Si scrive per sopravvivere

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Un chiacchiericcio pacato proveniva dalla grande sala e Armida sentiva una disperata voglia di andarsene e di mandare tutti a quel paese. Ma alla fine entrò, anche solo per divertirsi e provocare quella banda di bambole e burattini. "Sei in ritardo." la ammonì Mauro, suo padre. "Si ho avuto un problema." "Ce l'hai sempre. Sai che volevo presentarti durante il discorso e i ringraziamenti. Non posso neanche farlo ora. Non avevi qualcosa di più elegante?" "Ma non l'ho messa." replicò lei sarcastica. "Avresti potuto almeno truccarti, pettinarti, sembri una vagabonda!" "Già così da mettermi in posa e recitare la parte della bella figlia del capo. Non sono trucco e i capelli a determinare il valore di una persona, tu dovresti saperlo più di tutti." "Ma ne determinano la serietà. Tu come sempre devi fare di testa tua." Armida stava per lanciargli una di quelle frecciatine che lo avrebbero zittito, quando vide lo sconosciuto con cui aveva passato la notte incedere con passo sicuro verso di loro. Non poteva crederci: stava avanzando insieme al sindaco della città. "Mauro, congratulazioni! Un altro dei tuoi grandi successi. Lei deve essere tua figlia." "Si, molto lieta sono Armida." disse stringendogli la mano e sorridendo. Mauro restò un attimo perplesso e anche un po' sconvolto: sua figlia stava cercando di sembrare normale. "Il piacere è mio. Sei davvero adorabile, bellissima. Lui è mio figlio Lorenzo, frequenta medicina come te. Chissà magari vi siete già incontrati." Non le importava minimamente se il ragazzo avesse detto o no della notte passata insieme ma non doveva assolutamente menzionare il fatto che non stesse frequentando più i corsi. Lui la guardò, come per capire cosa fare. "No, non ho avuto il piacere." disse Armida con incredibile naturalezza e stringendo la mano del ragazzo con cui aveva passato la notte. Era un'ottima attrice, lo aveva preso da entrambi i suoi genitori. "In realtà mi ricordo molto bene di te." disse Lorenzo con un sorriso malizioso. Lei impallidì e trattenne il fiato. "Ti ho vista all'università, il tuo viso non è uno di cui ci si dimentica." Tutti sorrisero imbarazzati, tutti tranne Armida. "Bene" disse Mauro rivolto a Lorenzo. "Io e tuo padre dobbiamo parlare di cose importanti. Vi lasciamo fare conoscenza. Frequentate la stessa università, avrete molto da dirvi." E i due scomparvero tra la folla di invitati. Come se Lorenzo l'avesse letta nel pensiero, appena sparito il padre, subito cominciò a farle domande a cui non aveva assolutamente voglia di rispondere. "Perché non stai frequentando più l'università?" "Perché non voglio." "E perché non vuoi?" "E perché mi fai così tante domande?" "Penso che abbia il diritto di sapere dato..." "Dato che abbiamo passato la notte insieme? Come sei infantile!" "Due notti." Lei rise distogliendo lo sguardo, poi diventò seria. "Medicina è solo un modo per evitare l'azienda di mio padre. Voleva lavorassi con lui e un giorno mi avrebbe passato il testimone. Ma io non sono tagliata per questo, o almeno non voglio esserlo. E non voglio essere come lui: un uomo che ha sempre messo al primo posto i soldi. Come se potesse dargli gioia un giorno essere il più ricco del cimitero!" "Tu non sei per niente come lui." Armida lo guardò negli occhi per capire se fosse sincero e provò qualcosa di profondo. Non era abituata a quel tipo di intimità ma sentiva di poter parlare. "Ho sempre pensato che il nostro essere diametralmente opposti ci renda in un certo senso simili, e questa cosa mi spaventa da morire." Riprese fiato e continuò. "Tu invece da bravo democristiano sei perfettamente in linea con la campagna elettorale di tuo padre." Lui prima accennò un sorriso, poi ritornò serio. "Non hai risposto alla mia domanda. Perché non stai frequentando l'università?" "Dio Santo ma qual è il loro problema?" pensava. Tutti la trattavano come una stupida, come una bambolina fragile che poteva rompersi da un momento all'altro, come se potesse finire in un giro di droga e prostituzione solo perché insoddisfatta della propria vita. Beh guarda un po', sorpresa! Odiava la sua vita ma non per questo si sarebbe fatta fottere il cervello dalla droga. Non le importava di essere infelice, o almeno non le era importato fino a quando smise di frequentare i corsi. Per una volta nella vita si era data una possibilità, aveva deciso di fare invece che desiderare e sognare come al solito. Voleva parlare di sé, far sapere al mondo ciò che pensava. Ma a chi sarebbe importato. E poi aveva paura, ne aveva sempre avuta, che qualsiasi storia avesse scritto non sarebbe stata all'altezza di quello che aveva dentro. Ma una sera, mentre era in treno, fece amicizia con un giornalista ed è come se quell'uomo le avesse lasciato qualcosa. Incredibile quanto una chiacchierata su un treno con lui le sia stata più utile di tutti gli psicoterapeuti dopo la separazione dei suoi. Così, quando l'uomo scese alla sua fermata, lei prese carta e penna e cominciò a scrivere su un blocknotes una storia: una di quelle forti, maledette che vengono da dentro ed escono fuori attraverso la penna perché si sente il desiderio, l'esigenza di buttarle fuori. Come quando hai la nausea forte e speri di vomitare per stare meglio. Tenere quella storia per sé la faceva stare male, voleva che gli altri sapessero. Così la iscrisse ad un concorso letterario nazionale. Il premio? La pubblicazione del romanzo e un lavoro di un anno all'estero. Fantastico no? Quello che aveva sempre sognato: andare via per viaggiare e scrivere. Ciò che però voleva più di tutto è che qualcuno la leggesse, anche solo un giudice per scartarla o premiarla; perché condividere una storia significa sentirla più leggera. Voleva dare alla gente un quadro, il più veritiero possibile, della società attraverso i suoi occhi: voleva che vedesse ciò che lei vedeva, come lo vedeva, che leggesse il suo stato d'animo, capisse i suoi punti di vista, il modo in cui ragionava e percepiva la realtà. Chissà cosa avrebbero pensato, cosa gli sarebbe rimasto impresso o cosa avrebbero dimenticato subito. Mentre scriveva non si era preoccupata che qualcuno prima o poi l'avrebbe letta ed era meglio così. Quando si scrive solo per sé stessi si è più sinceri, più crudi, meno influenzati e questo lei lo sapeva. Però, stare davanti a se stessa, cercare di capirsi, di essere la sua psicanalista personale, non gli era costato poco. Aveva troppo caos dentro sé. Troppi pensieri, troppi problemi irrisolti, una rabbia cieca. L'antieroe del suo racconto è u giornalista, un paladino moderno della giustizia o delle cause perse. Combatte per i buoni, difende gli oppressi, si avvicina agli emarginati, dimostra ai "rotti" che c'è sempre qualcosa per cui vale la pena lottare. Forse lo fa perché attraverso il loro riscatto riesce a vedere il suo: combatte per il bene perché ha subito il male, li protegge per sentirsi protetto, non li lascia soli perché è solo anche lui, prova ad aggiustarli perché magari, un giorno, qualcuno ci proverà con lui. Alla fine però il suo protagonista molla, si arrende con gran dignità a quello che lo circonda, scende a compromessi, scrive quello che il suo prepotente capo gli dice di scrivere e si ritrova ad essere una persona mediocre con una famiglia a carico. E tutti i suoi racconti, gli articoli, le testimonianze rimangono nascosti nella cassa in soffitta. Ogni tanto l'uomo sale lì e piange. Perché sa che in quella cassa polverosa, nascosto sotto documenti vecchi e orologi rotti, è morto e sepolto il suo sogno e la speranza di tante altre persone. Si scrive per sopravvivere, per alcuni è così. Non poteva immaginare finale peggiore per quell'uomo, eppure sentiva che la sua vita stava andando esattamente in quella direzione.

"Senti amico non trattarmi come se fossi una pazza sull'orlo del precipizio. Non sto frequentando i corsi all'università perché ho buoni motivi per farlo. Ho partecipato ad un concorso letterario in cui potrei realizzare il sogno della mia vita. Se vincessi avrei la possibilità di fare della mia passione il mio lavoro senza che mio padre interferisca e credimi non è poco. So che questo potrebbe non succedere ma sento di avere qualche chance e se non è così almeno ci ho provato. Poi ho perso qualche esame, non è la fine del mondo!" Lui rimase in silenzio, affascinato dalla ragazza di fronte a lui. "Contento? Ti ho raccontato la mia storia strappalacrime. Ora vado a cercare qualcosa da mangiare." Si avvicinò al tavolo dell'aperitivo e mentre si metteva nel piatto qualche tartina, Lorenzo cominciò a parlare. "Ti va di uscire con me stasera? Io e degli amici andiamo in discoteca." "Le attività di gruppo non fanno per me. E poi non so ballare." "Non è quello che mi ha detto tuo padre. Sei diplomata in danza classica." Lo guardò sconvolta. "E da quando tu e mio padre parlate di me?" "Abbiamo parlato poco fa, prima che tu arrivassi. Sai, crede che dovremmo passare più tempo insieme. Pensa che io possa avere una buona influenza su di te." disse divertito. "Una buona influenza? Quindi tu saresti una sorta di missionario che per pura nobiltà del suo cuore vuole salvarmi dal baratro della sregolatezza? Credevo che la sindrome della crocerossina fosse da donna." "Falla tu allora, la crocerossina." "Tesoro, hai proprio ragione, per come te la cavi a letto la missionaria dovrei farla io." Poi se ne andò via indifferente, come se non avesse appena vinto la disputa. La folla di invitati sorrideva garbatamente, discuteva in modo civile e lei si sentiva un pesce fuor d'acqua in quello spettacolo. "Cosa ci faccio in mezzo a tutta questa gente? Voglio stare qui o ci sono perché sento di doverci essere? Me ne sto qui a comportami come loro ma io non sono come loro. Perché sono ancora qui? Meglio andare." Dopo aver liquidato scortesemente un amico di suo padre e la nuova terza moglie, se ne andò velocemente dalla festa. Il buon viso a cattivo gioco non faceva per lei.

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