Capitolo 13

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  POV SERENA

-Serena! Serena!-

"Accidenti, non ricordavo di essermi addormentata. Ad ogni modo ci penserò dopo, si sta così bene qui al calduccio".

-Serena! Avanti!-

"Uffa, magari se mugolo in risposta capiranno che ho capito e mi lasceranno in pace ancora un po', sono così stanca, mi sembrano giorni che non dormo".

-Serena! Ti prego svegliati! Devi svegliarti!-

"Ma perché papà continua? Non devo andare a scuola ne sono sicura. Un momento! Papà è tornato? Papà?"

-Pa...pà?- mi ci volle uno sforzo sovrumano per emergere dal mio stato di incoscienza, obbligare le mie palpebre pesanti ad aprirsi e pronunciare quelle due sillabe. Davanti ai miei occhi avevo quella tipica nebbiolina di quando si dorme molto, per non contare che la forte luce gialla proveniente dal soffitto non mi aiutava molto. Mentre tentavo di mettere a fuoco sentii ancora quella voce e capii che non era un sogno.

-Serena.-

Rimasi senza parole a fissarlo, come se fosse un miraggio pronto a scomparire all'improvviso. Mio padre era lì, davanti a me, legato come me ad una sedia a pochi metri di distanza. Non potei impedirmi di notare che in quegli anni era cambiato, era invecchiato, eppure allo stesso tempo era sempre lui, neppure una virgola mutata. Milioni di volte avevo immaginato il nostro incontro, ma mai mi sarei aspettata che capitasse in questa maniera. Ma l'importante era che finalmente eravamo di nuovo insieme. Anche lui non aveva ancora distolto gli occhi da me, probabilmente pensando le stesse cose che avevo pensato io di lui. I suoi occhi, furono quelli a riempirmi di felicità, perché quelli erano l'unica cosa che il tempo non avrebbe mai potuto scalfire: caldi, vivi, forti, ancora pieni di energia, ancora pieni di tutto. Eccolo il mio idolo in carne ed ossa. Tuttavia c'era qualcosa che mi sfuggiva, qualcosa di ovvio ma importante, perciò prestai più attenzione e lo vidi. I suoi occhi potevano anche essere sempre gli stessi, ma il suo sguardo verso di me era preoccupato. Me ne vergognai, mi sentii in colpa, perché sapevo di non meritarlo. Io lo avevo giudicato male, lo avevo incolpato, lo avevo ferito e lui anche in quel momento, malgrado tutto, cosa faceva? Si preoccupava per me. E fu proprio mentre lo guardavo, pensando tutte queste cose che mi diedi dell'idiota. Come avevo anche solo potuto immaginare di stare senza di lui? No, non avrei lasciato che morisse, non lo avrei lasciato punto e basta. Ad ogni modo, sapevo, che non avrei comunque potuto eguagliare tutto quello che lui aveva fatto, sacrificato, sopportato per me. Gli idoli puoi imitarli non eguagliarli.

-Stai bene?-

Il suo sguardo era accigliato, la voce bassa e controllata, comportandosi come se avesse tutto sotto controllo. Ma riuscii ad intuire quanto in realtà fosse preoccupato per me. Ma non ero io quella venuta lì per salvarlo? Gli risposi, tentando di mantenere lo stesso autocontrollo.

-Sto bene.- non era esattamente la verità, adesso il retro della testa aveva iniziato a far male, proprio dove l'S.I. mi aveva colpita. Ma non volevo fare la parte della bambina piagnucolosa, ero un poliziotto in fin dei conti. Lui continuava a guardarmi circospetto.

Malgrado fossi legata tentai di mettermi dritta, far ruotare le spalle, sgranchirmi il più possibile. Nel mentre diedi un'occhiata intorno: era un'ampia stanza, riscaldata, probabilmente con qualcosa di elettrico, di finestre non ce n'erano molte, ma quantomeno ero sicura che almeno un paio di telecamere stessero riprendendo tutto. Tornai sulla figura provata di mio padre, questa volta per analizzarne le condizioni operative: i suoi vestiti erano macchiati e strappati in più punti, ematomi e piccole ferite facevano capolino un po' ovunque, ed ero certa ce ne fossero altrettanti sotto la camicia. Delle strane macchie nere spiccavano sul tessuto bianco, parevano bruciature, ma non sapevo se erano dovute al fuoco o ad altro. Striature di sangue completavano quella triste raffigurazione, ce n'era traccia persino sul collo, sul mento e sulle labbra. Come si poteva esser tanto crudeli? Come potevano certi uomini fare cose simili ad altre persone? Non ne avrei mai compreso la risposta. Mio padre rimase a guardarmi in silenzio mentre facevo la mia valutazione.

-Che cosa ti ha fatto?- gli chiesi infine.

I suoi occhi dardeggiarono, decifrando rapidamente la mia espressione e quale risposta darmi.

-Sto bene, non ho riportato ferite gravi.- la sua voce era arrochita dal troppo silenzio. Mentì. Probabilmente per non farmi preoccupare; naturale, lo avrei fatto anche io se fossi stata al suo posto. Anzi, pensandoci bene lo avevo già fatto, quando anch'egli poco prima mi aveva posto la medesima domanda.

-Perché hai accettato?- la sua voce mi strappò dai miei pensieri, non so perché ma finsi di non capire il senso della domanda, volevo sentirglielo dire –Perché sei venuta fino a qui?- il suo sguardo era serio, il tono della sua voce severo, quasi fossi una sua qualunque collega e non sua figlia. Per questo gli restituii la stessa moneta.

-Per tirarti fuori di qui.-

Ecco, se fossimo stati in un telefilm questo sarebbe il momento in cui l'altro prigioniero faceva dell'ironia, una cos del tipo "Beh, ci sei riuscita alla grande! Adesso siamo in due legati ad una sedia!". Ma non potevo di certo aspettarmi una battuta da mio padre, nemmeno se le nostre parti fossero state invertite. Che la sua preoccupazione nei mie confronti si fosse maturata in rabbia perché pensava che fossi stata un'irresponsabile? Che l'avessi in un qualche modo deluso? No, non lo credevo possibile. Avevo affrontato fantasmi per essere lì in quel momento, non poteva davvero respingermi.

Fissai i miei occhi nei suoi, pronta ad affrontarlo e dargli le mie ragioni, ma mi resi conto che questi non rispecchiavano il suo tono duro. Quello che stavo guardando era dolore allo stato puro. Dolore per il passato, dolore per il presente. Dolore mentale, dolore fisico. Era tutto lì. Ed io ero certa, che almeno una parte fosse stata causata da me. Non potevo ancora dirgli che era stato tutto un bluff, non sapevo dove fosse l'S.I., ma potevo trovare un modo per infondergli un po' di speranza prima che iniziasse la mia recita conclusiva. Fece per abbassare lo sguardo.

-Ce ne andremo fuori di qui.- tornò a guardarmi, sebbene non convinto –Insieme.- aggiunsi, sperando cogliesse l'allusione. Non lo facevo solo per lui, ma anche per me, in fin dei conti adesso eravamo sulla stessa barca.

Prima che potesse rispondermi o dirmi qualcosa la porta in fondo alla stanza, immersa quasi nel buio più completo, si aprì. Avevamo parlato praticamente sottovoce per tutto il tempo e sperai vivamente che non c'avesse sentito. L'espressione di mio padre non mutò di una virgola mentre manteneva lo sguardo duro fisso su di me, io raddrizzai la schiena, sperando di dare ad intendere all'S.I. che non avevo paura di lui, che nemmeno il fatto di avermi colpita alle spalle mi aveva sorpresa, avevo tutto perfettamente sotto controllo. Quando entrò nel fasico di luce un brivido mi percorse: i suoi occhi neri, il sorriso incurvato maggiormente sul lato destro, tutto di lui esprimeva una malsana felicità. Per un po' fece rimbalzare lo sguardo su entrambi, poi si soffermò su di me. Non ruppi mai il contatto visivo, non gli avrei dato l'illusione di essere in suo potere; io ero lì per aiutare lui, non il contrario. Si vedeva lontano un miglio che era soddisfatto della propria caccia. Come dargli torto! Aveva messo nel sacco due agenti federali, di cui uno era il capo della miglior squadra di profiler di tutti gli Stati Uniti. Ci girò attorno, un leone che gioca con le proprie prede prima di ghermire; anche se, a mio parere, più che un leone pareva una iena. Il vero leone era mio padre, purtroppo colpito a tradimento.

L'S.I. si fermò dietro di me e dopo istanti lunghissimi appoggiò le mani sulle mie spalle, erano gelide. L'espressione di mio padre mutò quasi impercettibilmente, i muscoli facciali che si contraevano in un'espressione ancora più dura.

-Non toccarla.- quasi non aprì la bocca nel dirlo, le labbra erano tese in una linea diritta. Adesso i suo occhi lanciavano lampi in quelli dell'uomo alle mie spalle. Non potevo girarmi e quindi vederlo, ma lo sentii comunque sorridere divertito.

-Altrimenti? Cosa mi farai paparino? Mi urlerai contro?- silenzioso, temevo la risposta che avrebbe potuto dare mio padre, fortunatamente però non disse nulla –No, tu non sei uno che alza la voce. Ne le mani.- fu la conclusione pacata e lenta dell'altro, quasi ne fosse deluso. Mi liberò dalla sua presa, più mentale che fisica, come se le sue dita fossero state artigli arpionati al mio cervello. Fu un gran sollievo. Riprese a girare, questa volta il confronto era tra i due uomini. Il cuore mi batté forte quando lo vidi piegarsi all'altezza di mio padre, quest'ultimo che continuava a guardare davanti a sé, come se io fossi trasparente. Forse lo aiutava a mantenere la mente lucida –E' un po' tardi per mettersi a fare l'eroe, non credi?-

Fu un sibilo e tanto bastò. In pochi istanti avevo capito che il nostro S.I. ci conosceva meglio di quanto mi fossi aspettata. Non solo riguardo al nostro passato, ma anche su noi stessi: il nostro carattere, le nostre debolezze...ero sicura che il riferimento all'eroe non fosse puramente casuale. Lui sapeva. Sapeva quanto nostro padre fosse stato importante per la nostra famiglia. Sentivo la paura avanzare dentro di me, ma non potevo permetterle di prendere il sopravvento, c'era troppo in gioco per gettare la spugna così. Dovevo stare calma, una qualche brillante improvvisazione mi sarebbe di certo venuta in mente, così facendo avrei ripreso le fila del mio piano iniziale e tutto sarebbe andato per il verso giusto. L'S.I. tornò in posizione eretta, per nulla scalfita la sua soddisfazione di fronte all'ostinato silenzio di mi padre. Fu così che l'uomo in nero intrappolò nuovamente il mio sguardo, stabilendo un contatto che non era per nulla di mio gradimento.

-Serena, ora che sei qui, perché non racconti a tuo padre come sono stati questi anni? Mentre lui era in giro a fare l'eroe.- sapevo me lo avrebbe chiesto, sapevo non sarebbe stato facile, ma mai avrei immaginato così difficile. Un conto era sostenere lo sguardo dell'uomo che lo aveva rapito e aveva commesso un sacco di crimini, dimostrargli che non ero debole come potevo sembrare. Tutt'altra storia era mantenere il medesimo distacco con la persona a cui volevo in assoluto più bene al mondo, guardandola negli occhi mentre parola dopo parola la ferivo psicologicamente. Eppure non avevo alternative, non se volevo portare fino in fondo la mia recita. Dovevo farlo e soprattutto dovevo essere convincente. La parte peggiore era che anche mio padre c'avrebbe creduto.

Gli occhi di mio padre erano due dischi di cioccolato fuso, ma il loro colore andava scemando, temendo quello a cui stavano andando incontro. Io ero l'ariete, lui il portone da sfondare. E io l'avrei divelto.

Le uniche volte che avevo visto mio padre così addolorato era stato al funerale dei nostri famigliari, di mamma e Jack, ma allora non era stato torturato e riusciva a nascondere le proprie emozioni. Mio padre non ha mai alzato le mani su di me, nemmeno per sgridarmi. Ma quando abbassò il capo, rifiutando di guardare quello che era obbligato a sentire...beh, avrei preferito di gran lunga uno schiaffo. Dai miei occhi traspariva quell'indifferenza che avevo cercato di simulare, eppure mi sentivo come se quella pugnalata a morte fossi io. Mio padre non voleva guardarmi. Non voleva stare a sentirmi, forse perché immaginava che comunque una parte di verità in tutte quelle parole ci fosse. E come dargli torto? Nemmeno io avrei voluto starmi a sentire. Quanto avrei voluto alzarmi da quella sedia, corrergli incontro, gettargli le braccia al collo, stringerlo stretto stretto, dirgli che era tutta una grossa e tremenda bugia. Invece, iniziai a parlare.

-Non...non è stato facile. Mi sono sentita molto sola. Prima la mamma, poi Jack: mi eri rimasto solo tu. Andavo avanti ogni giorno con la speranza che saresti tornato a casa, finchè un giorno non sei più tornato. Avevo trovato scuse a tutto: alla mancanza di telefonate, di lettere...ma non potevo accettare la tua assenza. Ho dovuto imparare ad arrangiarmi, a proteggermi da sola. Nemmeno le spiegazioni della zia erano sufficienti. D'accordo volevi proteggermi, ma perché abbandonarmi?-

-Serena non ho mai voluto...-

-Mi sono arrabbiata così tante volte.- non fu facile interromperlo, non era facile per lui ma nemmeno per me –Più passava il tempo meno ti vedevo e meno ti vedevo più mi convincevo che non ti interessasse più di me. O comunque non tanto quanto lo fosse il tuo lavoro.- lo vidi trattenere per un secondo il respiro, forse un singhiozzo, ma non mi soffermai –Eppure, ancora una volta, tentai di trovare delle scuse plausibili. Dovevi tornare. L'avevi promesso. Alla mamma. A Jack. Quindi l'avresti fatto anche per me, giusto?- corrugai le sopracciglia –Ho sempre sperato di vederti rientrare dalla porta di casa prima di andare a dormire, o di svegliarmi e scendere le scale per trovarti seduto in salotto. Ma ogni volta non c'eri. Finchè la speranza è diventata un sogno che mi ha permesso di andare avanti.- lo sentii prendere un lungo respiro dalla bocca. Era straziante. –Invece ricordo perfettamente la tua schiena, le tue spalle, mentre te ne andavi, lasciandomi con una promessa. Promessa che hai smesso di mantenere, mentre io ogni volta speravo non ti accadesse nulla, che saresti tornato a casa sano e salvo. È questa l'ultima immagine che ho di te: te che te ne vai per non tornare più.- ero così indifferente che mi feci schifo da sola. Un altro tremito scosse quelle robuste spalle. –Lo sai, avrei tanto voluto ci fossi nei momenti più importanti della mia vita. Quando prendevo bei voti, quando ho preso il diploma al ballo della scuola, al mio diciottesimo compleanno dove tu mi hai mandato solo un biglietto di auguri; ecco, credo sia stato proprio quello a rovinarmi l'intera giornata. Quando mi sono iscritta all'accademia, avrei voluto ci fossi anche tu tra tutte quelle persone che applaudivano. Ma tu non c'eri. Eri al lavoro, troppo impegnato. Come sempre.- mi lasciai andare ad un sospiro triste, molto scenico. Si ostinava a non guardarmi e a malincuore sapevo che stavo raggiungendo il mio obiettivo. Finsi un singhiozzo. –Avevo così tante cose da raccontarti: aneddoti, le mie paure, i miei segreti. Ora, non so nemmeno se ne varrebbe ancora la pena.-

-Basta così.- lo sentii a fatica, ma questa volta non lo interruppi. Piano piano sollevò il viso, contratto in una smorfia di delusione. Vidi chiaramente le righe che delle lacrime avevano tracciato sulle sue guance, sebbene adesso non ve ne fossero.

-Ti prego. Smettila.- se il cuore quando si spezza potesse far rumore, il mio in quel momento avrebbe sortito l'effetto di un fulmine che ti cade vicino. Perché mio padre non stava supplicando l'S.I. di smettere, stava pregando me. Mi ero fatta un'idea di quanto avrebbe sofferto ascoltandomi, ma una volta ancora avevo sbagliato; lo era stato molto di più. Le lacrime avevano lasciato i suoi occhi umidi, il mio eroe stava piangendo. Jack si era travestito da papà per dimostrargli che era il suo eroe, ma questo non voleva dire che non fosse anche il mio. Ma io non avevo ancora finito. Dovevo essere dura come un giustiziere, se volevo che l'S.I. si fidasse totalmente di me.

-Va pure avanti, Serena.- mi invitò infatti, candidamente. A quanto pareva la cosa lo stava interessando parecchio. Meglio, sarebbe stata la leva che mi avrebbe permesso di guadagnare punti e rivalermi su di lui. Se ne sarebbe pentito amaramente di quello che ci stava facendo passare.


***


BAU TEAM

Le casse erano state alzate al massimo oltre che dotate di filtri, in modo da avere un suono più pulito e chiaro possibile. I tre agenti davanti ai monitor erano come ipnotizzati dalla scena a cui stavano assistendo, paralizzati da quello che erano obbligati a sentire. Penelope, la più fragile tra loro, era sconvolta: gli occhi spalancati, la bocca dischiusa in una "o" muta, il corpo scosso dai brividi; eppure incapace di distogliere lo sguardo. JJ la circondò con un braccio, tentando di trasmetterlo un po' di conforto. Presto sarebbe finito tutto, i loro colleghi sarebbero tornati a casa e tutti insieme sarebbero usciti a festeggiare il lieto fine. Questo almeno era quello che frullava nelle loro testoline.

Mentre le donne si facevano coraggio a vicenda, combattendo contro l'impulso di dedicarsi ad altro, pur di non abbandonare due membri della loro famiglia, Reid se ne stava in piedi a braccia conserte, analizzando quella scena davanti a lui che a suo parere aveva qualcosa di terribilmente sbagliato. In tutto quello a cui aveva assistito fino a quel momento c'era una nota stonata e sentiva che era urgente che lui la trovasse prima che fosse troppo tardi. Gli servirono pochi istanti, doveva per un attimo estraniarsi dalla conversazione che continuava imperterrita sugli schermi davanti a loro. Alla fine ruppe il silenzio.

-Anche secondo voi c'è qualcosa di strano?- le due donne, ben felici di sentirsi chiamate in causa, lo guardarono sorprese e confuse allo stesso tempo.

-Che cosa intendi?- domandò Penelope, temendo un altro colpo di scena a loro sfavorevole.

-L'S.I. ha ucciso intere famiglie, ma mai il padre. Perché ora dovrebbe cambiare?- rispose il più giovane della squadra, esponendo i propri pensieri. JJ assottigliò lo sguardo, seguendo il ragionamento del collega.

-In effetti difficilmente il modus operandi viene cambiato, a meno che non avvenga un'escalation.-

-Un'altra cosa poi che non mi convince- riprese Spencer –è che il nostro S.I. è stato messo in prigione proprio con l'assassino del figlio di Hotch, che guarda caso è l'unico che conosce ogni singolo membro della sua famiglia. Non vi sembrano un po' strane tutte queste coincidenze?-

-Oh, mio Dio! Non starai pensando che qualcuno possa aver pianificato tutto?!- domandò inorridita Penelope, centrando però i pensieri degli altri due.

-In effetti avrebbe senso. Sapeva che uno dei due assassini non si sarebbe lasciato sfuggire l'opportunità di uccidere un altro membro della famiglia del poliziotto che più odia al mondo, mentre l'altro avrebbe trovato nel primo una valvola di sfogo.- espose JJ.

-Questo significa che c'è qualcun altro, e noi ancora non sappiamo chi, che vuole Hotch morto!- arrivata a quel punto, Penelope era decisamente stanca di sorprese.

-Garcia, pensi di poter fare un controllo incrociato tra: gli agenti del BAU che hanno avuto accesso al penitenziario nel periodo in cui McGrant è finito dentro, quelli con cui è venuto in contatto Hotch per faccende burocratiche e quelli che otterrebbero dei vantaggi se Hotch si togliesse dai piedi?- chiese gentilmente ma in tono pratico il dr. Reid. Garcia rivolse ai due colleghi un'occhiata penetrante, una di quelle che stava a significare che aveva messo il turbo e che chiunque si fosse parato sul suo cammino se la sarebbe vista brutta.

-Ragazzi, se non vi dispiace, ora devo trovare il bastardo che tentava di dividere la nostra squadra, perciò devo concentrarmi e non ci riuscirò mai se voi restate qui.- e molto gentilmente ma con molta insistenza, li buttò fuori dalla sua stanza dei monitor.

Reid e JJ si avviarono alle loro postazioni, da dove avrebbero comunque potuto continuare a seguire la vicenda tra l'S.I., Hotch e Serena. Ancora una volta fu il ragazzo a rompere il silenzio, questa volta però con aria preoccupata.

-Lo sai vero cosa comporta questo nella stesura del profilo?- la donna pensò bene di lasciarlo continuare, anche se un brutto presentimento andava a prendere forma nella sua mente –L'S.I. in realtà non vuole uccidere Hotch, vuole uccidere Serena.-

-In questo modo tutto combacia, non ha cambiato modus operandi allora. Ucciderà Serena così che Hotch si sentirà responsabile della sua morte, per il resto della sua vita.-


Con uno scatto Derek chiuse il cellulare, riponendolo al suo posto sulla cintura.

-Ci sono novità?- domandò Emily, visibilmente ansiosa.

Quella storia stava logorando i nervi di tutti. Erano ore che erano appostati poco lontani dal covo del Soggetto Ignoto, il computer portatile, posizionato nel bagagliaio aperto, mostrava loro in tempo reale cosa stava succedendo all'interno dell'edificio.

-Era JJ. A quanto pare c'è stato qualcun altro che ha aiutato l'S.I. nella sua vendetta.-

-Intendi oltre a Gilgun?- chiese sempre Emily.

-Secondo i ragazzi non è stata una coincidenza che i due serial killer siano finiti nella stessa cella, qualcuno ce li ha messi.- spiegò l'uomo di colore.

-Tutto torna: un assassino assetato di uccidere e l'altro di vendetta, il primo il braccio e il secondo la mente. Hanno già qualche idea su chi possa essere?- intervenne David.

-Garcia ci sta lavorando facendo un controllo incrociato.-

-Speriamo riescano a trovare qualcosa.- sospirò l'agente più anziano con fare speranzoso. Emily sbuffò.

-Non ce la faccio più a stare qua con le mani in mano.- al contrario dei colleghi in centrale, forse complice il fatto di trovarsi sulla scena, i tre agenti erano riusciti a mantenere un buon autocontrollo, pronti ad intervenire in qualunque momento.

-Comprendo il tuo stato d'animo, ma purtroppo possiamo solo aspettare i prossimi sviluppi. Non possiamo nemmeno metterci in contatto con Serena, l'S.I. scoprirebbe lei, noi e il nostro piano e magari potrebbe anche decidere di ucciderli entrambi. Un rischio troppo grande per noi. Siamo nelle mani di Garcia e di quella ragazzina.- concluse David, riuscendo così in un qualche modo a placare l'animo focoso della collega; almeno per il momento.

Fu Emily tuttavia a dar voce alla preoccupazione di tutti.

-Spero tanto che Serena sappia quello che sta facendo.-  

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Hotch invisible to his DaughterDove le storie prendono vita. Scoprilo ora