Novembre 14, 2016 ore 14:53
Il cellulare squillò molte volte prima che una vocina fastidiosa si insidiasse nella testa di Armida per ricordarle di alzarsi. La sbronza non le era ancora passata e si sentiva troppo confusa per ricordare dove si trovasse e dove stesse dormendo. Quando si alzò in biancheria intima nel letto di un perfetto sconosciuto, erano quasi le tre del pomeriggio. Era in ritardo. "Cazzo" disse sottovoce guardando le chiamate perse. Spostò lentamente e con la massima cautela le braccia e le gambe del ragazzo che sembravano avvolgerla e stringerla come tentacoli. Le mani le tremavano, sembravano gelatina, e il cuore vibrava forte come un impianto stereo. Non voleva assolutamente svegliare il ragazzo, una bella seccatura che preferiva evitare. Armida era fatta così. Giocava ad identificarsi con i personaggi dei romanzi e immaginare la sua vita nei loro panni. Un pomeriggio era Slim, il cowboy solitario e malinconico del celebre romanzo di Steinbeck "Uomini e topi", una sera il sognatore de"Le notti bianche" e la mattina mille altri personaggi di cui immaginava le avventure durante i corsi dell'università. A volte era anche persone comuni: una veterinaria, una soldatessa in Iraq, una scrittrice. L'ultima però non era una semplice fantasia, era il suo sogno. Tuttavia, mentre tutte queste Armide immaginarie avevano il permesso di innamorarsi, lei non lo dava mai a se stessa. Nessuna possibilità per nessuno. Non voleva e non si aspettava niente: nessun grande amore, nessuna famiglia, nessun progetto futuro che andasse oltre il domani e dopodomani.C'era solo il presente e in quel presente c'era solo lei. Sua madre glielo ripeteva sempre: "Non aspettarti mai niente da nessuno e non rimarrai delusa." Vero, maledettamente vero. E, senza saperlo, era diventata esattamente come lei, come la donna che aveva giurato di odiare per sempre. Ma per sempre è una parola troppo lunga sia per amare che per odiare.
Si aggirava in punta di piedi nell'enorme casa sconosciuta, sollevando i talloni e tirando il collo del piede al massimo proprio come aveva imparato a scuola di danza. Lo spazioso appartamento le sembrava ancora più grande. Le mura erano dipinte alla perfezione, color tortora come vuole la tendenza, e mettevano in risalto il pregiato arredamento moderno in legno: le ampie finestre, la libreria. Tutto in ordine. Ma che carino! pensò prendendolo in giro. Quella sorta di perfezione di abbinamenti le dava quasi fastidio. Guardando il divano però sentì qualcosa di strano, come un Déjà vu. Fissò almeno un paio di secondi il divano e i cuscini in tinte autunnali. Ad un tratto tutta la casa le sembrò familiare ma pensò si trattasse dell'alcool che, a distanza di ore, ancora giocava brutti scherzi. Aprì poi la porta del bagno e alcune delle sue cose erano lì. Poi trovò le scarpe con il tacco e quasi le venne da ridere a trovarne una sotto il divano e l'altra nel lavello, perfettamente lucido e vuoto. Cominciò a rivestirsi: jeans, borsa, cappotto. Ma che diavolo ho combinato stanotte! C'era tutto tranne la camicetta. La cercò ovunque: vicino il divano in pelle, nel bagno, in cucina, ma niente. "Stai cercando questa?" le chiese il ragazzo con un sorriso malizioso. Il suo sguardo penetrante si posò su di lui. Non sapeva neanche il suo nome o almeno non se lo ricordava. Era in piedi di fronte a lei, appoggiato con una spalla al muro, con l'aspetto di uno che sta ancora un po' dormendo. "Si." rispose prendendo velocemente la camicetta e senza più guardarlo negli occhi blu. La indossò il più velocemente possibile mentre il ragazzo continuava a lanciarle occhiate per valutare la sua reazione. Lei era ferrea, irremovibile, non trapelava alcuna emozione. Non sapeva che dentro avesse una tempesta. Ai suoi occhi apparve come la dea Artemide intenta a rivestirsi e lui come Atteone, povero mortale che può solo spiarla e che da un momento all'altro lei avrebbe tramutato in un cervo e fatto sbranare dai suoi cani. Nessuna donna l'aveva mai fatto sentire così. Armida era solo una ragazza, un po' più piccola di lui, ma qualsiasi adulto davanti a lei si sarebbe sentito un bambino e qualsiasi bambino un adulto. "Vai di fretta? Possiamo fare colazione." disse con aspettativa. "Sono in ritardo, devo andare." "È già la seconda volta che mi dai buca in questo modo." La seconda volta! Armida non ricordava nessun'altra volta. Lo guardò con aria interrogativa. "Non te lo ricordi vero?" disse lui ferito nell'orgoglio. Questo, anche se non voleva ammetterlo, la faceva sentire un po' in colpa. Non aveva la più pallida idea di cosa dire. Meglio evitare situazioni imbarazzanti. "Ora devo proprio andare." "Aspetta, ti do il mio numero nel caso cambiassi idea." Il ragazzo le scrisse il numero su un tovagliolo e lei se lo mise in borsa, convinta di buttarlo al primo cestino. Poi salutò e andò via senza voltarsi. Mentre camminava cominciò a ricordare. Si erano incontrati la sera prima al bar, dove di solito beve qualcosa. Ricordava perfettamente di averlo adocchiato appena entrata: alto, capelli castano chiaro, sorriso intrigante, proprio il suo tipo. Ma non fece la prima mossa, non la faceva mai. Lei giocava al suo gioco con le sue regole e non accettava compromessi. Niente amore (una parola che dormiva nella sua memoria), niente sentimenti, nessun impegno. Roba troppo fragile per non rompersi. E poi l'amore era sopravvalutato. Non che ne sapesse molto ma, a parer suo, quello che tutti definivano come motore del mondo e della vita era in realtà una grandissima fregatura: una copertura politicamente corretta per soldi, sesso, guerra. Il vero amore era semplicemente una persona compatibile, niente di più. Aveva da tempo imparato che quando qualcosa è troppo bella per essere vera, semplicemente non è vera. Ecco perché le bastava bere con qualcuno e poi passarci la notte. Era ciò che voleva e di quello che pensavano gli altri non poteva fregargliene meno. Le donne erano solo invidiose e gli uomini, come la volpe con l'uva, criticavano ciò a cui non potevano arrivare. Era consapevole di essere molto bella ma non aveva mai capito fino a che punto. A piacere piaceva molto: a soli diciannove anni attirava gli uomini come il pifferaio magico i topi. Possedeva il classico tipo di bellezza dell'est che piace a tutti: bionda, gambe lunghe, viso armonioso ma dai tratti decisi, magra e al contempo formosa, occhi del lupo, come quelli di chi è in lotta con se stesso e col mondo,non freddi ma agghiaccianti come vuole il loro colore. Tutta sua madre, in particolare gli occhi: ghiaccio. In qualsiasi bar andasse, trovava sempre qualcuno disposto ad offrirle da bere. Se accettasse o meno, questo dipendeva dal suo umore. Quella sera aveva accettato. Quel ragazzo lì chissà perché le piaceva. Entrambi erano al primo anno di medicina e si erano già visti durante le lezioni. Ma Armida, dopo appena un mese di corso, aveva deciso di prendersi un periodo di pausa per capire quale fosse la sua strada. In fondo senza perdere tempo non si arriva da nessuna parte. Si sa che sono i periodi di vacanza quelli in cui si impara di più.
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Lupo solitario
RomanceArmida è un punto interrogativo. E' ricca ma odia i ricchi. Il suo sogno è diventare una scrittrice ma si è iscritta a medicina. Ama l'idea dell'amore ma non sa cosa voglia dire. Porta le cicatrici di un passato difficile pieno di regali e di assenz...