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Sono passati due giorni dalla visita di Candice, ma non ho avuto ancora il coraggio di chiamare Ethan.
Due giorni che fisso il cellulare, so che prima o poi devi farlo, ma non è così facile.
Mi ripeto che devo farlo per Candice, non per me. Che lo devo chiamare per aiutarlo, non per la nostra storia, se ancora così si può chiamare.
Odio essere in bilico, o si o no.
A questo punto, avrei preferito anche un messaggio dove diceva di avermi tradito. Tanto non sarebbe la prima volta.
Due giorni fa ho mangiato, ma ieri no, non era giornata.
I miei mi hanno chiamato per dirmi che non riuscivano a passare, mia sorella studiava per due interrogazioni e io mi sentivo sola.
Non pretendo di essere al centro dei loro pensieri, ma,cavolo, sono in ospedale!
Con Phoebe ci siamo scambiati qualche messaggio, niente di più, anche lei è impegnata con la scuola, mentre Jenna è sparita.
Non un messaggio o una chiamata, neanche un saluto tramite Phoebe. Lei e Eireen non me ne parlano mai, ma so che fra di loro qualcosa dicono. Esisto anche io diamine, non sono morta, potrebbero dirmi benissimo ciò che dice o fa, quella che io consideravo la mia migliore amica.

A pranzo ho mangiato una mela e una fetta di pane, il dottore Bell si è arrabbiato ha detto che di questo passo non vado avanti, ma non posso farci nulla, credo che io gli ricordi sua sorella.
Ormai vivo, anzi sopravvivo, giorno per giorno.
Una mattina mi alzo e sto bene, mangio tutto, rido e scherzo, la mattina dopo l'unica cosa che vorrei fare è stare fra le braccia di Ethan, accovacciata al suo petto mentre mi carezza i capelli.
Sono così patetica.

Ho bisogno di prendere una boccata d'aria, aria vera non quella che sa di disinfettante.
Per fortuna c'è un grande parco intorno all'ospedale, dove noi pazienti possiamo passeggiare.
Scendo dal letto e infilo le Converse, poi prendo il telefono con gli auricolari ed esco.

In ascensore incontro una donna, tiene per mano un bambino che, a occhio e croce, avrà tre o forse quattro anni. La donna piange ininterrottamente, singhiozza cercando di asciugarsi le lacrime con la mano libera.
«È triste, perché mia sorella sta male..» il bambino si rivolge a me, mi guarda con gli occhioni color nocciola così tristi, troppo per un bambino della sua età..
I capelli rossi scompigliati, e forse un po' troppo lunghi, gli ricadono sulle guance magre e punzecchiate da lentiggini, gli sorrido, incapace di rispondere.
Cosa si dice ha un bambino di tre anni  in queste situazioni?
Mi rivolge un sorriso triste, da dove spuntano due fossette, prima che la madre lo prenda in braccio per uscire dall'ascensore.
Li guardo allontanarsi a passo rapido dalla parte opposta alla mia e cammino verso la porta scorrevole che si apre al mio passaggio.

Faccio un lungo respiro, inalando l'odore di erba tagliata, alberi e natura. Intraprendo un viale di terra in un piccolo bosco che porta ad un giardino con panchine ed ulivi.
Per certi versi quel bambino in ascensore mi ricorda Candice, per altri Ethan. Così piccolo, ma già così immerso nel mondo degli squali.

Mi piace questo posto, è l'unico luogo che non sa di ospedale e chi si avvicina di più all'odore di casa. Casa mia, in Italia.
Lì, nonostante del mio quartiere, avevo grandi parchi, boschi intorno e alberi per le strade.

Oggi devo chiamare Ethan, per forza, non posso non farlo per Candice.
Era distrutta e l'ultimo barlume di speranza lo riserva in me.
Continuo a camminare per il boschetto pensando a quando sarebbe facile, se Ethan non fosse scappato da me.
E io che ancora lo aspettavo, o lo aspetto.
Esco dal viale e mi siedo vicino ad un ulivo, su una panchina fredda che, a contatto con il tessuto troppo leggero del mio pigiama, mi fa venire la pelle d'oca.
Tiro fuori il telefono dalla tasca e apro la rubrica, resto a fissare il contatto di Ethan in cerca di qualcosa da dire, come cominciare il discorso..

«Aspetti una telefonata?» alzo di soprassalto la testa dal telefono, una ragazza, che sono certa di aver evitato a lezione, è davanti a me.
Me la ricordo specialmente per i lunghi capelli rossi che superano l'altezza del sedere.
«Mh no.» rispondo.
«Scusa il disturbo.. ti ho vista da sola  un paio di volte a scuola e.. beh ho pensato di fare amicizia.. dato che anche io solo sola..» ecco. Cosa avevo detto? Che non volevo conoscere nessuno qui dentro?
Non rispondo, ma devio la risposta.
«Come mai sei in ospedale?» chiedo.
«Un tumore alle ovaie, quarto stadio.» risponde.
«Oh..ma quelli con in cancro non dovrebbero...» mi fermo prima di finire la frase. Stavo per dire "non dovrebbero avere capelli corti o non averne?", non volevo ferirla è che non me ne sono resa conto.
Lei sorride.
«Essere calvi? Tranquilla non me la prendo.» risponde sorridendo, poi mette una mano fra i capelli e se li carezza. Quando tira fuori la mano una ciocca di capelli rossi è nella sua mano.
«Ho cominciato la chemio da una settimana, ce ne siamo accorti tardi e ormai devono operarmi..per toglierle..» oh Dio. È proprio per questo che non volevo legarmi a nessuno.
Ci sono così tanti casi come questo in ospedale, che la mia malattia a confronto è ridicola.
«Oh mi dispiace così tanto..»
«Dovevi fare una telefonata?» devia il discorso.
«Sì, al mio ragazzo o ex ragazzo, cosa ancora da definire..»rispondo.
«Vai chiama, scusa se ti ho interrotto.»
Si siede vicino a me e rimane in silenzio mentre avvio la chiamata a Ethan.
Quattro squilli, poi qualcuno risponde, ma non è Ethan.
«Tu sei Abigail, ho visto il nome salvato. Mi ha parlato di te, ma ora dorme, ti faccio richiamare quando si sveglia.»
«Va bene..» rispondo con voce tremante e il cuore a mille.
«Perfetto, ciao.» e chiude la telefonata.
Ha parlato di me.

Portami Via [IN REVISIONE]Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora