Diciannove

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Stringo tra le mani il foglio su cui ho riversato le mie emozioni. Stropiccio la carta con le dita che tremano, deglutisco a vuoto, infine serro le palpebre. Ripeto a me stesso che posso farcela. È una nenia ridondante, che mi infonde sicurezza, che tenta di scacciare la paura. Poi ritorno a fissare quelle parole, la grafia ordinata che si stende in inchiostro sulla pagina bianca.

Non gliel'ho scritto che la amo, a Lex. Non ci sono riuscito. Gliel'ho quasi urlato ieri sera ma non sono stato in grado di trasferirlo sul foglio. O forse sì, ho messo comunque su carta ciò che sento, ma quelle due parole le ho lasciate in sospeso.

Perché nella mia testa è ancora vivida l'immagine di me mentre digito convulsamente quelle lettere d'amore, per farglielo sapere a Serena che sarà mia per sempre anche se ormai lei non c'è più. Poi gli occhi di Alexandra si insinuano nei miei pensieri e mi convinco del fatto che non potrei vivere senza perdermici dentro. Arrivo alla conclusione che, anche se mia moglie sarà per sempre parte di me e del mio passato, Lex invece è il mio futuro, è sostegno sul sentiero in salita, è energia che illumina le tenebre.

Così mi arrendo, appoggio i polpastrelli sulla superficie dei tasti, inspiro profondamente e infine lascio che le dita scivolino sulla tastiera senza rimorso, mentre le scrivo l'amore, immaginando il momento in cui finalmente sarà in grado di leggere quanto lei sia vitale per me.









Mi guardo attorno leggermente intontito, passando velocemente in rassegna l'elenco che ho scrupolosamente seguito perché tutto fosse perfetto, esattamente come vorrei potesse vederlo Lex. Le lanterne illuminano il giardino, le onde brillano alla luce della luna, il pacchetto con un grosso fiocco blu prende posto sul tavolo basso circondato da cuscini.

Sì, ci spero ancora che sia un maschio, se è questo che vi state chiedendo. E ancora sì, continuerò a utilizzare nastri blu finché non mi diranno che mi sto sbagliando. Non che una piccola Alexandra non farebbe definitivamente capitolare il mio cuore, ma... ecco... già mi ci vedo a giocare a baseball nel parco con lui. Insomma, potrebbe chiamarsi Nicholas... o Daniel... opp-

«Chris, sei qui?»

La voce di Lex interrompe il flusso dei miei pensieri, obbligandomi a volgere lo sguardo in direzione del giardino per guardarla avanzare, i piedi nudi che procedono leggermente incerti affondando nell'erba, il bastone bianco che vaga alla ricerca di ostacoli.

Mi avvicino piano, riempiendomi gli occhi di quel sorriso meraviglioso che lei mi rivolge non appena riconosce l'incedere del mio passo, poi le afferro la mano libera intrecciando le dita alle sue. Mi lascio trasportare da un moto di leggera euforia, mentre sfioro con le labbra l'angolo della sua bocca, godendo dell'istante esatto in cui percepisco che sta trattenendo il respiro per poi lasciarlo uscire quasi non aspettasse altro da tutto il giorno.

Non la bacio, non ancora. La tengo volutamente in sospeso, quel tanto che basta per vederla mordersi il labbro inferiore, sicuramente indecisa se cercare la mia bocca o se aspettare che sia io a farlo. Ma invece di cedere all'istinto di riappropriarmi del suo calore mi scosto e la trascino con me, conducendola proprio dove ho sistemato quello che spero possa rappresentare per lei uno spiraglio di libertà, un mezzo per potersi orientare nel migliore dei modi all'interno della sua dimensione, quella attraverso la quale percepisce questo mondo.

Si accomoda a terra fissando inconsapevolmente la scatola dinnanzi a sé, poi, con una leggera smorfia in volto, dice: «Che cos'hai? Sei strano...»

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