cancellarlo. Credevo, però, di aver fatto la cosa giusta, per te. Non mi importava se mi odiassi, non mi importava che pensassi non ti amassi. Non mi importava nulla, tranne saperti libero. Libero dal peso dei miei guai. Probabilmente non crederai ad una sola parola di ciò che ti ho detto. Come darti torto...
Non ho avuto nessun altro dopo di te, sai? Mi faceva schifo la sola idea di amare qualcuno che non fossi tu. Fino a stanotte, perlomeno. Sono tornato dopo un anno e ho fatto l'amore con un altro perché lui non sa dei miei guai, non mi ha guardato con apprensione, non ha pesato le sue parole. E tu hai fatto l'amore con un altro ed è quello che meriti. Meriti di essere felice, meriti di essere tranquillo. Meriti di poter dire ciò che ti pare, quando ti pare, di poter urlare se sei arrabbiato, piangere se sei preoccupato. Meriti di camminare sulle nuvole, non tra le macerie. Meriti di non preoccuparti di tagliarti con i cocci della vita di qualcun altro. Ho fatto l'amore con un altro e non me ne pento. Mi ha ricordato che meritiamo di più. Tu, perlomeno, meriti di più. E non ti avrei scritto quel biglietto se solo non fossi stato il solito egoista. Ho pensato unicamente a me stesso, dimenticandomi di te per l'ennesima volta. Di questo sì, me ne pento. E spero che tu possa capirmi. E spero che tu possa perdonarmi." Si interrompe, mi guarda "Ora credo di aver risposto alle tue domande."
"Non a tutte, no." Mi trema la voce.
"Cosa vuoi sapere?"
"Se sei il solito egoista, se hai pensato unicamente a te, allora perché sei rimasto, perché mi hai cercato?"
Sorridi di un sorriso amaro. Non puoi ferirmi più di così. Ti prego, dillo, posso sopportarlo.
"Perché ti amo. Perché non ho mai smesso di amarti. Semplicemente per questo."
E una lacrima ti scivola sul viso perdendosi nel mare d'ebano che ci divide.