Twenty three

80 13 2
                                    


23.
Starbucks

Sono giorni che non riesco a pensare. E voi ora probabilmente ridacchierete e penserete "Perchè, Myles, di solito pensi?".

Be', direi che il semplice fatto che io stia parlando con delle persone immaginarie al momento è una prova più che sufficiente.

Non è neanche vero che non riesco a pensare a niente. Non del tutto almeno. Non riesco a pensare a niente che non sia la morte o la sconvolgente mancanza di senso nella vita, nell'universo e in tutto quanto. In fondo come fai ad aspettarti che le cose abbiano senso, quando viviamo in una realtà che si può riassumere (male) in un macello di particelle minuscole che vibrano e si scontrano fottutamente a cazzo? Puoi solo aspettarti di passare la vita a sbattere a cazzo contro il resto del mondo e sperare che non faccia troppo male.

Potrei essere re di questo macello, se non fosse che faccio brutti sogni. E potrei fare brutti sogni, se non fosse che non riesco a dormire.

Negli ultimi quattro giorni credo di aver dormito in tutto una quindicina di ore. E riesco quasi a convincermi che sia per quello che mi trema la mano, quando busso alla porta di mia madre.

È quasi preoccupante che la casa, dopo tutti questi anni, mi rispecchi così tanto: la vernice sui muri è scrostata e il giardino è un disastro, e se non ce l'avessi già di mio, la fottuta depressione, mi verrebbe adesso guardando casa di mia madre. Casa mia.

Non è più casa mia da un secolo, okay, ma dettagli... ci sono cresciuto qui: almeno, questa era casa mia.

Sono le sette del mattino, e sono in condizioni pietose, e spero davvero che mia madre sia sveglia, perché se non mi apre adesso dubito che avrò mai più il coraggio di venire qui. Non so nemmeno se ce l'ho adesso, il coraggio, ma a questo punto che senso ha cagarmi in mano? Ho passato tutta la vita ad avere paura di tutto... ma a questo punto non è rimasto niente che possa farmi più male di quanto me ne farò io.

Tanto questa storia di merda finirà per forza, in un modo o nell'altro. Che senso ha avere paura?

Quando Alice ha cominciato a parlare di venire a Los Angeles, ho promesso a me stesso che sarei stato lontano da mia madre: pensavo che sarebbe stato crudele presentarmi alla sua porta dopo sei anni di vuoto una settimana prima di levarmi dai coglioni una volta per tutte... ma che cazzo, avevo diciannove anni l'ultima volta che l'ho vista. Ero cinque centimetri più basso e pesavo una cinque chili in più, e... Cristo, non mi ricordo nemmeno cos'è stata l'ultima cosa che le ho detto. Non le ho spiegato niente, non l'ho salutata e non le ho dato un bacio prima di andare. Sono sparito e basta.

Non voglio nemmeno pensare a come dev'essersi sentita. Mio padre era morto da un anno o poco più, e all'improvviso, dal niente, ha perso anche me. E senza neanche poter avere una tomba su cui piangere.

E ora eccomi qui, davanti alla sua porta: uno spaventapasseri alto quasi due metri, con i capelli ridotti a un cespuglio e la faccia sporca di pianto e di eyeliner.

Alle sette del mattino di un giovedì mattina d'estate di credo fine luglio.

Quando mi apre credo che ci metta un po' a riconoscermi.

All'inizio, nei suoi occhi grigi non c'è che confusione e smarrimento, poi, pian piano, comincia a farsi strada l'incredulità, e alla fine le lacrime.

Non dice una parola, non si muove di un centimetro: si nasconde il viso tra le mani e rimane ferma sulla soglia a piangere.

Ha i capelli grigi.

Era bionda, quando me ne sono andato, e di grigio aveva solo un paio di striature sulle tempie. Prima che morisse papà, non aveva nemmeno quelle.

Porta gli occhiali, ed è strano perché ci ha sempre visto poco, ma non l'ha mai ammesso.

One More LightDove le storie prendono vita. Scoprilo ora