4° capitolo

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THOMAS

Ripercorrendo con il nostro cliente tutto ciò che aveva il giorno dell'omicidio, cercammo di analizzare le prove. Il tempo passò velocemente e, senza rendercene conto, si fece l'ora di pranzo. Salutammo il cliente, dandoci appuntamento al giorno dopo, e con Jennifer andai a mangiare in un piccolo ristorante lì vicino.
«Posso esservi d'aiuto?», chiese il maître.
«Un tavolo per due, se possibile», risposi.
«Certo. Seguitemi»
Il maître ci fece strada e ci portò a un tavolo vicino a una finestra. Aiutai Jennifer a sedersi ed ordinammo. Dopo un po' arrivarono i nostri piatti.
«Avevo proprio fame», disse Jennifer ridendo.
«Già anch'io», dissi ridendo anch'io.
Mentre mangiavamo scambiammo qualche chiacchiera.
«Su raccontami un po' di te», le dissi.
«Su di me? Ma non c'è niente da raccontare»
«Non devi dirmi tutta la storia della tua famiglia, ma solo qualcosa su di te», le dissi sorridendo.
«Be' come vi avrà detto... »
«Jennifer, ricordi?! Abbiamo deciso di darci del tu quando siamo solo noi», le feci notare.
«Hai ragione. Dicevo… Come ti avrà detto Hayley, sono di Chicago. I miei vivono ancora lì, mentre io mi sono trasferita a Los Angeles. Vivo in un piccolo appartamento in centro. Ho un fratello più grande di me che lavora come cuoco»
«Wow un fratello come cuoco!! Scommetto che ti farai preparare qualcosa da lui»
«Non sempre... Lo fa solo quando lo vado a trovare», rispose sorridendo.
«Raccontami di voi due… che tipo di rapporto avete? », domandai curioso.
«Lui vive e lavora a Malibù. È grazie a lui se i miei hanno accettato il fatto che mi trasferissi da sola a Los Angeles. Ho un buon rapporto con lui. Anche se ci capita di litigare, a volte per delle stupidaggini, ci vogliamo un mondo di bene. Sin da bambina, mi proteggeva da tutti i bambini che volevano darmi fastidio. Era una specie di bodyguard», rise a quest'ultima frase.
«Vivi da sola qui a LA?», domandai.
«Non proprio», rispose.
«Cioè?»
«Ho la mia "guardia personale"», rise.
«Ah capisco. Il tuo ragazzo... »
Era logico che vivesse con il suo ragazzo. Era una bella ragazza ed era normale che fosse occupata. Senza motivo mi sentii un po' triste.
"Thomas che ti prende?! Perché reagisci in questo modo?! Non sarai mica geloso del fatto che sia fidanzata?!", disse una vocina dentro di me.
A quella mia frase, Jennifer scoppiò a ridere e quasi si strozzò, per il troppo ridere. Subito bevve un bicchier d'acqua. Mi preoccupai per lei. Poi si riprese e rispose.
«Ma no, quale ragazzo. Non sono fidanzata», disse ancora ridendo. «Per "guardia personale" intendo la mia amata cagnolina, Nessie. È un pastore tedesco che ho preso con me quando sono arrivata qui un anno fa», precisò.
«Ah capisco. Scusami per aver pensato male»
«Nessun problema», sorrise.
Già era una bella ragazza per conto suo, ma quando rideva lo era di più. Però aspetta un attimo. Ha detto che il suo cane si chiama Nessie?! Vuoi vedere che...
«Hai detto che il tuo cane si chiama Nessie ed è un pastore tedesco, giusto?!», dissi.
«Si»
«Per caso vai al parco nazionale con lei?», domandai.
«Si, tutte le mattine prima di andare a lavoro. Perché me lo chiedi?»
«Anch'io ci vado con il mio cane, Jake. Anche lui è un pastore tedesco»
«Ah, ma allora eri tu il ragazzo dell'altro giorno?»
«Esatto!», risposi sorridendo.
«Wow chi l'avrebbe mai detto. Quando ti ho visto con Hayley avevo notato che avevi un viso familiare, ma non ricordavo dove ti avessi visto»
Entrambi ridemmo.
«Ora tocca a te parlarmi un po' della tua vita»
«Ok. Non sono americano. In realtà sono inglese. Vengo da Londra. Dopo essermi laureato in giurisprudenza, ho subito lavorato presso mio padre, il quale anche lui è un affermato avvocato. Gestisce la sede principale di New York. Ho due sorelle alle quali voglio un mondo di bene, Helen e Jessica. Con quest'ultima sono molto legato. Per lei farei qualsiasi cosa. Mia madre è una grandissima pittrice», le raccontai.
«Vivi da solo?», domandò.
«Si»
«La tua ragazza non vive con te?», domandò ancora.
La mia ragazza?
«Non sono fidanzato», risposi.
«Oh scusami, non volevo», disse timida.
«Non ti preoccupare»
«I tuoi famigliari li senti spesso?»
«Le mie sorelle e mia madre quasi tutti i giorni»
«E tuo padre?»
A quella domanda il mio umore cambiò. Il rapporto con mio padre non si poteva considerare un normale rapporto tra padre e figlio. Eravamo due perfetti estranei. Era così sin da quando decisi di non seguire la sua volontà di diventare il responsabile della sede di New York. Non mi sentivo adatto a quel ruolo. Preferii aprirmi un studio tutto mio e gestirlo da solo. All'inizio mio padre era contrario, poi mia madre riuscì a farlo ragionare e nonostante ciò, quelle poche volte che ci vedevamo durante le feste, non perdeva occasione di farmi sentire in colpa per la mia decisione. Ogni volta trovava in me mille difetti anche se non ce n'erano. Tutti pensavano o dicevano che ero un bravissimo avvocato, mentre lui diceva sempre il contrario. La cosa che più mi dava fastidio non era tanto il fatto che fosse di parere diverso dagli altri, ma il modo e il tono che usava per esprimersi. Non lo approvavo per niente. Ci andava pesante con le parole, facendomi sentire ogni volta una nullità. Meno male che a tirarmi su il morale c'erano, appunto, mia madre e le mie sorelle.
«Io e mio padre non ci sentiamo quasi mai perché abbiamo avuto qualche divergenza in passato. Il nostro rapporto non si potrebbe definire un rapporto tra padre e figlio. È come se fossimo due perfetti estranei», le risposi dopo un po'.
«Oh mi dispiace. È una cosa terribile! Non deve essere facile per te», disse. Sentivo nel suo tono di voce tutto il dispiacere possibile. Era come se fosse seriamente preoccupata per me, anche se non mi conosceva affatto.
«Non preoccuparti. Ormai ci ho fatto l'abitudine»
Prendemmo due caffè e pagai il conto per entrambi, non senza difficoltà visto che aveva insistito nel voler pagare la sua parte, e successivamente tornammo allo studio, dove riprendemmo a riesaminare il caso del signor King. Passammo tutto il pomeriggio a "studiare" il caso e, ancora una volta, senza rendercene conto si fece sera, così decidemmo che era arrivato il momento di tornare a casa. Uscimmo dall'edificio e ci salutammo, dandoci appuntamento al giorno dopo ed ognuno entrò nella propria macchina.

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