Six

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6.
Waiting

Non sono sicuro del perché odio i treni. Da piccolo lo prendevo abbastanza spesso, il treno, per andare a trovare mia nonna che stava nel Washington. Ci passavamo le giornate su quei cazzo di treni, quando andavamo a trovare la nonna, perche papà aveva paura di volare. Poi quando avevo tredici anni mia nonna è morta di cancro, e ho smesso di prenderlo. Forse è stato per quello che ho cominciato a odiarli: perché quando ero un marmocchio non capivo la morte. Pensavo fosse solo una cosa lontana, che capitava agli altri... come tutti i bambini, credo: la morte è una cosa da grandi e tu, da piccolo, sei convinto di essere fottutamente immortale o chissà che altro. Non lo sai che prima o poi morirai anche tu, e se lo sai o non lo capisci o non ci credi. Non lo sai che anche i bambini muoiono.
Quando é morta mia nonna probabilmente è stata la prima volta in cui la morte l'ho capita sul serio e mi ricordo che eravamo in treno, mio padre, mia sorella e io, quando me ne sono reso conto. Era uno di quei treni interurbani lenti come la fame, ma non di quelli belli, perché quelli belli non potevamo permetterceli: viaggiavamo in seconda classe e mi ricordo che il sedile era di spugna blu consumata da morire e che aveva una macchia di caffè sulla seduta... o almeno spero che fosse caffè.
Era dicembre e ci si gelava il culo in quel maledetto vagone e io avevo i capelli troppo lunghi perché era una vita che non andavo da un barbiere e continuavo a soffiarmeli via dagli occhi perché mi davano un fastidio assurdo. Mia madre non c'era: era rimasta a Los Angeles perché aveva l'influenza, o almeno così diceva lei. La verità è che non ci era mai andata d'accordo con la nonna, perché mia nonna aveva sempre pensato che mio padre meritasse qualcosa di meglio di una commessa di un discount.
Dopo quello non ho più preso il treno per anni, perché in pratica andare nel Washington a trovare la nonna era l'unico motivo per cui ogni tanto ci muovevamo da Los Angeles.
Essere su un treno per tornare a Los Angeles... be', non credevo che l'avrei mai fatto. Credevo che sarei morto prima, e invece eccomi qui, su un fottuto treno che va a casa. Sempre che io possa ancora chiamare quella stupida città enorme "casa".
Sono seduto in mezzo tra Alice e Matt, e Alice mi sta dormendo addosso, mentre Matt fissa il vuoto davanti a lui. Spero che non stia ancora pensando al modo in cui sono scappato questa notte: mi sento un po' uno schifo per averlo mollato da solo in mezzo al parco, ma non potevo restare là a deprimermi come un coglione. Non avevo neanche una sigaretta, tra l'altro, e non ne avrei mai chiesta un'altra a lui neanche sotto condanna di morte, e quella non era una cosa che potevo affrontare senza nicotina.
Ho mal di testa: anzi, peggio, la testa mi sta uccidendo. Non dormire e bere non sono state grandi idee.
Credo siano più o meno le sette adesso, e ormai siamo vicini: lo skyline di Los Angeles si delinea come una serie di picchi scuri contro il rosa aranciato dell'alba e io vorrei solo star andando in un qualunque altro posto.
Ma oggi si va in scena e non so neanche cosa sperare: da una parte questo stupido provino non vorrei nemmeno farlo perché l'idea mi terrorizza e dall'altra voglio davvero riuscire a passare e a partecipare a quella stupidissima Battaglia delle Band. Perché sarà l'ultima cosa, e poi sarò libero di togliermi dalla faccia della terra... e non è che sia sensato, ma ormai è diventato come uno di quei giochi stupidi che facevo da piccolo: l'ultimo capitolo di Harry Potter e poi vado a letto. L'ultimo episodio di Supernatural e poi faccio i compiti. Gli ultimi due paragrafi di letteratura e poi esco.
Ora sarà l'ultima grande impresa e poi morirò. Fine.
-Sei nervoso?-
Mi giro verso Matt, ma lui non mi sta guardando. Continua a guardarsi avanti e basta. Magari soffre il mal di treno.
-Un po'.- ammetto. Ma è una cazzata: sono fottutamente nervoso, altro che un po'.
-Hai detto che tu vieni da Los Angeles.-
-Sì.-
-Almeno non rischieremo di perderci.-
-Non ci conterei. Sono anni che non ci torno.-
-Perché?-
-È una lunga storia.-
Non chiede perché sia una lunga storia, e se fossi un po' meno una persona di merda lo ringrazierei per questo.
Scendere è abbastanza penoso per me, anche se non siamo nelle vicinanze di casa mia e nemmeno nel mio quartiere.
Alice, al contrario, è gasata come una bambina a Natale: salta in giro come se non si stesse portando dietro una custodia con dentro una tastiera che pesa un quintale e ha un sorriso che le va da un orecchio all'altro. Porta persino una felpa rossa. Matt sembra vagamente agitato, ma non quanto lo sembrava ieri. Magari si è preso un calmante, chi lo sa.
Io vorrei solo avere una sigaretta, ma Alice mi ha proibito di fumare fino a provino fatto e adesso probabilmente mi verrà un cazzo di attacco di panico perché questa fottuta stazione è strapiena di gente e tutta la fottuta Los Angeles è strapiena di gente e... ok. Non ci devo pensare. Posso farcela.
Mi sistemo meglio la tracolla dell'altra tastiera di Alice sulla spalla e comincio a seguirla, cercando di non guardare in faccia nessuno. Chissà perché le servono due tastiere, poi. Fun fact: di come si fa musica, io non capisco assolutamente un cazzo. Canto abbastanza decentemente e sono stato nei Broken Lies praticamente per tutto il liceo, ma non ci ho mai capito nulla. Non che ci abbia mai provato, in ogni caso. Chissà se e i Broken Lies esistono ancora...
Salta fuori che lo studio di registrazione in cui fanno i provini è parecchio distante dalla stazione: ci tocca cambiare quattro linee di metro e farci quasi un'ora a piedi per arrivarci e per tutto il tempo non faccio altro che guardarmi attorno sull'orlo di un trauma e notare con una certa sofferenza che Los Angeles non cambia mai. Qualche edificio è stato tirato giù e qualcos'altro è stato costruito, ma il sole e il cielo blu sono sempre uguali e la gente per strada è sempre uguale e... insomma alla fine ci ritroviamo davanti a una vecchia porta insonorizzata con appiccicato sopra svariati volantini della Battaglia delle Band non troppo distante da casa mia e mi guardo le spalle come un paranoico pregando di non vedere nessuno che conosco. O che nessuno che mi conosce mi veda... quello sarebbe anche peggio, se nel peggio ci fosse un peggio.
-Hey Myles!- esclama Alice dopo essersi guardata attorno -Se finiamo presto potremmo andare a trovare tua madre.-
-Ah ah...- borbotto -O magari no.-
Per un paio di secondi mi viene da chiedermi come cazzo faccia a sapere che mia madre vive da queste parti, ma poi decido che non lo voglio sapere.
-Questo posto apre alle dieci.- constata Matt -Manca ancora un'ora e mezza. Che facciamo?-
-Se non ricordo male dall'unica volta in cui sono stata da queste parti, c'é una tavola calda... da quella parte!-
E non ho il cuore di dirle che l'unica tavola che c'é da queste parti è esattamente nell'altra direzione... almeno perderemo un po' di tempo.
Dopo quella che sembra una vita, alla fine troviamo una gelateria e Alice decide che le va bene lo stesso e ci trascina dentro con gli strumenti a tracolla e tutto.
La tizia dietro il bancone nemmeno ci guarda. È parecchio alta per essere una ragazza. Più di Matt. Porta una gonna di pelle, un top nero e un paio di anfibi e nel complesso sembra venuta fuori dal lato dark di Tumblr. Vedo Alice che la scannerizza da capo a piedi e mi tocca darle una gomitata prima che la cosa diventi imbarazzante.
Lei incassa ridacchiando e poi ci costringe a prendere circa un quintale di gelato a testa con la scusa che io sono troppo magro e che Matt... be', Matt non ha bisogno di farsi convincere: a quanto pare a lui il gelato piace. Così usciamo dalla gelateria con i nostri coni da un quintale e torniamo verso lo studio di registrazione. La fregatura con il gelato è che non è che puoi prenderlo per far contenta Alice e poi ficcarlo in un cestino della spazzatura appena lei si distrae: il gelato si scioglie cazzo, quindi ti tocca mangiarlo. Per forza.
Così finisce che io mangiucchio distrattamente il gelato mentre Alice e Matt chiacchierano del più e del meno. Stiamo sbagliando strada di nuovo, ma non ho voglia di parlare e mi limito ad andare nella direzione giusta e sperare che se ne accorgano. Non sono sicuro di come riusciamo a tornare davanti allo studio ancora vivi, interi e puntuali verso le dieci. So solo che in qualche modo ci siamo riusciti e che tanto mi basta.
La porta è ancora chiusa e ci sono altri due gruppi qui davanti. Uno è un quartetto di tizi con la mezza età precoce che sembrano pericolosamente bikers e l'altro è un duo di ragazze bionde con la custodia della chitarra a tracolla che si assomigliano abbastanza da poter essere gemelle. Alice le guarda per circa trenta secondi, poi decide che non sono il suo tipo e dichiara che una delle due mi sta fissando, il che mi porta a guardarle a mia volta: sembrano avere più o meno una ventina d'anni e di viso sono carine. Sorridono ed effettivamente una mi guarda come mi guarderebbe un'ape se avessi la testa ricoperta di miele. Sento le guance diventarmi rosse e distolgo lo sguardo. Los Angeles, cazzo. Odio Los Angeles.
Sto quasi per inventarmi una scusa e darmela a gambe quando la porta all'improvviso si apre e un uomo sulla quarantina fa capolino e ci sorride.
-Salve.- dice. Si è rivolto a tutti, ma ha ammiccato alle due bionde e considerando che avrà più o meno una ventina d'anni più di loro l'idea fa abbastanza schifo.
-Salve.- ribatte uno dei bikers -Sono qui i provini?-
Indossa un gilet di pelle. In luglio, cazzo.
-Sì, i provini sono qui. Accomodatevi pure in sala d'aspetto: vediamo di sbrigarcela in fretta.-
-Abbiamo pescato un altro pervertito.- borbotta una delle due bionde all'altra mentre entriamo in sala d'aspetto. L'altra annuisce con aria grave, ma non accennano ad andarsene perciò immagino ci siano abituate. E poi la gente mi da del pessimista quando dico che viviamo in una società di merda.
La sala d'aspetto in realtà è solo un rettangolo di cinque metri per quattro con i muri spogli dipinti di rosso e nero e un po' di panche da spogliatoio allineate lungo i lati. E una macchinetta del caffè annidata in un angolo, con una caraffa di caffè già fatto che mi chiama come il profumo di una torta in un cartone animato.
-Non ci pensare nemmeno.- mi avverte Alice -Sei già abbastanza nervoso di tuo.-
-Dai...- supplico -Solo una tazza.-
-Non se ne parla neanche.-
E così mi siedo su una delle panche e mi metto a tormentarmi le cuticole dei pollici con le dita, perché lo faccio sempre quando sono nervoso e a volte mi aiuta a calmarmi. Ma non oggi: 'sta volta non serve a un cazzo. Me ne resto qui, seduto come uno stoccafisso e il tempo non vuole saperne di passare. I primi a entrare sono i bikers, che a quanto pare fanno hard rock e si chiamano proprio Bikers. I minuti passano lenti, mi sembra di avere sempre meno aria. C'é un orologio appeso da qualche parte che continua a ticchettare e se non la smette giuro che prima o poi mi metto a sclerare. Più prima che poi, probabilmente.
Il mio problema con gli orologi nasce nei più lontani recessi della mia infanzia, perché, giustamente, io non sono mai stato un bambino normale: quando ero piccolo avevano convinto mia madre che fossi autistico o qualcosa del genere, quando in realtà non avevo niente. O almeno niente di patologico. Comunque, per farla breve, le mie prime parole le ho dette a quattro anni e mezzo.
Io non me lo ricordo, ma durante la mia adolescenza mia madre soleva raccontare che prima dei quattro anni il vicino, che una volta era stato un pediatra, ma che poi era stato radiato dall'albo, diceva che probabilmente ero, per l'appunto, autistico o ritardato o entrambi, perché non parlavo e non mostravo alcuna inclinazione al formare legami con altri esseri umani della mia o di altre età: per lo più me ne stavo seduto a fissare orologi. Non importava dove fosse o quanto in alto fosse o di che forma fosse: se c'era un cazzo di orologio nella stanza in cui ero, io mi sedevo, inclinavo la testa verso sinistra e lo fissavo, a volte per ore. Poi, un bel giorno di ottobre, dopo aver fissato l'orologio della mia cameretta per circa una vita, mi sono voltato verso mia madre, che stava ricamando qualcosa seduta sulla sedia nell'angolo, ho aspettato che alzasse lo sguardo e le ho detto Odio gli orologi, mamma. E quelle sono state le mie prime parole.
Ora non so se questa storia abbia un senso, a essere sinceri. Non so nemmeno se sia vera. Però effettivamente odio gli orologi: odio il ticchettio, e le lancette che si muovono e... li odio, punto. Mi mettono ansia. E io, come ho detto in precedenza, in realtà sono una specie di fobia con le gambe, quindi immaginate quando bene possano farmi gli orologi.
E questo continua a fare tic tac e io non posso non guardarlo ogni tre secondi e tra poco impazzirò.
Nel frattempo Alice e Matt si sono messi a chiacchierare con le due ragazze e una delle due (credo la stessa che mi stava fissando prima) è incollata a Matt e non sembra intenzionata a mollarlo. Gli tiene persino le mani, come se fossero due dame dell'Ottocento e lei gli stesse rivelando chissà quale sporco segreto.
Matt sembra un po' a disagio, ma credo che stia facendo del suo meglio per darle corda. Le sorride, risponde al suo chiacchierare e la lascia tenergli le mani, anche se ogni tanto sembra avere l'impulso di alzarsi e scappare.
Alice invece ha tirato fuori il suo lato da lesbica da guerra, anche se prima diceva che queste due non erano il suo tipo, e sta facendo una corte spietata all'altra ragazza. La bionda non mi pare troppo preoccupata, anzi, le risponde a tono... il che significa che probabilmente ci sarà un ultimo cuore infranto da aggiustare prima di andare. Yay.
I Bikers restano nella sala di registrazione per qualcosa come un quarto d'ora che a me pare una vita, e a un certo punto durante questa vita sento qualcuno chiedere Ma il vostro amico sta bene? ma non ci bado più di tanto: sono troppo impegnato a fissare l'orologio e pregare che si fermi.
Quando escono, i quattro tizi non sembrano troppo contenti.
Dopo di loro tocca alle ragazze: a quanto pare si chiamano Brenda e Deborah, il loro gruppo si chiama Firefly e fanno cover acustiche degli Evanescence.
E quindi ci troviamo noi tre, Alice, Matt e io, tutti soli nella sala d'aspetto.
-Tutto ok?- domanda Matt venendo a sedersi vicino a me.
L'orologio ticchetta. Il profumo di caffè mi sta facendo impazzire. Le pareti sono rosse e il rosso è un colore da ansia. Ho un po' di sangue sulle dita: credo di essermi distrutto i pollici.
-Odio gli orologi.- borbotto.
-Andrà alla grande, Myles. E prometto di non odiarti in caso andasse male.- dice Alice -Lo sai cosa ti serve adesso? Un bell'abbraccio!-
Mi si incolla addosso, stringendomi le braccia attorno alla pancia e ficcandomi il naso nello sterno.
-Dai Matt, il nostro gigante ha bisogno di coccole!- esclama contro la mia camicia.
Matt arrossisce un po', ma nel giro di qualche secondo mi sta abbracciando anche lui, e io mi sento un idiota stratosferico perché mi viene da piangere e vorrei tanto essere in qualunque altro posto con una sigaretta e una tazza di caffè o una lattina di Coca Cola alla vaniglia in mano. La vita fa schifo, ma a quanto pare almeno ho degli ottimi amici. E ho i capelli rosa di Matt praticamente in faccia e tra poco starnutirò, ma per adesso... be', chissenefrega.
Sono a tanto così dal tirare uno starnuto atomico, quando le ragazze escono dalla sala di registrazione. Ci hanno messo poco meno di dieci minuti, ma sono raggianti.
-Ci vediamo sul palco, Alice!- saluta Brenda con un sorriso che va da un orecchio all'altro.
-Contaci, bambola!-
Alice mi lascia andare e balza in piedi, mentre il tizio che prima ci ha aperto la porta fa di nuovo capolino, stavolta dalla sala di registrazione e ci fa cenno di entrare.
Matt rimane fermo un altro paio di secondi.
-Sei pronto?- chiede.
-Neanche morto.- ribatto.
Mi alzo e lancio un ultimo sguardo all'orologio, poi seguo i miei amici dentro la sala di registrazione, sospirando. Come diceva Sherlock?
Into the Battle.

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