Quattro

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Ci sono tornato almeno quattro volte. Qui alla panchina, intendo. Ci sono tornato quattro dannatissime volte, ma lei non c'era.

Mi guardo intorno, confuso, una mano tra i capelli corti a stringerne le punte in un pugno e il respiro affannoso. Come? Se sono venuto correndo? No, è questo il problema. Sono uscito dall'ufficio come una furia e ho fermato il primo taxi, poi mi sono fatto portare qui. Ma lei non c'è.

Lo so, so cosa state per dire... Pensate che sia un coglione per essermene andato in quel modo la sera del galà, e per non avere avuto il coraggio di chiedere a Matt se per caso avesse il numero di telefono di Alexandra.

Cosa? No, accidenti a voi! Non ho intenzione di invitarla a uscire o stronzate simili... sono solo... solo un po'... non so come spiegarlo... lei mi ricorda tanto...

«Ehi, amico! Ti senti bene?»

Mi volto di scatto, a quanto pare con l'aria di uno che ha appena ricevuto una padellata in faccia, perché il ragazzo che ho di fronte mi scruta attentamente, un sopracciglio alzato a confermare la mia ipotesi.

«Ciao Dean...» mormoro, lasciandomi cadere sul bordo della panchina. «Che cosa fai qui?»

«Ti ho cercato in ufficio e Matt mi ha detto di averti visto schizzare via come un pazzo... così mi ha suggerito di cercarti qui» spiega sedendosi accanto a me.

Lo osservo di sbieco, prima di chiedere: «Ti ha mandato Charlie, non è vero?»

«Non fare quella faccia, okay? Era preoccupata per te... Vi sentite così spesso che si è fatta prendere dal panico! Sono cinque giorni che non rispondi alle sue telefonate, Chris...»

Sbuffo e mi prendo la testa tra le mani, ingoiando le parole che vorrei urlare al vento. Lo so, sono un emerito stronzo, questi sono i miei amici, si stanno preoccupando per me e io li tratto come pezze da piedi... ma non posso lasciarmi andare di nuovo, non così, non come quando lei...

«Parla, Chris... Che cosa ti preoccupa tanto? È per via della solita email? Cosa ti ha scritto Se-»

«No! Va bene? Non voglio parlarne» ringhio alzandomi di scatto per andarmene.

Dean mi costringe a voltarmi con la forza, afferrandomi per un braccio. «La devi smettere, è chiaro?! Finiscila di fare il bambino! Abbiamo sofferto tutti per la perdita di Serena, tu più di noi, questo è certo, ma ciò non ti autorizza a fare lo stronzo con chi cerca di aiutarti! Non ci vuoi tra i piedi? Non vuoi Charlie, Matt o me? Va bene! Basta che tu lo dica e spariremo!»

Lo fisso per un lungo istante, tentando di reprimere quel vago senso di colpa che mi fermenta nel petto e che – ne sono certo – potrebbe sgretolare ad una ad una tutte le fottute certezze sulle quali, negli ultimi tre anni, ho costruito questa facciata impenetrabile. La convinzione di non aver bisogno di aiuto, la sicurezza di essere forte, la certezza di poter bastare a me stesso. Anche se ora... ora che ho visto quegli occhi... inizio ad avere qualche dubbio sul terzo punto. Lei mi ricorda Serena, dannazione! Me la ricorda in tutta la sua forza, in tutta la sua vitalità, nonostante i suoi problemi.

«Ti chiedo scusa, Dean» sussurro. «Di' a Charlie che per stasera va bene, andremo a quella festa a Santa Monica. Ci vediamo là.»

Mi incammino verso l'uscita del parco, abbandonandolo di fronte alla mia panchina. Dinnanzi al luogo che era mio e di mia moglie, proprio dove lei ha mormorato per l'ultima volta quelle dannate parole, poco prima che la sua anima scivolasse via dal suo corpo, lasciandomi solo a contemplare il tramonto.



La musica mi rimbomba nel petto, assopendo il rumore dei battiti del mio cuore, mentre mi faccio largo tra la folla per raggiungere la mia meta: il bar.

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