39. HOLMES CHAPEL

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Louis 

"Ogni uomo vive nella propria testa."
Era stato Zayn a dirlo, in uno di quei momenti in cui lui con la testa proprio non ci stava, sdraiato sull'erba tagliata di fresco del campetto da calcio sul retro della scuola. 
Io avevo sbuffato, mi ero fatto un altro tiro e "Lo dici perché adesso, nella tua testa, staiviaggiando?" avevo chiesto, fissando il cielo che man mano si scuriva sulle nostre teste. 
Zayn aveva ridacchiato per poi "Può darsi" sospirare languido, le pupille dilatate, la bocca impastata dal fumo. "Ma non è forse vero che qualsiasi cosa facciamo, qualsiasi sentimento proviamo, nasce e muore qui dentro?"
Mi aveva dato una manata sulla fronte, per poi rotolare lontano da me, temendo una qualche ripicca. 
Io mi ero limitato a gettare il filtrino, guardarlo storto e sospirare. 
"Domani non ricorderai niente di queste tue affermazioni filosofiche."
"E non ricorderemo neanche quanto questo prato sia fresco, quanto belle siano le stelle e soffice il rumore dei nostri respiri" aveva sospirato, si era voltato a guardarmi. "Domani tutto questo tornerà ad essere troppo reale e schifosamente banale. Ma adesso, nella nostra testa, non c'è niente di più magnifico."
Gli avevo dato ragione, in quel momento, ripromettendomi di apprezzare l'indomani il cielo, la terra, o il solo fatto di essere vivo, perché con sommo stupore mi accorgevo che niente potesse essere più bello ed importante. 
Eppure il giorno dopo, mi ero ritrovato ad odiare come sempre lo stesso mondo che la sera prima avevo contemplato estasiato. 
All'esterno, niente era cambiato. Qualcosa era scattato, ma solo nella mia testa. 
Ed è giusto che sia così alla fine, che non esista una realtà oggettiva, una verità che può essere definita tale, un mondo che appare a tutti uguale e mortalmente scontato. 
E' giusto vagliare ogni cosa o persona, setacciare ogni evento passato e futuro secondo il proprio pensiero, rivivendolo e sezionandolo all'infinito, per dare un giudizio e partorire un'idea che sia solo nostra. 
Sì, è giusto, fintanto che quest'idea resti tale e non venga intaccata dall'immaginazione. 
Era questo, secondo me, il punto cruciale del discorso di Zayn, quello che non era riuscito a raggiungere perché, dopo aver riso delle sue stesse parole, si era proteso per baciarmi. 
Oltre soggettivo ed oggettivo, oltre opinioni diverse e idee razionali, ci son quelle che Leopardi definiva "dolci illusioni", meglio conosciute come "film mentali", per usare un termine corrente. 
L'immaginazione si siede al tavolo, dispone le carte, e a noi non resta altro da fare se non giocare, creare le combinazioni più assurde, i castelli più instabili, i sogni più improponibili, per sfuggire a quella vita che ci ha pugnalato alle spalle. 

Io avevo tirato via quel pugnale arrivando a Chicago, ma la ferita lasciata aveva continuato a sanguinare, ad imbrattare ogni mio pensiero. L'unico modo che avevo per arrestare il flusso copioso di sangue, era rifugiarmi in un mondo in cui quella coltellata non era mai stata inferta. 
Allora avevo davvero iniziato a vivere nella mia testa, a sospirare tra i ricordi di Harry, ad immaginarmi giorno e notte tra le sue braccia, a sognare la sua voce pronunciare il mio nome, prima che sorridesse e mi baciasse. 
A volte lavorare al bar era così pesante, fingere falsi sorrisi così sfiancante, anche solo parlare senza scoppiare in lacrime così fottutamente difficile, che arrivato a fine giornata non aspettavo altro che chiudere gli occhi e crearmi una vita con lui, sprangando fuori tutto il resto. 
Vita che desiderio e dovizia di particolari rendevano infinitamente più vera di quella reale. 
Avevo rincontrato Harry a Chicago, a Londra, Lancaster, Holmes Chapel. Gli avevo chiesto scusa e lui mia aveva baciato, dolcemente o ferocemente, felice o disperato, piangendo o sorridendo come un bambino. Avevamo fatto l'amore ovunque, per un tempo troppo lungo o troppo breve, avevamo vissuto non una ma un'infinità di vite, ci eravamo persi un milione di volte per poi ritrovarci più innamorati di prima. 
Ma solo nella mia testa. 
Era quando il mondo esterno bussava alla mia porta, risvegliandomi, che arrivava la nausea.

Ecco perché fu quella la prima sensazione che provai, quando le labbra di Harry si ritrovarono premute sulle mie, quella mattina d'ottobre. 
Una stretta allo stomaco, un nodo alla gola, un leggero capogiro e il respiro intrappolato tra le labbra. 
Durò poco, davvero poco, il tempo necessario perché il mio corpo riconoscesse quel contatto come vero, che lo stomaco si sciogliesse in preda a capriole di giubilo, che la gola si aprisse in un gemito soddisfatto e il respiro riprendesse a scorrere dalla mia alla sua bocca. 
Ma anche il bacio, come la mia momentanea incapacità di capire ciò che stava accadendo, durò poco. Troppo poco. 
Harry si allontanò appena, occhi sgranati, respiro irregolare, le mani a scivolare sul mio petto. 
Le afferrai prima che la leggera pressione dei suoi palmi si trasformasse in una spinta.
"Se questo è il tuo modo di cacciarmi" sussurrai, riprendendo quel discorso che entrambi avevamo già dimenticato, "non sei affatto convincente."
Sbatté le palpebre una, due, tre volte, velocissimo, confuso, combattuto, eccitato. 
"Forse prima di farlo voglio essere meno ipocrita e fottutamente egoista."
Sorrisi nel riconoscere le mie parole sapientemente ribaltate prima di "Ma questo vorrebbe dire accontentarmi" fargli notare, accostandomi cautamente al suo corpo. 
"Ed anche illuderti" sbuffò, la spinta che prima avevo evitato arrivò, finii lontano da lui, la schiena contro il muro, gli arti paralizzati. "Ma se per te non è un problema."
Qualcosa nei suoi occhi cambiò. 
Aveva preso una decisione. 
E meno di due secondi dopo, scoprii con gran piacere che prevedeva il suo corpo schiacciato sul mio, le mani aggrappate al mio collo e la sua lingua ficcata in gola. 
E se il primo bacio era stato dato con lasciva arrendevolezza, con triste rassegnazione, quasi fosse un addio mai pronunciato, lo stesso non si sarebbe potuto dire del secondo. Perché dai movimenti frenetici delle sue labbra, dalla voracità con cui la sua lingua cercava la mia, dagli ansiti sconnessi che si perdevano nella mia bocca, trasudava solo puro e feroce desiderio. 
La nausea stavolta non si presentò, sostituita da un calore che dall'inguine si andò propagando fino alle braccia con cui mi stringevo il suo corpo addosso, dalla punta delle dita affondate nella schiena ossuta, alle gambe intrecciate con le sue.
Mugolai, quando si staccò per riprendere fiato. 
"Non è affatto un problema" ebbi appena il tempo di gracchiare, prima che si accanisse di nuovo sulla mia bocca, le mani che incontrollate scattavano dal mio petto alla mia schiena, dal collo al ventre caldissimo, fino ad infilarsi sotto la maglietta sottile di cui mi liberò in fretta. 
"Se ancora ti amassi come dici" ansimò, piegandosi per imprimere i denti sulla spalla ormai scoperta, "non lo farei."
Risi, non potei farne a meno, mentre gli facevo scivolare la camicia oltre le braccia, beandomi finalmente del calore della sua pelle.
"Fare sesso con me, intendi? Devo forse ricordarti come tutto è iniziato tra noi?"
Anche Harry si concesse un sorriso allora, grondante di malsana soddisfazione, distorto da una voglia cupa e perversa, la stessa che adombrava ora i suoi occhi, come una macchia d'inchiostro che risulta crudelmente attraente a contrasto con la perfezione del foglio bianco che va ad imbrattare. 
"Sì, voglio che me lo ricordi, Loulou."

A Kind Of Brothers? (AKOB?) by NowKissMeYouFoolDove le storie prendono vita. Scoprilo ora