Laveno, 1 gennaio 1821

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"Cara Barbara, osservando questo lago, mi persuado di quanto il mio animo ne sia simile: sollecitato in superficie, s'increspa appena, e apparentemente nel profondo rimane immoto; ma solo da piccoli mulinelli si può intuire la violenza delle sue correnti sottostanti.

La mattina del primo giorno dell'anno è il momento ideale per trarre le somme del proprio vissuto, con lucidità e rimpianto, e sebbene doloroso, io non mi sottraggo. È necessario per poter iniziare con rinnovato spirito l'anno iniziato.

Nella tua precedente missiva chiedevi fin quando durerà questo confino: probabilmente fino alle mie nozze. Così mi ritrovo in questa sorta di esilio in attesa di compiere i 21 anni, e sposare il giovane col quale sono stata "persuasa" a fidanzarmi. La zia si è generosamente offerta di provvedere al mio corredo, come fece già per mia sorella Amelia; non è improbabile che io indossi la veste nuziale di una delle mie sorelle. Sono rimasta l'unica ancora da accasare, e negli ultimi tempi la mia presenza in casa era motivo di crescente insofferenza. Fin'ora ho sempre obbedito, nonostante gli ordini avversi al mio animo: ma ogni volta che ho cercato di far valere le mie ragioni, il mio Sig. Padre è riuscito a persuadermi a desistere, e ad obbedire.

Passeggiando dove il giardino scivola dolcemente verso il lago, dando di proposito le spalle alla villa a due piani, sormontata da mansarda timpanata, cerco di ignorare lo sguardo della zia, che mi controlla da dietro le finestre del primo piano. Il mio unico desiderio è di essere lasciata ai miei pensieri, e sebbene il freddo sia pungente, solo tra gli alberi secolari e contorti del parco mi sento libera. Una libertà breve, perché una domestica intirizzita avvolta in un pesante scialle presto mi raggiunge per invitarmi a rincasare su ordine della zia.

Fatico a staccarmi dalla balaustra in pietra e dal paesaggio che il lago offre: l'Isola Madre avvolta alla base da una coltre di nebbia che lascia intravedere solo gli alberi più alti e i tetti più sporgenti, come sospesa a mezz'aria su una nuvola, immersa in un cielo liquido dai riflessi argentati.

Mi sembra crudele parlarti di paesaggi aperti, di spazio, di luce, tu che hai scelto volontariamente di gettare il mondo alle spalle e chiuderti in monastero!

Lentamente mi avvio verso casa, accompagnata ad ogni passo dallo scricchiolio dell'erba gelata. All'edificio preferisco il giardino: gli ambienti parrebbero accoglienti, se la zia non avesse trasformato questa villa in un mausoleo: non per gli arredi, decisamente pesanti e di cattivo gusto, quanto per il fatto, che ovunque ci sono ritratti, e cimeli del figlio e del marito trapassati. Mi pare che mille occhi mi osservino dall'aldilà, e mi giudichino. Fatico a prender sonno, la notte, e tremo ad ogni scricchiolio. Appena rincasata, zia Ada al solito dice: <<Meno male che sei rientrata, con questo freddo. Non voglio che tuo padre poi si venga a lamentare che ti sei presa qualche malanno. Siediti qui, Nina... cioè Adele.>> Sono ormai abituata ad essere chiamata in altro modo: la zia come la cameriera Nina, i miei genitori come mia sorella maggiore Anna, quella sposata da più tempo, quella da imitare. Sovente mi considero un essere senza nome, senza identità, e mi stupisco quando qualcuno se lo ricorda.

Pensami sempre, amica mia. Tua Adele"

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